T10 - Libertà

T10

Libertà

Novelle rusticane

Già intorno al 1848, in provincia di Catania, vi furono molti casi di occupazione della terra da parte dei contadini nullatenenti, ma la loro lotta fu vanificata dall’opposizione delle aristocrazie locali e delle classi borghesi benestanti, che riuscirono a evitare l’assegnazione di tali beni demaniali. Nel 1860, all’indomani dello sbarco di Garibaldi a Marsala, in occasione della spedizione dei Mille, i moti insurrezionali presero nuovo slancio, ma incontrarono nuovamente la resistenza dei ceti dirigenti. L’esasperazione dei contadini esplose con uccisioni di notabili e saccheggi, in un crescendo che determinò il duro intervento e la repressione a opera del contingente governativo guidato dal luogotenente di Garibaldi, Nino Bixio. La novella, pubblicata per la prima volta in rivista nel 1882, trae spunto proprio da queste vicende, in particolare dalla rivolta avvenuta a Bronte, una cittadina agricola alle falde dell’Etna. È l’unica opera nella quale Verga sceglie per soggetto un fatto storico realmente avvenuto, anche se omette di nominare i luoghi e i personaggi coinvolti.

Sciorinarono1 dal campanile un fazzoletto a tre colori,2 suonarono le campane a
stormo,3 e cominciarono a gridare in piazza: «Viva la libertà!»
Come il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino
dei galantuomini,4 davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette
5      bianche;5 le scuri e le falci che luccicavano. Poi irruppe in una stradicciuola.
«A te prima, barone! che hai fatto nerbare6 la gente dai tuoi campieri!»7 Innanzi
a tutti gli altri una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle
unghie. «A te, prete del diavolo! che ci hai succhiato l’anima!» A te, ricco epulone,8
che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero! «A te,
10    sbirro! che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva niente!» «A te, guardaboschi!
che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarì al giorno!»9
E il sangue che fumava ed ubbriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto rosso
di sangue! «Ai galantuomini! Ai cappelli!10 Ammazza! ammazza! Addosso ai cappelli
Don Antonio sgattaiolava a casa per le scorciatoie. Il primo colpo lo fece cascare
15    colla faccia insanguinata contro il marciapiede. «Perché? perché mi ammazzate?»
«Anche tu! al diavolo!» Un monello sciancato raccattò il cappello bisunto e
ci sputò dentro. «Abbasso i cappelli! Viva la libertà!» «Te’! tu pure!» Al reverendo
che predicava l’inferno per chi rubava il pane. Egli tornava dal dir messa, coll’ostia
consacrata nel pancione. «Non mi ammazzate, ché sono in peccato mortale!» La
20    gnà11 Lucia, il peccato mortale; la gnà Lucia che il padre gli aveva venduta a 14
anni, l’inverno della fame, e riempiva la Ruota12 e le strade di monelli affamati. Se
quella carne di cane fosse valsa a qualche cosa, ora avrebbero potuto satollarsi,13
mentre la sbrandellavano sugli usci delle case e sui ciottoli della strada a colpi di  
scure. Anche il lupo allorché capita affamato in una mandra,14 non pensa a riempirsi
25    il ventre, e sgozza dalla rabbia. «Il figliuolo della Signora, che era accorso per
vedere cosa fosse lo speziale,15 nel mentre chiudeva in fretta e in furia» don Paolo,
il quale tornava dalla vigna a cavallo del somarello, colle bisacce magre in groppa.
Pure teneva in capo un berrettino vecchio che la sua ragazza16 gli aveva ricamato
tempo fa, quando il male non aveva ancora colpito la vigna. Sua moglie lo vide cadere
30    dinanzi al portone, mentre aspettava coi cinque figliuoli la scarsa minestra17
che era nelle bisacce del marito. «Paolo! Paolo!» Il primo lo colse nella spalla con
un colpo di scure. Un altro gli fu addosso colla falce, e lo sventrò mentre si attaccava
col braccio sanguinante al martello.18
Ma il peggio avvenne appena cadde il figliolo del notaio, un ragazzo di undici
35    anni, biondo come l’oro, non si sa come, travolto nella folla. Suo padre si era
rialzato due o tre volte prima di strascinarsi a finire nel mondezzaio, gridandogli:
«Neddu! Neddu!» Neddu fuggiva, dal terrore, cogli occhi e la bocca spalancati
senza poter gridare. Lo rovesciarono; si rizzò anch’esso su di un ginocchio come
suo padre; il torrente gli passò di sopra; uno gli aveva messo lo scarpone sulla
40    guancia e glie l’aveva sfracellata; nonostante19 il ragazzo chiedeva ancora grazia
colle mani. «Non voleva morire, no, come aveva visto ammazzare suo padre;»
strappava il cuore! «Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle
due mani, quasi avesse dovuto abbattere un rovere di cinquant’anni e tremava
come una foglia». Un altro gridò: «Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui!»
45    «Non importa! Ora che si avevano le mani rosse di quel sangue, bisognava
versare tutto il resto. Tutti! tutti i cappelli!» Non era più la fame, le bastonate, le
soperchierie20 che facevano ribollire la collera. Era il sangue innocente. Le donne
più feroci ancora, agitando le braccia scarne, strillando l’ira in falsetto21, colle carni
tenere sotto i brindelli delle vesti. «Tu che venivi a pregare il buon Dio colla veste
50    di seta!» Tu che avevi a schifo d’inginocchiarti accanto alla povera gente! «Te’!
Te’!» Nelle case, su per le scale, dentro le alcove,22 lacerando la seta e la tela fine.
Quanti orecchini su delle facce insanguinate! e quanti anelli d’oro nelle mani che
cercavano di parare i colpi di scure!
La baronessa aveva fatto barricare il portone: travi, carri di campagna, botti piene,
55    dietro; e i campieri che sparavano dalle finestre per vender cara la pelle. La folla
chinava il capo alle schiopettate, perché non aveva armi da rispondere. Prima23 c’era
la pena di morte chi24 tenesse armi da fuoco. «Viva la libertà!» E sfondarono il portone.
Poi nella corte, sulla gradinata, scavalcando i feriti. Lasciarono stare i campieri.
«I campieri dopo!» «I campieri dopo!» Prima volevano le carni della baronessa, le
60    carni fatte di pernici e di vin buono.25 Ella correva di stanza in stanza col lattante
al seno,  scarmigliata e le stanze erano molte. Si udiva la folla urlare per quegli andirivieni,
avvicinandosi come la piena di un fiume. Il figlio maggiore, di 16 anni,
ancora colle carni bianche anch’esso, puntellava l’uscio colle sue mani tremanti,
gridando: «Mamà! mamà!» Al primo urto gli rovesciarono l’uscio addosso. Egli si 
65    afferrava alle gambe che lo calpestavano. Non gridava più. Sua madre s’era rifugiata
nel balcone, tenendo avvinghiato il bambino, chiudendogli la bocca colla mano
perché non gridasse, pazza. L’altro figliolo voleva difenderla col suo corpo, stralunato,
quasi avesse avuto cento mani, afferrando pel taglio tutte quelle scuri. Li separarono
in un lampo. Uno abbrancò lei pei capelli, un altro per i fianchi, un altro per le
70    vesti, sollevandola al di sopra della ringhiera. Il carbonaio le strappò dalle braccia il
bambino lattante. L’altro fratello non vide niente; non vedeva altro che nero e rosso.
Lo calpestavano, gli macinavano le ossa a colpi di tacchi ferrati; egli aveva addentato
una mano che lo stringeva alla gola e non la lasciava più. Le scuri non potevano
colpire nel mucchio e luccicavano in aria.
75    E in quel carnevale furibondo del mese di luglio, in mezzo agli urli briachi
della folla digiuna, continuava a suonare a stormo la campana di Dio, fino a sera,
senza mezzogiorno, senza avemaria, come in paese di turchi.26 Cominciavano a
sbandarsi, stanchi della carneficina, mogi, mogi, ciascuno fuggendo il compagno.
Prima di notte tutti gli usci erano chiusi, paurosi, e in ogni casa vegliava il lume.
