Mastro-don Gesualdo

Mastro-don Gesualdo

Dopo la parentesi costituita dal romanzo minore Il marito di Elena (1882), una stanca ripresa dei motivi erotico-mondani tipici della produzione milanese, Verga torna al progetto dei Vinti e al mondo rusticano della Sicilia. Il frutto di questo lavoro, al termine di una lunga elaborazione, è Mastro-don Gesualdo, pubblicato sulla rivista “Nuova Antologia” nel 1888 e in volume nel 1889.
Ambientato nella prima parte dell’Ottocento, il romanzo vede come protagonista Gesualdo Motta, un manovale siciliano che, grazie alla sua ambizione, diventa un proprietario terriero, meritandosi anche il titolo di “don”, riservato ai notabili. Arricchitosi superando avversità d’ogni sorta, egli è però circondato dalla malignità e dall’invidia dei rivali e dei parenti, specialmente quando decide di recidere il legame con l’ambiente dal quale proviene (abbandonando anche la serva-amante Diodata, dalla quale ha avuto due figli) e di sposare una nobile decaduta, Bianca Trao, pur di suggellare la propria ascesa sociale. Questo matrimonio segna l’inizio della fine per Gesualdo: la moglie lo considera un estraneo e la figlia Isabella (probabilmente non sua) non gli riserva affetto, anche perché costretta a sposare un vecchio nobile cinico e spiantato, il duca di Leyra, pur amando il cugino Corrado. Rinchiusosi sempre più in sé stesso dopo la morte di Bianca, Gesualdo si ammala. Solo e disprezzato da tutti, viene portato nel palazzo palermitano dove vivono la figlia e il genero, il quale scialacqua le ricchezze che il suocero ha accumulato. Muore infine tra atroci sofferenze, schernito dalla servitù.
Al posto della piccola comunità che fa da sfondo alle vicende dei Malavoglia, qui è descritto il quadro più complesso di un borgo rurale in cui si muovono individui diversi appartenenti alle varie classi sociali. Nuovi ricchi si mescolano a umili artigiani e contadini, aristocratici a faccendieri ed esponenti del clero, ma tutti indistintamente – nobili, borghesi e plebei – risultano asserviti a una sola, gretta morale utilitaristica. Ognuno, infatti, appare chiuso nell’ossessiva difesa del proprio egoistico interesse, schiavo di una vera e propria religione della «roba» che ha rimosso ogni idea di Dio e sacrificato affetti e legami.
Anche Gesualdo ha consacrato la propria vita al feticcio dei beni materiali, integrandosi con apparente successo nel meccanismo del profitto. A prima vista, egli è un personaggio epico e, al tempo stesso, romanzesco, il prototipo dell’arrampicatore di successo che è riuscito a scalare le vette più alte della gerarchia sociale. Tuttavia, nell’emanciparsi dalla povertà, ha preparato il proprio fallimento come uomo: non soddisfatto della ricchezza accumulata, ha preteso di essere accolto tra i potenti, sancendo la sua nuova posizione con un matrimonio di interesse. Non solo però egli sarà rifiutato dai nobili, ma verrà ripudiato anche dalla famiglia d’origine, che si sentirà tradita e sconfessata. Da questo punto di vista, il trattino che Verga appone nel titolo tra gli epiteti di «Mastro» e «don» non costituisce un dettaglio ortografico irrilevante, ma rappresenta la condizione in cui vive il protagonista, a metà tra due mondi inconciliabili, che lo respingono: troppo ricco per essere un villano come gli altri, troppo umile di nascita per poter essere accettato dal mondo della nobiltà.
Gesualdo è dunque, negli affetti, un “vinto”, condannato dalla sua stessa ambizione e dal destino che si abbatte inesorabilmente su quanti scelgono di abbandonare la propria condizione tradendo il codice severo delle origini popolari e contadine. E, per di più, Gesualdo è un vinto anche nella sua «roba», che ha accumulato con tanta parsimonia e, ormai morente, vede dissipata dal genero. Nella figura del protagonista, Verga rispecchia tutto il suo antiromantico, spietato pessimismo. Tramontato ogni mito positivo, con lucida e distaccata determinazione egli esprime una visione critica che sottopone a riesame ogni illusione, a partire dalla fede nella solidarietà familiare fino al mito del progresso sociale.

 >> pagina 282

L’intreccio di fatti e personaggi con cui si dipana la vicenda del romanzo trova corrispondenza anche sul piano formale. Mentre nei Malavoglia all’omogeneità ambientale corrisponde una certa uniformità stilistica, nel Mastro-don Gesualdo troviamo una pluralità di moduli espressivi, di voci e di punti di vista. La tecnica del racconto muta a seconda della fisionomia psicologica e sociale dei vari personaggi, sui quali si proietta talvolta il gusto della deformazione grottesca o, addirittura, della caricatura. Questa scelta, che potremmo definire “espressionistica”, si spiega con la volontà dell’autore di smascherare le apparenze e l’ipocrisia quotidiana. Quello di Verga, qui, è uno sguardo ironico e distruttivo che mostra la bestialità amorale di un universo degenerato e privo di ogni idealità positiva.