80    Per le stradicciuole non si udivano altro che i cani, frugando per i canti,27 con un
rosicchiare secco di ossa, nel chiaro di luna che lavava ogni cosa, e mostrava spalancati
i portoni e le finestre delle case deserte.28
Aggiornava;29 una domenica senza gente in piazza né messa che suonasse. Il
sagrestano s’era rintanato; di preti non se ne trovavano più. I primi che cominciarono
85    a far capannello sul sagrato si guardavano in faccia sospettosi; ciascuno
ripensando a quel che doveva avere sulla coscienza il vicino. Poi, quando furono
in molti, si diedero a mormorare. «Senza messa non potevano starci, un giorno
di domenica, come i cani!» Il casino dei galantuomini era sbarrato, e non si sapeva
dove andare a prendere gli ordini dei padroni per la settimana. Dal campanile
90    penzolava sempre il fazzoletto tricolore, floscio, nella caldura gialla di luglio.
E come l’ombra s’impiccioliva lentamente sul sagrato,30 la folla si ammassava
tutta in un canto. Fra due casucce della piazza, in fondo ad una stradicciola che
scendeva a precipizio, si vedevano i campi giallastri nella pianura, i boschi cupi
sui fianchi dell’Etna. Ora dovevano spartirsi quei boschi e quei campi. Ciascuno
95    fra sé calcolava colle dita quello che gli sarebbe toccato di sua parte, e guardava
in cagnesco il vicino. «Libertà voleva dire che doveva essercene per tutti!» Quel
Nino Bestia, e quel Ramurazzo, avrebbero preteso di continuare le prepotenze dei
cappelli! «Se non c’era più il perito per misurare la terra, e il notaio per metterla
sulla carta,31 ognuno avrebbe fatto a riffa e a raffa!»32 E se tu ti mangi la tua parte
100  all’osteria, dopo bisogna tornare a spartire da capo? «Ladro tu e ladro io. Ora che
c’era la libertà, chi voleva mangiare per due avrebbe avuto la sua festa come quella
dei galantuomini!» Il taglialegna brandiva in aria la mano quasi ci avesse ancora la
scure.
Il giorno dopo si udì che veniva a far giustizia il generale,33 quello che faceva
105  tremare la gente. Si vedevano le camicie rosse dei suoi soldati salire lentamente
per il burrone, verso il paesetto; sarebbe bastato rotolare dall’alto delle pietre per
schiacciarli tutti. Ma nessuno si mosse. Le donne strillavano e si strappavano i capelli.
Ormai gli uomini, neri e colle barbe lunghe, stavano sul monte, colle mani
fra le cosce, a vedere arrivare quei giovanetti stanchi, curvi sotto il fucile arrugginito,
110  e quel generale piccino sopra il suo gran cavallo nero, innanzi a tutti, solo.
Il generale fece portare della paglia nella chiesa, e mise a dormire i suoi ragazzi
come un padre. La mattina, prima dell’alba, se non si levavano al suono della
tromba, egli entrava nella chiesa a cavallo, sacramentando34 come un turco. Questo
era l’uomo. E subito ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano,
115  Pizzanello, i primi che capitarono. Il taglialegna, mentre lo facevano inginocchiare
addosso al muro del cimitero, piangeva come un ragazzo, per certe parole che
gli aveva dette sua madre, e pel grido che essa aveva cacciato quando glie lo strapparono
dalle braccia. Da lontano, nelle viuzze più remote del paesetto, dietro gli
usci, si udivano quelle schioppettate in fila come i mortaletti35 della festa.
120  Dopo arrivarono i giudici per davvero, dei galantuomini cogli occhiali, arrampicati
sulle mule, disfatti dal viaggio, che si lagnavano ancora dello strapazzo
mentre interrogavano gli accusati nel refettorio del convento, seduti di fianco sulla
scranna,36 e dicendo «ahi!» ogni volta che mutavano lato. Un processo lungo
che non finiva più. I colpevoli li condussero in città,37 a piedi, incatenati a coppia,
125  fra due file di soldati col moschetto pronto. Le loro donne li seguivano correndo
per le lunghe strade di campagna, in mezzo ai solchi, in mezzo ai fichidindia, in
mezzo alle vigne, in mezzo alle biade color d’oro, trafelate, zoppicando, chiamandoli
a nome ogni volta che la strada faceva gomito, e si potevano vedere in faccia
i prigionieri. Alla città li chiusero nel gran carcere alto e vasto come un convento,
130  tutto bucherellato da finestre colle inferriate; e se le donne volevano vedere i loro
uomini, soltanto il lunedì, in presenza dei guardiani, dietro il cancello di ferro.
E i poveretti divenivano sempre più gialli in quell’ombra perenne, senza scorgere
mai il sole. Ogni lunedì erano più taciturni, rispondevano appena, si lagnavano
meno. Gli altri giorni, se le donne ronzavano per la piazza attorno alla prigione,
135  le sentinelle minacciavano col fucile. Poi non sapere che fare, dove trovare lavoro
nella città, né come buscarsi38 il pane. Il letto nello stallazzo39 costava due soldi;
il pane bianco si mangiava in un boccone e non riempiva lo stomaco; se si accoccolavano
a passare una notte sull’uscio di una chiesa, le guardie le arrestavano.
A poco a poco rimpatriarono, prima le mogli, poi le mamme. Un bel pezzo di
140  giovinetta si perdette nella città e non se ne seppe più nulla. Tutti gli altri in paese
erano tornati a fare quello che facevano prima. I galantuomini non potevano lavorare
le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza
i galantuomini. Fecero la pace. L’orfano dello speziale rubò la moglie a Neli Pirru,
e gli parve una bella cosa, per vendicarsi di lui che gli aveva ammazzato il padre.
145  Alla donna che aveva di tanto in tanto certe ubbie,40 e temeva che suo marito le
tagliasse la faccia, all’uscire dal carcere, egli ripeteva: «Sta tranquilla che non ne
esce più». Ormai nessuno ci pensava; solamente qualche madre, qualche vecchiarello,
se gli correvano gli occhi verso la pianura, dove era la città, o la domenica,
al vedere gli altri che parlavano tranquillamente dei loro affari coi galantuomini,
150  dinanzi al casino di conversazione, col berretto in mano, e si persuadevano che
all’aria ci vanno i cenci.41
Il processo durò tre anni, nientemeno! tre anni di prigione e senza vedere il
sole. Sicché quegli accusati parevano tanti morti della sepoltura, ogni volta che li
conducevano ammanettati al tribunale. Tutti quelli che potevano erano accorsi
155  dal villaggio: testimoni, parenti, curiosi, come a una festa, per vedere i compaesani,
dopo tanto tempo, stipati nella capponaia42 ché capponi davvero si diventava
là dentro! e Neli Pirru doveva vedersi sul mostaccio43 quello dello speziale, che
s’era imparentato a tradimento con lui!44 Li facevano alzare in piedi ad uno ad
uno. «Voi come vi chiamate?» E ciascuno si sentiva dire la sua, nome e cognome e
160  quel che aveva fatto. Gli avvocati armeggiavano, fra le chiacchiere, coi larghi maniconi
pendenti, e si scalmanavano, facevano la schiuma alla bocca, asciugandosela
subito col fazzoletto bianco, tirandoci su una presa di tabacco. I giudici sonnecchiavano,
dietro le lenti dei loro occhiali, che agghiacciavano il cuore. Di faccia
erano seduti in fila dodici galantuomini,45 stanchi, annoiati, che sbadigliavano, si
165  grattavano la barba, o ciangottavano46 fra di loro. Certo si dicevano che l’avevano
scappata bella a non essere stati dei galantuomini di quel paesetto lassù, quando
avevano fatto la libertà. E quei poveretti cercavano di leggere nelle loro facce. Poi
se ne andarono a confabulare fra di loro, e gli imputati aspettavano pallidi, e cogli
occhi fissi su quell’uscio chiuso. Come rientrarono, il loro capo, quello che parlava
170  colla mano sulla pancia, era quasi pallido al pari degli accusati, e disse: «Sul
mio onore e sulla mia coscienza!...»
Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: «Dove mi
conducete?» «In galera?» «O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra!
Se avevano detto che c’era la liberta!...»
 >> pagina 273

DENTRO IL TESTO

I contenuti tematici

L’immagine demoniaca di una donna inferocita inaugura la descrizione della rivolta: una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto di unghie (rr. 7-8). È la prima di una serie di figure messe sulla scena senza una precisa visione gerarchica: nella moltitudine dei ribelli non affiora un singolo protagonista. Al contrario, un soggetto collettivo indefinito (sciorinarono, r. 1; suonarono, r. 1; cominciarono, r. 2) assorbe le individualità in una massa rabbiosa che ricorda quella dei tumulti per il pane nei Promessi sposi.

Senza che il narratore spieghi il contesto e presenti un antefatto delle vicende, il lettore viene catapultato in mezzo alle berrette bianche (rr. 4-5), cioè ai contadini e ai popolani, che con falci e scuri si scagliano contro galantuomini (r. 4) e cappelli (r. 13), ossia quanti da secoli esercitano un potere economico senza limiti sulla povera gente, vessata da un dominio arbitrario e tirannico. La violenza dei ribelli nasce proprio dal desiderio, covato a lungo, di emanciparsi dallo sfruttamento: per loro libertà significa conquistare la terra e poter mutare equilibri precostituiti e da troppo tempo inalterati, a costo di sprigionare l’odio represso con un’eccitazione irrazionale (Libertà voleva dire che doveva essercene per tutti, r. 96). La strage è la conseguenza di un odio bestiale: quella che il narratore descrive è una cieca jacquerie, una sollevazione che dà sfogo solo agli istinti, per nulla supportati da un progetto sociale credibile.
 >> pagina 274

A differenza di altre novelle, qui Verga lascia trapelare la propria ideologia di conservatore diffidente di ogni cambiamento: omettendo di sottolineare le responsabilità dei ricchi nell’opprimere le misere plebi, egli si sofferma sulle efferatezze dei popolani, passando in rassegna le vittime della loro furia, per lo più innocenti, dal povero don Paolo, modesto proprietario caduto in rovina, al figlio undicenne del notaio, fino alla baronessa che stringe al seno un lattante. D’altra parte, la sanguinosa mattanza non può produrre effetti: la domenica successiva, uccisi tutti i notabili del paese, i rivoltosi si ritrovano senza una guida, incapaci di gestire i propri interessi: il fazzoletto tricolore, floscio (r. 90) che pende dal campanile del paese, immerso in un silenzio spettrale, è il simbolo del fallimento dell’insurrezione.

La visione pessimistica verghiana della Storia è insomma presente anche in questa novella: le gerarchie sociali sono un fatto naturale e le differenze tra le classi saranno sempre immutabili (I galantuomini non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i galantuomini, rr. 141-143). La giustizia sommaria praticata da Bixio e i processi che portano in carcere i responsabili della rivolta costituiscono l’ovvio, disastroso coronamento di un irrealizzabile moto rivoluzionario. Alla fine, tutto rimane come prima, la vita riprende il suo corso e presto o tardi tutti dimenticheranno l’accaduto. Soltanto qualche madre, qualche vecchiarello (rr. 147-148) terranno vivo il ricordo, traendone la morale che all’aria ci vanno i cenci (rr. 150-151): un’amara lezione che rammenta a tutti gli illusi quanto sia inutile combattere contro il fatale corso della vita umana.

Le scelte stilistiche

Coerentemente con la poetica verista, il narratore è interno al mondo narrato: ne assume i riferimenti culturali (ricco epulone, r. 8), modi di dire (come in un paese di turchi, r. 77) ed espressioni dialettali (La gnà Lucia, rr. 19-20). Si mimetizza al punto da sembrare un testimone delle violenze dei contadini. Ma, come abbiamo cercato di mettere in luce, questa volta la fedeltà al vero è sacrificata sull’altare dell’ideologia. La gratuità dell’eccidio e la ferocia dei suoi invasati protagonisti (la cui azione è metaforicamente rappresentata come un incontrollato elemento naturale: il mare in tempesta, r. 3; il torrente, r. 39; la piena di un fiume, r. 62) emergono chiaramente nella condanna della rivolta, un carnevale furibondo del mese di luglio (r. 75), mentre nel tumulto della barbarie si stagliano i casi pietosi di vittime inerti, travolte dal dilagare della barbarie. Come ha scritto il critico Giancarlo Mazzacurati, «il narratore, perduta ogni equidistanza, scaglia contro la massa infuriata la sua esplicita difesa di classe»: l’ottica dell’anonimo spettatore finisce per lasciare lo spazio a una riflessione personale e sconsolata sull’inutilità del conflitto politico.

VERSO LE COMPETENZE

COMPRENDERE

1 La novella può essere suddivisa in tre macrosequenze: individuale e attribuisci un titolo a ciascuna di esse.


2 Quale giustificazione viene addotta per l’assassinio del figlio del notaio da parte di uno dei suoi carnefici?


3 Come si comportano i contadini quando pensano a come spartirsi la terra?


4 Che significato ha la frase del carbonaio che chiude la novella?

Analizzare

5 Nella prima parte della novella, i contadini e i benestanti vengono indicati con il nome dei rispettivi copricapo: berrette bianche (rr. 4-5) e cappelli (r. 13). Quale figura retorica usa in questo caso l’autore?

  • a Metafora.
  • b Personificazione.
  • c Metonimia.
  • d Sineddoche.