T12

La morte di Gesualdo

Mastro-don Gesualdo, IV, cap. 5

Riportiamo le pagine finali del romanzo. Gesualdo, nel palazzo ducale del genero, assiste impotente e rassegnato al disfacimento di tutto ciò che ha costruito. Abbandonato dai familiari, rifiutato dalla nobiltà, egli vorrebbe almeno stabilire un dialogo sincero con la figlia Isabella. Ma ciò non è possibile e il vecchio muore in una solitudine senza affetti, dopo una straziante agonia sotto lo sguardo malevolo della servitù.

Parve a don Gesualdo d’entrare in un altro mondo, allorché fu in casa della figliuola.
Era un palazzone così vasto che ci si smarriva dentro. Da per tutto cortinaggi1
e tappeti che non si sapeva dove mettere i piedi – sin dallo scalone di marmo – e
il portiere, un pezzo grosso addirittura, con tanto di barba e di soprabitone, vi
5      squadrava dall’alto al basso, accigliato, se per disgrazia avevate una faccia che non
lo persuadesse, e vi gridava dietro dal suo gabbione: «C’è lo stoino2 per pulirsi le
scarpe!». Un esercito di mangiapane,3 staffieri4 e camerieri, che sbadigliavano a
bocca chiusa, camminavano in punta di piedi, e vi servivano senza dire una parola
o fare un passo di più, con tanta degnazione da farvene passar la voglia.5 Ogni
10    cosa regolata a suon di campanello, con un cerimoniale di messa cantata6 – per
avere un bicchier d’acqua, o per entrare nelle stanze della figliuola. Lo stesso duca,
all’ora di pranzo, si vestiva come se andasse a nozze.
Il povero don Gesualdo, nei primi giorni, s’era fatto animo per contentare la
figliuola, e s’era messo in gala7 anche lui per venire a tavola, legato e impastoiato,8
15    con un ronzìo nelle orecchie, le mani esitanti, l’occhio inquieto, le fauci strette9 da
tutto quell’apparato, dal cameriere che gli contava i bocconi dietro le spalle, e di
cui ogni momento vedevasi il guanto di cotone allungarsi a tradimento e togliervi
la roba dinanzi. L’intimidiva pure la cravatta bianca del genero, le credenze alte e
scintillanti come altari, e la tovaglia finissima, che s’aveva sempre paura di lasciarvi
20    cadere qualche cosa. Tanto che macchinava di prendere a quattr’occhi la figliuola,
e dirle il fatto suo. Il duca, per fortuna, lo tolse d’impiccio, dicendo ad Isabella,
dopo il caffè, col sigaro in bocca e il capo appoggiato alla spalliera del seggiolone:
«Mia cara, d’oggi innanzi credo che sarebbe meglio far servire papà nelle sue
stanze. Avrà le sue ore, le sue abitudini… Poi, col regime speciale che richiede il
25    suo stato di salute…».10
«Certo, certo», balbettò don Gesualdo. «Stavo per dirvelo… Sarei più contento
anch’io… Non voglio essere d’incomodo…».
«No. Non dico per questo. Voi ci fate a ogni modo piacere, caro mio».
Egli si mostrava proprio un buon figliuolo col suocero. Gli riempiva il bicchierino;
30    lo incoraggiava a fumare un sigaro; lo assicurava infine che gli trovava miglior
cera, da che era arrivato a Palermo, e il cambiamento d’aria e una buona cura
l’avrebbero guarito del tutto. Poi gli toccò anche il tasto degli interessi. Mostravasi
giudizioso; cercava il modo e la maniera d’avere il piacere di tenersi il suocero in
casa un pezzo, senza timore che gli affari di lui andassero a rotta di collo…11 Una
35    procura generale… una specie d’alter ego12 Don Gesualdo si sentì morire il sorriso
in bocca. Non c’era che fare. Il genero, nel viso, nelle parole, sin nel tono della
voce, anche quando voleva fare l’amabile e pigliarvi bel bello, aveva qualcosa che
vi respingeva indietro, e vi faceva cascar le braccia, uno che avesse voluto buttargliele
al collo, proprio come a un figlio, e dirgli:
40    «Tè! per la buona parola, adesso! Pazienza il resto! Fai quello che vuoi!».
Talché don Gesualdo scendeva raramente dalla figliuola. Ci si sentiva a disagio
col signor genero; temeva sempre che ripigliasse l’antifona13 dell’alter ego. Gli mancava
l’aria, lì fra tutti quei ninnoli. Gli toccava chiedere quasi licenza al servitore
che faceva la guardia in anticamera per poter vedere la sua figliuola, e scapparsene
45    appena giungeva qualche visita. L’avevano collocato in un quartierino al pian di
sopra, poche stanze che chiamavano la foresteria, dove Isabella andava a vederlo
ogni mattina, in veste da camera, spesso senza neppure mettersi a sedere, amorevole
e premurosa, è vero, ma in certo modo che al pover’uomo sembrava d’essere
davvero un forestiero. Essa alcune volte era pallida così che pareva non avesse
50    chiuso occhio neppur lei. Aveva una certa ruga fra le ciglia, qualcosa negli occhi,
che a lui, vecchio e pratico del mondo, non andavan punto a genio. Avrebbe voluto
pigliarsi anche lei fra le braccia, stretta stretta, e chiederle piano in un orecchio:
«Cos’hai?… dimmelo!… Confidati a me che dei guai ne ho passati tanti, e non
posso tradirti!».
55    Ma anch’essa ritirava le corna come fa la lumaca. Stava chiusa, parlava di rado
anche della mamma, quasi il chiodo le fosse rimasto lì, fisso… accusando lo stomaco
peloso dei Trao,14 che vi chiudevano il rancore e la diffidenza, implacabili!
Perciò lui doveva ricacciare indietro le parole buone e anche le lagrime, che gli
si gonfiavano grosse grosse dentro, e tenersi per sé i propri guai. Passava i giorni
60    malinconici dietro l’invetriata,15 a veder strigliare i cavalli e lavare le carrozze, nella
corte vasta quanto una piazza. Degli stallieri, in manica di camicia e coi piedi nudi
negli zoccoli, cantavano, vociavano, barattavano delle chiacchiere e degli strambotti16
coi domestici, i quali perdevano il tempo alle finestre, col grembialone sino al
collo, o in panciotto rosso, strascicando svogliatamente uno strofinaccio fra le mani