Interpretare

6 Il ritmo narrativo della novella è estremamente vario. Si possono notare, per esempio, la velocità incalzante con la quale vengono seguite le fasi della rivolta e la pacatezza delle scene relative ai giorni successivi. A quale scopo, a tuo giudizio, Verga adotta questa strategia narrativa?


7 Con quale punto di vista vengono rappresentati i giurati? Come spieghi questa scelta dell’autore?


8 Un grande scrittore siciliano del Novecento, Leonardo Sciascia (1921-1989), ha approfondito l’analisi dei fatti di Bronte accusando Verga di averne dato una versione deliberatamente settaria. Per esempio, nella novella si tace il ruolo di uno dei capi della ribellione, un avvocato liberale, Nicolò Lombardo, le cui azioni non potevano certo essere spiegate come uno sbocco improvviso e irrazionale di aggressività. Come spieghi la parzialità dell’interpretazione verghiana?

 >> pagina 275

sviluppare il lessico

9 Nella novella i nobili e i borghesi vengono indicati con il termine cappelli. Quali altri gruppi sociali oggi vengono a volte indicati attraverso un accessorio o un capo d’abbigliamento?


I camici
Le toghe
Le parrucche/i parrucconi
Le sottane
Le divise

scrivere per...

descrivere

10 Sulla base della rappresentazione verghiana, traccia un ritratto di Nino Bixio in circa 20 righe.

confrontare

11 Anche nei Promessi sposi abbiamo incontrato una celebre rivolta: l’assalto ai forni a seguito del rincaro del pane. Quali analogie e quali differenze cogli nell’atteggiamento dell’autore rispetto all’azione della folla inferocita? Rispondi in un testo di circa 30 righe.

T11

La roba

Novelle rusticane

Il motivo verghiano della «roba» è perfettamente esemplificato dalla novella omonima, pubblicata inizialmente nel dicembre del 1880 nella “Rassegna settimanale di politica, scienze, lettere e arti” e poi compresa nella raccolta Novelle rusticane. Il protagonista è Mazzarò, un uomo che, da bracciante sfruttato, si appropria a poco a poco delle terre e dei beni del suo padrone, diventando ricco.

Il viandante1 che andava lungo il Biviere di Lentini,2 steso là come un pezzo di
mare morto, e le stoppie riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi
di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di
Passanitello,3 se domandava, per ingannare la noia della lunga strada polverosa,
5      sotto il cielo fosco dal caldo, nell’ora in cui i campanelli della lettiga4 suonano tristamente
nell’immensa campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda,
e il lettighiere5 canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno
della malaria: «Qui di chi è?», sentiva rispondersi: «Di Mazzarò». E passando
vicino a una fattoria grande quanto un paese, coi magazzini che sembrano chiese,
10    e le galline a stormi accoccolate all’ombra del pozzo, e le donne che si mettevano
la mano sugli occhi6 per vedere chi passava: «E qui?». «Di Mazzarò». E cammina
e cammina, mentre la malaria vi pesava sugli occhi,7 e vi scuoteva all’improvviso
l’abbaiare di un cane, passando per una vigna che non finiva più, e si allargava sul
colle e sul piano, immobile, come gli pesasse addosso la polvere, e il guardiano
15    sdraiato bocconi sullo schioppo,8 accanto al vallone, levava il capo sonnacchioso,
e apriva un occhio per vedere chi fosse: «Di Mazzarò». Poi veniva un uliveto folto
come un bosco, dove l’erba non spuntava mai, e la raccolta durava fino a marzo.
Erano gli ulivi di Mazzarò. E verso sera, allorché il sole tramontava rosso come il
fuoco, e la campagna si velava di tristezza, si incontravano le lunghe file degli aratri
20    di Mazzarò che tornavano adagio adagio dal maggese,9 e i buoi che passavano
il guado lentamente, col muso nell’acqua scura; e si vedevano nei pascoli lontani
della Canziria,10 sulla pendice brulla, le immense macchie biancastre delle mandre
di Mazzarò; e si udiva il fischio del pastore echeggiare nelle gole, e il campanaccio
che risuonava ora sì ed ora no, e il canto solitario perduto nella valle. «Tutta
25    roba di Mazzarò». Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che tramontava, e
le cicale che ronzavano, e gli uccelli che andavano a rannicchiarsi col volo breve
dietro le zolle, e il sibilo dell’assiolo11 nel bosco. Pareva che Mazzarò fosse disteso
tutto grande per quanto era grande la terra, e che gli si camminasse sulla pancia.
– Invece egli era un omiciattolo, diceva il lettighiere, che non gli avreste dato un
30    baiocco,12 a vederlo; e di grasso non aveva altro che la pancia, e non si sapeva
come facesse a riempirla, perché non mangiava altro che due soldi di pane; e sì
ch’era ricco come un maiale; ma aveva la testa ch’era un brillante,13 quell’uomo.
Infatti,14 colla testa come un brillante, aveva accumulato tutta quella roba,
dove prima veniva da mattina a sera a zappare, a potare, a mietere; col sole, coll’acqua,
35    col vento; senza scarpe ai piedi, e senza uno straccio di cappotto; che tutti
si rammentavano di avergli dato dei calci nel di dietro, quelli che ora gli davano
dell’eccellenza, e gli parlavano col berretto15 in mano. Né per questo egli era montato
in superbia, adesso che tutte le eccellenze del paese erano suoi debitori; e
diceva che eccellenza vuol dire povero diavolo e cattivo pagatore;16 ma egli portava
40    ancora il berretto, soltanto lo portava di seta nera, era la sua sola grandezza, e da
ultimo era anche arrivato a mettere il cappello di feltro, perché costava meno del
berretto di seta. Della roba ne possedeva fin dove arrivava la vista, ed egli aveva
la vista lunga – dappertutto, a destra e a sinistra, davanti e di dietro, nel monte e
nella pianura. Più di cinquemila bocche, senza contare gli uccelli del cielo e gli
45    animali della terra, che mangiavano sulla sua terra, e senza contare la sua bocca la
quale mangiava meno di tutte, e si contentava di due soldi di pane e un pezzo di
formaggio, ingozzato in fretta e in furia, all’impiedi, in un cantuccio del magazzino
grande come una chiesa, in mezzo alla polvere del grano, che non ci si vedeva,
mentre i contadini scaricavano i sacchi, o a ridosso di un pagliaio, quando il vento
50    spazzava la campagna gelata, al tempo del seminare, o colla testa dentro un corbello,17
nelle calde giornate della messe.18 Egli non beveva vino, non fumava, non
usava tabacco, e sì che del tabacco ne producevano i suoi orti lungo il fiume, colle
foglie larghe ed alte come un fanciullo, di quelle che si vendevano a 95 lire. Non
aveva il vizio del giuoco, né quello delle donne. Di donne non aveva mai avuto
55    sulle spalle che sua madre, la quale gli era costata anche 12 tarì,19 quando aveva
dovuto farla portare al camposanto.
Era che ci aveva pensato e ripensato tanto a quel che vuol dire la roba, quando
andava senza scarpe a lavorare nella terra che adesso era sua, ed aveva provato quel
che ci vuole a fare i tre tarì della giornata, nel mese di luglio, a star colla schiena
60    curva 14 ore, col soprastante20 a cavallo dietro, che vi piglia a  nerbate se fate di rizzarvi
un momento. Per questo non aveva lasciato passare un minuto della sua vita
che non fosse stato impiegato a fare della roba;21 e adesso i suoi aratri erano numerosi
come le lunghe file dei corvi che arrivano in novembre; e altre file di muli,
che non finivano più, portavano le sementi; le donne che stavano accoccolate nel
65    fango, da ottobre a marzo, per raccogliere le sue olive, non si potevano contare,
come non si possono contare le gazze che vengono a rubarle; e al tempo della vendemmia
accorrevano dei villaggi interi alle sue vigne, e fin dove sentivasi cantare,
nella campagna, era per la vendemmia di Mazzarò. Alla messe poi i mietitori di
Mazzarò sembravano un esercito di soldati, che per mantenere tutta quella gente,
70    col biscotto22 alla mattina e il pane e l’arancia amara a colazione, e la merenda, e
le lasagne alla sera, ci volevano dei denari a manate, e le lasagne si scodellavano
nelle madie23 larghe come tinozze. Perciò adesso, quando andava a cavallo dietro
la fila dei suoi mietitori, col nerbo24 in mano, non ne perdeva d’occhio uno solo, e
badava a ripetere: «Curviamoci, ragazzi!». Egli era tutto l’anno colle mani in tasca
75    a spendere, e per la sola fondiaria25 il re si pigliava tanto che a Mazzarò gli veniva