65    ruvide, con le barzellette sguaiate, dei musi beffardi di mascalzoni ben rasi e ben
pettinati che sembravano togliersi allora una maschera. I cocchieri poi, degli altri
pezzi grossi, stavano a guardare, col sigaro in bocca e le mani nelle tasche delle giacchette
attillate, discorrendo di tanto in tanto col guardaportone che veniva dal suo
casotto a fare una fumatina, accennando con dei segni e dei versacci alle cameriere
70    che si vedevano passare dietro le invetriate dei balconi, oppure facevano capolino
provocanti, sfacciate, a buttar giù delle parolacce e delle risate di male femmine con
certi visi da Madonna. Don Gesualdo pensava intanto quanti bei denari dovevano
scorrere per quelle mani; tutta quella gente che mangiava e beveva alle spalle di
sua figlia, sulla dote che egli le aveva dato, su l’Alìa e su Donninga,17 le belle terre
75    che aveva covato cogli occhi tanto tempo, sera e mattina, e misurato col desiderio,
e sognato la notte, e acquistato palmo a palmo, giorno per giorno, togliendosi il
pane di bocca: le povere terre nude che bisognava arare e seminare; i mulini, le
case, i magazzini che aveva fabbricato con tanti stenti, con tanti sacrifici, un sasso
dopo l’altro. La Canziria, Mangalavite, la casa, tutto, tutto sarebbe passato per quelle
80    mani. Chi avrebbe potuto difendere la sua roba dopo la sua morte, ahimé, povera
roba! Chi sapeva quel che era costata? Il signor duca, lui, quando usciva di casa,
a testa alta, col sigaro in bocca e il pomo del bastoncino nella tasca del pastrano,
fermavasi appena a dare un’occhiata ai suoi cavalli, ossequiato come il Santissimo
Sagramento, le finestre si chiudevano in fretta, ciascuno correva al suo posto, tutti a
85    capo scoperto, il guardaportone col berretto gallonato18 in mano, ritto dinanzi alla
sua vetrina, gli stallieri immobili accanto alla groppa delle loro bestie, colla striglia
appoggiata all’anca, il cocchiere maggiore, un signorone, piegato in due a passare
la rivista e prendere gli ordini: una commedia che durava cinque minuti. Dopo, appena
lui voltava le spalle, ricominciava il chiasso e la  baraonda, dalle finestre, dalle
90    arcate del portico che metteva alle scuderie, dalla cucina che fumava e fiammeggiava
sotto il tetto, piena di sguatteri vestiti di bianco, quasi il palazzo fosse abbandonato
in mano a un’orda famelica, pagata apposta per scialarsela19 sino al tocco della campana
che annunziava qualche visita – un’altra solennità anche quella. – La duchessa
certi giorni si metteva in pompa magna ad aspettare le visite come un’anima di
95    purgatorio.20 Arrivava di tanto in tanto una carrozza fiammante; passava come un
lampo dinanzi al portinaio, che aveva appena il tempo di cacciare la pipa nella falda
del soprabito e di appendersi alla campana;21 delle dame e degli staffieri in gala sguisciavano
frettolosi sotto l’alto vestibolo, e dopo dieci minuti tornavano ad uscire per
correre altrove a rompicollo; proprio della gente che sembrava presa a giornata per
100  questo. Lui invece passava il tempo a contare le tegole dirimpetto, a calcolare, con
l’amore e la sollecitudine del suo antico mestiere,22 quel che erano costate le finestre
scolpite, i pilastri massicci, gli scalini di marmo, quei mobili sontuosi, quelle stoffe,
quella gente, quei cavalli che mangiavano, e inghiottivano il denaro come la terra
inghiottiva la semente, come beveva l’acqua, senza renderlo però, senza dar frutto,
105  sempre più affamati, sempre più divoranti, simili a quel male che gli consumava le
viscere. Quante cose si sarebbero potute fare con quel denaro! Quanti buoni colpi
di zappa, quanto sudore di villani si sarebbero pagati! Delle fattorie, dei villaggi
interi da fabbricare… delle terre da seminare, a perdita di vista…23 E un esercito
di mietitori a giugno, del grano da raccogliere a montagne, del denaro a fiumi da
110  intascare!… Allora gli si gonfiava il cuore al vedere i passeri che schiamazzavano
su quelle tegole, il sole che moriva sul cornicione senza scendere mai giù sino alle
finestre. Pensava alle strade polverose, ai bei campi dorati e verdi, al cinguettìo lungo
le siepi, alle belle mattinate che facevano fumare i solchi!… Oramai!… oramai!…
Adesso era chiuso fra quattro mura, col brusìo incessante della città negli orecchi,
115  lo scampanìo di tante chiese che gli martellava sul capo, consumato lentamente
dalla febbre, roso dai dolori che gli facevano mordere il guanciale, a volte,
per non seccare il domestico che sbadigliava nella stanza accanto. Nei primi giorni,
il cambiamento, l’aria nuova, forse anche qualche medicina indovinata, per
sbaglio, avevano fatto il miracolo, gli avevano fatto credere di potersi guarire.24
120  Dopo era ricaduto peggio di prima. Neppure i migliori medici di Palermo avevano
saputo trovar rimedio a quella malattia scomunicata!25 tal quale come i medici
ignoranti del suo paese, e costavano di più, per giunta! Venivano l’uno dopo l’altro,
dei dottoroni che tenevano carrozza, e si facevano pagare anche il servitore
che lasciavano in anticamera. L’osservavano, lo tastavano, lo interrogavano quasi
125  avessero da fare con un ragazzo o un contadino. Lo mostravano agli apprendisti
come il zanni26 fa vedere alla fiera il gallo con le corna, oppure la pecora con due
code, facendo la spiegazione con parole misteriose. Rispondevano appena, a fior
di labbra, se il povero diavolo si faceva lecito27 di voler sapere che malattia covava
in corpo, quasi egli non avesse che vederci, colla sua pelle!28 Gli avevano fatto
130  comperare anch’essi un’intera farmacia: dei rimedi che si contavano a gocce, come
l’oro, degli unguenti che si spalmavano con un pennello e aprivano delle piaghe