la febbre, ogni volta.
Però ciascun anno tutti quei magazzini grandi come chiese si riempivano di
grano che bisognava scoperchiare il tetto per farcelo capire26 tutto; e ogni volta che
Mazzarò vendeva il vino, ci voleva più di un giorno per contare il denaro, tutto di
80    12 tarì d’argento, ché lui non ne voleva di carta sudicia27 per la sua roba, e andava
a comprare la carta sudicia soltanto quando aveva da pagare il re,28 o gli altri; e alle
fiere gli armenti di Mazzarò coprivano tutto il campo, e ingombravano le strade,
che ci voleva mezza giornata per lasciarli sfilare, e il santo, colla banda,29 alle volte
dovevano mutar strada, e cedere il passo.
85    Tutta quella roba se l’era fatta lui, colle sue mani e colla sua testa, col non dormire
la notte, col prendere la febbre dal batticuore o dalla malaria, coll’affaticarsi
dall’alba a sera, e andare in giro, sotto il sole e sotto la pioggia, col logorare i suoi
stivali e le sue mule – egli solo non si logorava, pensando alla sua roba, ch’era tutto
quello ch’ei avesse al mondo; perché non aveva né figli, né nipoti, né parenti; non
90    aveva altro che la sua roba. Quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la roba.
Ed anche la roba era fatta per lui, che pareva ci avesse la calamita, perché la
roba vuol stare con chi sa tenerla, e non la sciupa come quel barone che prima
era stato il padrone di Mazzarò, e l’aveva raccolto per carità nudo e crudo ne’ suoi
campi, ed era stato il padrone di tutti quei prati, e di tutti quei boschi, e di tutte
95    quelle vigne e tutti quegli armenti, che quando veniva nelle sue terre a cavallo coi
campieri30 dietro, pareva il re, e gli preparavano anche l’alloggio e il pranzo, al
minchione, sicché ognuno sapeva l’ora e il momento in cui doveva arrivare, e non
si faceva sorprendere colle mani nel sacco. «Costui vuol essere rubato per forza!»,
diceva Mazzarò, e schiattava dalle risa quando il barone gli dava dei calci nel di
100  dietro, e si fregava la schiena colle mani, borbottando: «Chi è minchione se ne stia
a casa», «la roba non è di chi l’ha, ma di chi la sa fare». Invece egli, dopo che ebbe
fatta la sua roba, non mandava certo a dire se veniva a sorvegliare la messe, o la
vendemmia, e quando, e come; ma capitava all’improvviso, a piedi o a cavallo alla
mula, senza campieri, con un pezzo di pane in tasca; e dormiva accanto ai suoi
105  covoni, cogli occhi aperti, e lo schioppo fra le gambe.
In tal modo a poco a poco Mazzarò divenne il padrone di tutta la roba del
barone; e costui uscì31 prima dall’uliveto, e poi dalle vigne, e poi dai pascoli, e poi
dalle fattorie e infine dal suo palazzo istesso, che non passava giorno che non
firmasse delle carte bollate,32 e Mazzarò ci metteva sotto la sua brava croce.33 Al
110  barone non rimase altro che lo scudo di pietra34 ch’era prima sul portone, ed era
la sola cosa che non avesse voluto vendere, dicendo a Mazzarò: «Questo solo, di
tutta la mia roba, non fa per te». Ed era vero; Mazzarò non sapeva che farsene, e
non l’avrebbe pagato due baiocchi. Il barone gli dava ancora del tu,35 ma non gli
dava più calci nel di dietro.
115  «Questa è una bella cosa, d’avere la fortuna che ha Mazzarò!», diceva la gente;
e non sapeva quel che ci era voluto ad acchiappare quella fortuna: quanti pensieri,
quante fatiche, quante menzogne, quanti pericoli di andare in galera, e come quella
testa che era un brillante avesse lavorato giorno e notte, meglio di una macina del
mulino, per fare la roba; e se il proprietario di una chiusa limitrofa si ostinava a non
120  cedergliela, e voleva prendere pel collo Mazzarò, dover trovare uno stratagemma
per costringerlo a vendere, e farcelo cascare, malgrado la diffidenza contadinesca. Ei
gli andava a vantare, per esempio, la fertilità di una tenuta la quale non produceva
nemmeno lupini, e arrivava a fargliela credere una terra promessa, sinché il povero
diavolo si lasciava indurre a prenderla in affitto, per specularci sopra, e ci perdeva
125  poi il fitto, la casa e la chiusa, che Mazzarò se l’acchiappava36 – per un pezzo di
pane. – E quante seccature Mazzarò doveva sopportare! – I mezzadri che venivano a
lagnarsi delle malannate,37 i debitori che mandavano in processione le loro donne a
strapparsi i capelli e picchiarsi il petto per scongiurarlo di non metterli in mezzo alla
strada, col pigliarsi il mulo o l’asinello, che non avevano da mangiare.
130  «Lo vedete quel che mangio io?», rispondeva lui, «pane e cipolla! e sì che ho
i magazzini pieni zeppi, e sono il padrone di tutta questa roba». E se gli domandavano
un pugno di fave, di tutta quella roba, ei diceva: «Che, vi pare che l’abbia
rubata? Non sapete quanto costano per seminarle, e zapparle, e raccoglierle?». E
se gli domandavano un soldo rispondeva che non l’aveva.
135  E non l’aveva davvero. Ché in tasca non teneva mai 12 tarì, tanti ce ne volevano
per far fruttare tutta quella roba, e il denaro entrava ed usciva come un fiume
dalla sua casa. Del resto a lui non gliene importava del denaro; diceva che non era
roba, e appena metteva insieme una certa somma, comprava subito un pezzo di
terra; perché voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re, ed esser meglio
140  del re, ché il re non può né venderla, né dire ch’è sua.
Di una cosa sola gli doleva, che cominciasse a farsi vecchio, e la terra doveva
lasciarla là dov’era. Questa è una ingiustizia di Dio, che dopo di essersi logorata
la vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla, che ne vorreste ancora,
dovete lasciarla! E stava delle ore seduto sul corbello, col mento nelle mani, a
145  guardare le sue vigne che gli verdeggiavano sotto gli occhi, e i campi che ondeggiavano
di spighe come un mare, e gli oliveti che velavano la montagna come una
nebbia, e se un ragazzo seminudo gli passava dinanzi, curvo sotto il peso come
un asino stanco, gli lanciava il suo bastone fra le gambe, per invidia, e borbottava:
«Guardate chi ha i giorni lunghi! costui che non ha niente!».
150  Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’anima,
uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi
di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: «Roba mia, vientene con me!».
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DENTRO IL TESTO