vive, dei veleni che davano delle coliche più forti e mettevano come del rame nella
bocca, dei bagni e dei sudoriferi che lo lasciavano sfinito, senza forza di muovere
il capo, vedendo già l’ombra della morte da per tutto.
135  «Signori miei, a che giuoco giuochiamo?», voleva dire. «Allora, se è sempre la
stessa musica, me ne torno al mio paese…».
Almeno laggiù lo rispettavano pei suoi denari, e lo lasciavano sfogare, se
pretendeva di sapere come li spendeva per la sua salute. Mentre qui gli pareva d’essere
all’ospedale, curato per carità. Doveva stare in suggezione anche del genero che veniva
140  ad accompagnare i pezzi grossi chiamati a consulto. Parlavano sottovoce fra
di loro, voltandogli le spalle, senza curarsi di lui che aspettava a bocca aperta una
parola di vita o di morte. Oppure gli facevano l’elemosina di una risposta che non
diceva niente, di un sorrisetto che significava addirittura «Arrivederci in Paradiso,
buon uomo!». C’erano persino di quelli che gli voltavano le spalle, come si tenessero
145  offesi. Egli indovinava che doveva essere qualche cosa di grave, al viso stesso
che facevano i medici, alle alzate di spalle scoraggianti, alle lunghe fermate col
genero, e al borbottìo che durava un pezzo fra di loro in anticamera. Infine non si
tenne più. Un giorno che quei signori tornavano a ripetere la stessa pantomima,29
ne afferrò uno per la falda, prima d’andarsene.
150  «Signor dottore, parlate con me! Sono io il malato, infine! Non sono un ragazzo.
Voglio sapere di che si tratta, giacché si giuoca sulla mia pelle!».
Colui invece cominciò a fare una scenata col duca, quasi gli si fosse mancato
di rispetto in casa sua. Ci volle del bello e del buono per calmarlo, e perché non
piantasse lì malato e malattia una volta per sempre. Don Gesualdo udì che gli
155  dicevano sottovoce:
«Compatitelo… Non conosce gli usi… È un uomo primitivo… nello stato di
natura…». Sicché il poveraccio dovette mandar giù tutto, e rivolgersi alla figliuola,
per sapere qualche cosa.
«Che hanno detto i medici? Dimmi la verità?… È una malattia grave, di’?…».
160  E come le vide gonfiare negli occhi le lagrime, malgrado che tentasse di cacciarle
indietro, infuriò. Non voleva morire. Si sentiva un’energia disperata d’alzarsi
e andarsene via da quella casa maledetta.
«Non dico per te… Hai fatto di tutto… Non mi manca nulla… Ma io non ci
sono avvezzo, vedi… Mi par di soffocare qui dentro…».
165  Neppur lei non ci stava bene in quella casa. Il cuore glielo diceva, al povero
padre. Sembrava che fossero in perfetto accordo, marito e moglie; discorrevano
cortesemente fra di loro, dinanzi ai domestici; il duca passava quasi sempre una
mezz’oretta nel salottino della moglie dopo pranzo; andava a darle il buon giorno
ogni mattina, prima della colazione; per i Morti, a Natale, per la festa di Santa
170  Rosalia,30 e nella ricorrenza del suo onomastico o dell’anniversario del loro matrimonio,
le regalava dei gioielli, che essa aveva fatto ammirare al babbo, in prova
del bene che le voleva il marito.
«Ah, ah… capisco… dev’essere costata una bella somma!… Però non sei contenta…
si vede benissimo che non sei contenta…».
175  Leggeva in fondo agli occhi di lei un altro segreto, un’altra ansietà mortale, che
non la lasciava neppure quand’era vicino a lui, che le dava dei sussulti, allorché udiva
un passo all’improvviso, o suonava ad ora insolita la campana che annunziava il
duca; e dei pallori mortali, certi sguardi rapidi in cui gli pareva di scorgere un rimprovero.
Alcune volte l’aveva vista giungere correndo, pallida, tremante come una
180  foglia, balbettando delle scuse. Una notte, tardi, mentre era in letto coi suoi guai,
aveva udito un’agitazione insolita nel piano di sotto, degli usci che sbattevano, la
voce della cameriera che strillava, quasi chiamasse aiuto, una voce che lo fece rizzare
spaventato sul letto. Ma sua figlia il giorno dopo non gli volle dir nulla; sembrava
anzi che le sue domande l’infastidissero. Misuravano fino le parole e i sospiri in
185  quella casa, ciascuno chiudendosi in corpo i propri guai, il duca col sorriso freddo,
Isabella con la buona grazia che le aveva fatto insegnare in collegio. Le tende e i
tappeti soffocavano ogni cosa. Però, quando se li vedeva dinanzi a lui, marito e moglie,
così tranquilli, che nessuno avrebbe sospettato quel che covava sotto, si sentiva
freddo nella schiena.
190  Del resto, che poteva farci? Ne aveva abbastanza dei suoi guai. Il peggio di
tutti stava lui che aveva la morte sul collo. Quand’egli avrebbe chiuso gli occhi
tutti gli altri si sarebbero data pace, come egli stesso s’era data pace dopo la morte
di suo padre e di sua moglie. Ciascuno tira l’acqua al suo mulino. Ne aveva data
tanta dell’acqua per far macinare gli altri! Speranza, Diodata,31 tutti gli altri… un
195  vero fiume. Anche lì, in quel palazzo di cuccagna, era tutto opera sua; e intanto
non trovava riposo fra i lenzuoli di tela fine, sui guanciali di piume; soffocava fra
i cortinaggi e le belle stoffe di seta che gli toglievano il sole. I denari che spendeva
per far andare la baracca, i rumori della corte, il cameriere che gli tenevano dietro
l’uscio a contargli i sospiri, insino al cuoco che gli preparava certe brode insipide
200  che non riusciva a mandar giù, ogni cosa l’attossicava;32 non digeriva più neanche
i bocconi prelibati, erano tanti chiodi nelle sue carni.
«Mi lasciano morir di fame, capisci!», lagnavasi colla figliuola, alle volte, cogli
occhi accesi dalla disperazione. – Non è per risparmiare… Sarà della roba buona…
Ma il mio stomaco non c’è avvezzo… Rimandatemi a casa mia. Voglio chiuder
205  gli occhi dove son nato!».

[Gesualdo, sentendo la fine vicina, vuole stilare il testamento. Poi ha un ultimo dialogo con
la figlia.]
Ansimava perché aveva il fiato corto, ed anche per l’emozione. Guardava intorno,
sospettoso, e seguitava ad accennare del capo, in silenzio, col respiro affannato.
Ella pure volse verso l’uscio gli occhi pieni di lagrime. Don Gesualdo alzò la mano
scarna, e trinciò una croce in aria,33 per significare ch’era finita, e perdonava a tutti,34
210  prima d’andarsene.
«Senti… Ho da parlarti… intanto che siamo soli…».
Ella gli si buttò addosso, disperata, piangendo, singhiozzando di no, di no,
colle mani erranti35 che l’accarezzavano. L’accarezzò anche lui sui capelli, lentamente,
senza dire una parola. Di lì a un po’ riprese:
215  «Ti dico di sì. Non sono un ragazzo… Non perdiamo tempo inutilmente». Poi
gli venne una tenerezza. «Ti dispiace, eh?… ti dispiace a te pure?…».36
La voce gli si era intenerita anch’essa, gli occhi, tristi, s’erano fatti più dolci, e
qualcosa gli tremava sulle labbra. «Ti ho voluto bene… anch’io… quanto ho potuto…
come ho potuto… Quando uno fa quello che può…».37
220  Allora l’attirò a sé lentamente, quasi esitando, guardandola fisso per vedere se
voleva lei pure, e l’abbracciò stretta stretta, posando la guancia ispida su quei bei
capelli fini.
«Non ti fo male, di’?… come quand’eri bambina?…».38
Gli vennero insieme delle altre cose sulle labbra, delle ondate di amarezza
225  e di passione, quei sospetti odiosi39 che dei bricconi, nelle questioni d’interessi,
avevano cercato di mettergli in capo. Si passò la mano sulla fronte, per ricacciarli
indietro, e cambiò discorso.
«Parliamo dei nostri affari.40 Non ci perdiamo in chiacchiere, adesso…».
Essa non voleva, smaniava per la stanza, si cacciava le mani nei capelli, diceva
230  che gli lacerava il cuore, che gli pareva un malaugurio, quasi suo padre stesse per
chiudere gli occhi.
«Ma no, parliamone!», insisteva lui. «Sono discorsi serii. Non ho tempo da
perdere adesso». Il viso gli si andava oscurando,41 il rancore antico gli corruscava42
negli occhi. «Allora vuol dire che non te ne importa nulla… come a tuo
235  marito…».
Vedendola poi rassegnata ad ascoltare, seduta a capo chino accanto al letto,
cominciò a sfogarsi dei tanti crepacuori43 che gli avevano dati, lei e suo marito,
con tutti quei debiti… Le raccomandava la sua roba, di proteggerla, di difenderla:
«Piuttosto farti tagliare la mano, vedi!… quando tuo marito torna a proporti
240  di firmare delle carte!… Lui non sa cosa vuol dire!». Spiegava quel che gli erano
costati, quei poderi, l’Alìa, la Canziria, li passava tutti in rassegna amorosamente;
rammentava come erano venuti a lui, uno dopo l’altro, a poco a poco, le terre
seminative, i pascoli, le vigne; li descriveva minutamente, zolla per zolla, colle
qualità buone o cattive. Gli tremava la voce, gli tremavano le mani, gli si accendeva
245  tuttora il sangue in viso, gli spuntavano le lagrime agli occhi: «Mangalavite,
sai… la conosci anche tu… ci sei stata con tua madre… Quaranta salme44 di terreni,
tutti alberati!… ti rammenti… i belli aranci?… anche tua madre, poveretta,
ci si rinfrescava la bocca, negli ultimi giorni!… 300 migliaia l’anno, ne davano!
Circa 300 onze!45 E la Salonia… dei seminati d’oro… della terra che fa miracoli…
250  benedetto sia tuo nonno che vi lasciò le ossa!…».
Infine, per la tenerezza, si mise a piangere come un bambino.
«Basta», disse poi. «Ho da dirti un’altra cosa… Senti…».
La guardò fissamente negli occhi pieni di lagrime per vedere l’effetto che
avrebbe fatto la sua volontà. Le fece segno di accostarsi ancora, di chinarsi su lui
255  supino che esitava e cercava le parole.
«Senti!… Ho degli scrupoli di coscienza… Vorrei lasciare qualche legato46 a
delle persone47 verso cui ho degli obblighi… Poca cosa… Non sarà molto per te
che sei ricca… Farai conto di essere48 una regalìa che tuo padre ti domanda… in
punto di morte… se ho fatto qualcosa anch’io per te…».
260  «Ah, babbo, babbo!… che parole!», singhiozzò Isabella.
«Lo farai, eh? lo farai?… anche se tuo marito non volesse…».
Le prese le tempie fra le mani, e le sollevò il viso per leggerle negli occhi se
l’avrebbe ubbidito, per farle intendere che gli premeva proprio, e che ci aveva quel
segreto in cuore. E mentre la guardava, a quel modo, gli parve di scorgere anche
265  lui quell’altro segreto,49 quell’altro cruccio nascosto, in fondo agli occhi della figliuola.