I contenuti tematici

Il protagonista della Roba, Mazzarò, vive esclusivamente per i beni materiali, considerati alla stregua di amanti fedeli. Privo di altri affetti e sentimenti, egli trova in essi una sorta di religioso risarcimento della propria solitudine. Senza moglie né figli, non conosce la pietà per il prossimo (si pensi a come tratta i sottoposti) né l’amore filiale; la sua esistenza è simile a quella di un asceta che non si concede nulla: non ha vizi, non beve, non fuma, non ha interesse per le donne.

Consacratosi a un destino irrevocabile (Quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la roba, r. 90), la sua scelta è premiata dal successo (Ed anche la roba era fatta per lui, r. 91), giusto riconoscimento alla sua dedizione, alla sua energia infaticabile, al suo martirio. Alla stregua di un eroe epico o di un cavaliere medievale, Mazzarò ignora infatti le tentazioni e non abbandona mai la vita “povera”, logorando i suoi stivali (rr. 87-88), andando in giro, sotto il sole e sotto la pioggia (r. 87), ossessionato da un unico pensiero: accumulare. In questa spasmodica ricerca, egli non si pone limiti, spostando sempre più in alto l’asticella dell’ambizione fino a non temere il confronto con nessuno (voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re, ed esser meglio del re, rr. 139-140).