E voleva dirle delle altre cose, voleva farle altre domande, in quel punto,
aprirle il cuore come al confessore, e leggere nel suo. Ma ella chinava il capo, quasi
avesse indovinato, colla ruga ostinata dei Trao fra le ciglia, tirandosi indietro, chiudendosi
in sé, superba, coi suoi guai e il suo segreto. E lui allora sentì di tornare
270  Motta, com’essa era Trao,50 diffidente, ostile, di un’altra pasta. Allentò le braccia,51
e non aggiunse altro.
«Ora fammi chiamare un prete», terminò con un altro tono di voce.52 «Voglio
fare i miei conti con Domeneddio».
Durò ancora qualche altro giorno così, fra alternative di meglio e di peggio.53
275  Sembrava anzi che cominciasse a riaversi un poco, quando a un tratto, una notte,
peggiorò rapidamente. Il servitore che gli avevano messo a dormire nella stanza
accanto l’udì agitarsi e smaniare prima dell’alba. Ma siccome era avvezzo a quei
capricci, si voltò dall’altra parte, fingendo di non udire. Infine, seccato da quella
canzone54 che non finiva più, andò sonnacchioso a vedere che c’era.
280  «Mia figlia!», borbottò don Gesualdo con una voce che non sembrava più la
sua. «Chiamatemi mia figlia!».
«Ah, sissignore. Ora vado a chiamarla», rispose il domestico, e tornò a coricarsi.
Ma non lo lasciava dormire quell’accidente! Un po’ erano sibili, e un po’ faceva
peggio di un contrabbasso, nel russare. Appena il domestico chiudeva gli occhi
285  udiva un rumore strano che lo faceva destare di soprassalto, dei guaiti rauchi,
come uno che sbuffasse ed ansimasse, una specie di rantolo che dava noia e vi
accapponava la pelle. Tanto che infine dovette tornare ad alzarsi, furibondo, masticando55
delle bestemmie e delle parolacce.
«Cos’è? Gli è venuto l’uzzolo56 adesso? Vuol passar mattana!57 Che cerca?».
290  Don Gesualdo non rispondeva; continuava a sbuffare supino. Il servitore tolse58
il paralume, per vederlo in faccia. Allora si fregò bene gli occhi, e la voglia di
tornare a dormire gli andò via a un tratto.
«Ohi! ohi! Che facciamo adesso?», balbettò grattandosi il capo.
Stette un momento a guardarlo così, col lume in mano, pensando se era meglio
295  aspettare un po’, o scendere subito a svegliare la padrona e mettere la casa sottosopra.
Don Gesualdo intanto andavasi calmando, col respiro più corto, preso da
un tremito, facendo solo di tanto in tanto qualche boccaccia, cogli occhi sempre
fissi e spalancati. A un tratto s’irrigidì e si chetò del tutto. La finestra cominciava
a imbiancare.59 Suonavano le prime campane. Nella corte udivasi scalpitare dei
300  cavalli, e picchiare di striglie60 sul selciato. Il domestico andò a vestirsi, e poi tornò
a rassettare la camera. Tirò le cortine del letto,61 spalancò le vetrate, e s’affacciò a
prendere una boccata d’aria, fumando.
Lo stalliere, che faceva passeggiare un cavallo malato, alzò il capo verso la
finestra.
305  «Mattinata, eh, don Leopoldo?».
«E nottata pure!», rispose il cameriere sbadigliando. «M’è toccato a me questo
regalo!».
L’altro scosse il capo, come a chiedere che c’era di nuovo, e don Leopoldo fece
segno che il vecchio se n’era andato, grazie a Dio.
310  «Ah… così… alla chetichella?…», osservò il portinaio che strascicava la scopa
e le ciabatte per l’androne.
Degli altri domestici s’erano affacciati intanto, e vollero andare a vedere. Di lì
a un po’ la camera del morto si riempì di gente in manica di camicia e colla pipa
in bocca. La guardarobiera vedendo tutti quegli uomini alla finestra dirimpetto
315  venne anche lei a far capolino nella stanza accanto.
«Quanto onore, donna Carmelina! Entrate pure; non vi mangiamo mica… E
neanche lui… non vi mette più le mani addosso di sicuro…».
«Zitto, scomunicato!… No, ho paura, poveretto… Ha cessato di penare».
«Ed io pure», soggiunse don Leopoldo.
320  Così, nel crocchio, narrava le noie che gli aveva date quel cristiano – uno che
faceva della notte giorno, e non si sapeva come pigliarlo, e non era contento mai.
«Pazienza servire quelli che realmente son nati meglio di noi… Basta, dei morti
non si parla».
«Si vede com’era nato…»,62 osservò gravemente il cocchiere maggiore. «Guardate
325  che mani!».
«Già, son le mani che hanno fatto la pappa!63…Vedete cos’è nascer fortunati…
Intanto vi muore nella battista64 come un principe!…».
«Allora», disse il portinaio, «devo andare a chiudere il portone?».65
«Sicuro, eh! È roba di famiglia. Adesso bisogna avvertire la cameriera della
330  signora duchessa».
 >> pagina 290