Quando si avvicina la morte, però, il destino di Mazzarò si capovolge: da vincitore a vinto, sconfitto dalla legge inesorabile della natura e deciso a trascinare con sé nell’abisso del nulla anche la sua roba. Invidioso della gioventù altrui, seduto malinconicamente col mento nelle mani (r. 144) a guardare le sue terre, egli prorompe in un urlo forsennato («Roba mia, vientene con me!», r. 152) e, con un gesto estremo, al tempo stesso tragico e comico, ammazza a colpi di bastone le sue bestie. Il suo atteggiamento quasi di devozione religiosa verso l’accumulazione dei possedimenti terrieri, forse ritenuti un mezzo per tendere all’eternità, si scontra con il “tradimento” della morte, la quale separa la soggettività del suo io, destinato ormai alla fine, e l’oggettività della roba, che gli sopravvive, indifferente a lui e alla sua logica esistenziale.

Le scelte stilistiche

A differenza dell’“oppresso” Rosso Malpelo, che la società condanna alla marginalità, Mazzarò è un “oppressore”, ma eroe di un mondo che ne riconosce i valori e per questo lo rispetta e lo ammira. Ciò spiega perché Verga scelga, per raccontarne le imprese, la voce di un narratore complice, che aderisce alla sua mentalità e alla sua visione della vita. A eccezione dell’incipit (in cui il punto di vista è quello di un viandante che si presuppone colto) e del breve intermezzo del lettighiere (r. 7), che, da umile qual è, non comprende le scelte di Mazzarò, il racconto sembra ispirato direttamente dalle convinzioni del protagonista. Così assistiamo, in un certo qual modo, alla sua celebrazione: dall’anonimo narratore popolare che con stupita ammirazione descrive come normali, anzi come lodevoli, i metodi del protagonista, non giungerà mai una parola di censura della sua ingordigia economica, mai un dubbio sul suo comportamento, mai il sospetto che la folle rincorsa del denaro lo abbia portato a recidere ogni legame con gli uomini e anche con sé stesso. Perfino la considerazione della morte della madre come fardello economico (Di donne non aveva mai avuto sulle spalle che sua madre, la quale gli era costata anche 12 tarì, quando aveva dovuto farla portare al camposanto, rr. 54-56) viene ritenuta del tutto normale: ma in realtà è evidente che spingendo alle estreme conseguenze la legittimazione delle azioni e della mentalità del protagonista, l’autore induce in chi legge una presa di distanza o anche un moto di nauseata indignazione.

Il modo in cui il narratore descrive le vicende del protagonista contiene perfino un che di leggendario o di fiabesco, a cui collaborano in modo decisivo accumulazioni e iterazioni (E cammina e cammina, rr. 11-12) nonché l’uso delle iperboli, spia evidente della trasfigurazione mitica di Mazzarò operata dall’immaginario popolare (Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che tramontava, r. 25). È il lettore a dover cogliere, dietro alla straniante impersonalità di Verga, il dramma di un uomo che, per dedicare alla roba la propria vita, finisce per essere travolto dall’inutilità dei suoi sforzi, nel delirante, finale abbraccio con tutto ciò che ha conquistato.

 >> pagina 280

VERSO LE COMPETENZE

COMPRENDERE

1 La novella può essere divisa in tre sequenze fondamentali: la descrizione della roba di Mazzarò; la sua storia; la conclusione della vicenda. Individua nel testo queste diverse parti, quindi riassumine il contenuto.

ANALIZZARE

2 Fai l’analisi del periodo della frase iniziale della novella (rr. 1-8).


3 Nella Roba, per accentuare il tono epico della narrazione, Verga ricorre a una serie di iperboli. Trovale nel testo.


4 Individua le espressioni popolari presenti nella novella.


5 La presentazione iniziale di Mazzarò è affidata al punto di vista di un viandante sconosciuto, che osserva la proprietà del protagonista. Da quali elementi possiamo supporre il suo alto livello culturale?

interpretare

6 Il testo è ricco di similitudini che attingono al mondo naturale (folto come un bosco, rr. 16-17; come un fiume, r. 136) e animale (ricco come un maiale, r. 32; numerosi come le lunghe file dei corvi, rr. 62-63). Perché, secondo te?

scrivere per...

confrontare

7 Un altro famoso avaro è Arpagone, immortalato dal commediografo francese Molière (1622-1673) nella commedia L’avaro (1668). Ricerca e leggi questo testo, individua analogie e differenze con Mazzarò in un testo descrittivo di circa 20 righe.

argomentare

8 Mazzarò può essere considerato un perfetto esemplare di avaro. In che cosa consiste per te l’avarizia? Quando e perché nella società di oggi una persona può essere considerata avara? Scrivi al riguardo un testo espositivo e argomentativo di circa 30 righe.

Dibattito in classe

9 Una delle caratteristiche peculiari di Mazzarò è che egli non ambisce ad accumulare genericamente ricchezza, ma, in modo più specifico, “roba”, oggetti materiali, terreni e proprietà, prove tangibili della sua ascesa sociale ed economica. In che cosa Mazzarò è simile o diverso da coloro che, anche oggi, sono spinti da un irrefrenabile desiderio di denaro e potere? Discutine con la classe.

Il magnifico viaggio - volume 5
Il magnifico viaggio - volume 5
Dal secondo Ottocento al primo Novecento