DENTRO IL TESTO

I contenuti tematici

Come avviene nella novella La roba ( T11, p. 275), anche in Mastro-don Gesualdo la morte rivela il fallimento della vicenda umana del protagonista: accolto malato e stanco nella dimora della figlia Isabella, egli trascorre gli ultimi giorni come un forestiero (r. 49), oggetto delle ipocrite attenzioni del genero e della fredda indifferenza della figlia, che non gli perdona di averla costretta a un matrimonio infelice al solo fine di garantirsi un titolo nobiliare prestigioso. Perfino i servi, sfaccendati nell’indolente organizzazione della casa, lo guardano con disprezzo, invidiosi della scalata sociale realizzata da un uomo dalle origini umili come le loro.

 >> pagina 291

Proprio alla fine dell’esistenza, Gesualdo capisce l’inutilità della ricchezza, unica ragione della sua vita operosa. Ora che la solitudine in cui è immerso non è più riscattata dal lavoro e dalla lotta, che lo avevano tenuto impegnato celandogli l’ostilità del mondo, intuisce che la roba sta per sfuggirgli e sarà presto destinata alla rovina. Le terre abbandonate, lo spreco delle risorse, i lussi della casa gli fanno comprendere di essere uno sconfitto non soltanto sul piano degli affetti, ma anche su quello della roba che, per una sorta di spietata legge del contrappasso, sarà dissipata dal genero spiantato e scialacquatore.

Il destino di Gesualdo è pertanto quello di un tragico «personaggio bifronte» (Cigliana), nuovo padrone invidiato dai suoi, ma anche vilipeso dai galantuomini in quanto parvenu, bifolco rifatto. La sua scalata sociale si è trasformata in un fallimento umano doloroso e in un isolamento che è la conseguenza della rottura del patto di solidarietà con la classe sociale da cui proviene.

Anch’egli, come Mazzarò, ha costruito, mantenuto e accresciuto il proprio patrimonio grazie alla fatica e al sacrificio. Tuttavia, mentre Mazzarò, chiuso nella propria grettezza, non può concepire altro che un perpetuo bisogno di possesso, Gesualdo si concede un’infrazione che si rivelerà fatale: il matrimonio. Per quanto tale decisione sia sempre dettata da motivi di convenienza, essa è di fatto la causa di tutti i suoi mali, economici e affettivi.

La sconfitta del personaggio matura tragicamente nei suoi ultimi momenti di vita. Invano Gesualdo si era appigliato all’idea che la roba potesse sopravvivergli: a sancire la sua resa definitiva è la coscienza che ciò non potrà accadere. Il pensiero rivolto ai figli illegittimi avuti prima del matrimonio, le persone verso cui ha degli obblighi (r. 257), è destinato a cadere nel vuoto. Isabella, a cui chiede di lasciar loro qualcosa del patrimonio che sta per ereditare, non è capace infatti di entrare davvero in contatto con lui, e i suoi occhi, dopo una breve, inespressa commozione, tornano indifferenti e insensibili: la distanza che separa padre e figlia si traduce così nello sdegnoso ritrarsi di Isabella, nella sua indisponibilità alla confidenza e nel riapparire della ruga ostinata dei Trao fra le ciglia (r. 268), di fronte alla quale a Gesualdo non resta che rinunciare a ogni tentativo di comunicazione.

In quegli occhi e nello sconforto senza lacrime di Gesualdo, rassegnato con dignità alla sconfitta (Allentò le braccia, e non aggiunse altro, rr. 270-271), Verga proietta il proprio radicale pessimismo sulle possibilità di salvezza dell’uomo, costretto a vivere in un mondo spogliato di ogni idealità, asservito alla sola morale utilitaristica e privato di ogni autentica religione degli affetti.

 >> pagina 292

Le scelte stilistiche

All’inizio del passo è lo stesso protagonista a scrutare la realtà del palazzo in cui è ospitato: la condizione di escluso in cui si trova gli permette di valutare la vacuità e l’insensatezza che vi regna. Anche durante il colloquio con Isabella, dietro l’apparenza di un’osservazione neutrale compiuta da un narratore esterno, a essere registrati sono soprattutto gli stati d’animo di Gesualdo: guardandola fisso per vedere se voleva lei pure (rr. 220-221), La guardò fissamente (r. 253), E mentre la guardava (r. 264).

Le fasi finali dell’agonia del protagonista vengono descritte invece attraverso il punto di vista del domestico: è lui a prestare al narratore la chiave di valutazione dei fatti, simboleggiata da una serie di espressioni che sottintendono il suo cinismo e il disprezzo per il moribondo (capricci, r. 278; canzone, r. 279; contrabbasso, r. 284; uzzolo e mattana, r. 289: gli ultimi due termini sono toscanismi propri del linguaggio di scuderia e riferiti ai cavalli imbizzarriti). Alla sua voce si unisce quella degli altri lacchè, che con straniante crudeltà descrivono le atroci sofferenze del padrone come fossero capricci di un villano bizzoso, fumano come se nulla fosse accanto al cadavere e si guardano bene dall’evitare commenti sulle ruvide mani che hanno fatto la pappa (r. 326). Al lettore non resta che avvertire lo sconsolato pessimismo di Verga dinanzi alla glaciale imperturbabilità della folla crudele dei servitori. Eppure, proprio in conclusione, il narratore si concede una deroga all’impersonalità: l’epiteto poveraccio che riserva al morente alla r. 157 tradisce un sentimento di pietà per il tragico fallimento di un uomo ingannato dal miraggio della ricchezza e della potenza e dalla tragica illusione di governare il destino.

VERSO LE COMPETENZE

COMPRENDERE

1 Qual è il responso dei medici riuniti a consulto sulla malattia di Gesualdo?


2 Che cosa confida il protagonista alla figlia in punto di morte?


3 Che cosa intuisce Gesualdo quando guarda negli occhi la figlia?

ANALIZZARE

4 Elenca tutte le manifestazioni di lusso a causa delle quali il patrimonio di Gesualdo andrà in rovina.


5 Trova nel testo le espressioni che denunciano il fastidio o l’invidia dei servitori nei confronti del protagonista.


6 Quali artifici vengono adottati dal narratore nelle battute di dialogo per rendere l’immediatezza del parlato?

INTERPRETARE

7 Perché Gesualdo prova irritazione per l’atteggiamento della servitù del palazzo?


8 Il colloquio tra il protagonista e la figlia è costellato di punti di sospensione: perché?


9 Nella sofferenza provata da Gesualdo dinanzi allo sperpero del genero si può cogliere la differenza tra due mentalità, espressione di due diverse classi sociali. Sei d’accordo con quest’affermazione? Motiva la tua risposta.


10 Come reagisce Gesualdo davanti alla morte ormai imminente?

scrivere per...

argomentare

11 Dopo aver letto la novella La roba ( T11, p. 275) e il brano del romanzo ( T12, p. 282), metti in luce in un breve testo argomentativo di circa 30 righe le differenze esistenti nel rapporto che i due protagonisti intrattengono con la roba.

esporre

12 Ritieni che oggi la ricchezza e l’ambizione di scalare la società siano obiettivi diffusi presso i tuoi contemporanei? Quale peso ha, a tuo giudizio, l’appartenenza a una classe sociale nelle dinamiche e nelle relazioni tra gli individui? Rifletti su questi problemi esponendo il tuo punto di vista.

Il magnifico viaggio - volume 5
Il magnifico viaggio - volume 5
Dal secondo Ottocento al primo Novecento