FINESTRA SUL ’900 - Manzoni & Leonardo Sciascia - La scrittura come forma della verità

FINESTRA SUL ’900

Manzoni & Leonardo Sciascia

LA SCRITTURA COME FORMA DELLA VERITÀ

Il messaggio civile manzoniano

I promessi sposi non sono soltanto l’«epopea della Provvidenza», come volevano il critico Attilio Momigliano e una certa interpretazione del romanzo, indubbiamente egemone nel sistema dell’insegnamento scolastico. Il capolavoro manzoniano pone ancora questioni centrali nella vita di ogni individuo in rapporto con il proprio tempo, interroga senza fornire soluzioni edulcorate o consolatorie sui valori dell’esistenza umana, riflette e fa riflettere sui condizionamenti, sulle ipocrisie, sulla violenza e sulle ingiustizie che dominano nella società e nel mondo.
Per molti scrittori italiani del Novecento, la lezione di Manzoni riveste un’importanza fondamentale per leggere e interpretare la realtà, al di là di ogni schema precostituito. Tra questi vi è sicuramente Leonardo Sciascia, secondo il quale I promessi sposi sono tutt’altro che «il prodotto di un cattolico italiano piuttosto tranquillo e conformista»; al contrario, costituiscono il modello di un’«opera inquieta», utile non solo a comprendere i guasti dell’epoca in cui è ambientata, il Seicento, ma anche quelli dell’epoca in cui noi lo leggiamo.

Sciascia e la scrittura anti-retorica

Leonardo Sciascia nasce nel 1921 a Recalmuto, in provincia di Agrigento, da una famiglia piccolo-borghese.
Dopo aver conseguito il diploma di maestro, inizia a insegnare nella scuola elementare del suo paese e a dedicarsi all’attività letteraria, pubblicando, nel 1950, una raccolta di poesie, Le favole della dittatura, e i primi testi in prosa, caratterizzati fin da subito da un marcato impegno culturale e civile. A dargli notorietà nazionale è, nel 1956, l’uscita di un libro a metà tra il saggio storico e il romanzo, Le parrocchie di Regalpetra, nel quale l’autore descrive la realtà di un immaginario borgo siciliano (dietro il quale, tuttavia, non si fatica a scorgere il suo paese natale) e del potere politico che vi regna, sempre in mano alle stesse classi sociali, dal XVII secolo fino agli anni in cui domina il partito della Democrazia Cristiana.
A prima vista, la denuncia delle condizioni di vita del popolo siciliano apparenta quest’opera al clima del cosiddetto “Neorealismo”, in auge in quegli anni. In realtà, nel libro è del tutto assente ogni forma di retorico populismo: Sciascia non intende infatti rappresentare gli umili e gli oppressi con preconcetta simpatia né tanto meno esaltarne l’innocenza o la purezza, come spesso accadeva nella letteratura neorealistica. Il suo intento è piuttosto quello di portare alla luce i nodi oscuri che dominano i rapporti umani all’interno del paese, il quale assurge a una vera e propria allegoria dell’Italia contemporanea, divisa tra l’ansia di rinnovamento e di giustizia e una mentalità radicata che giustifica e produce violenza e sopraffazione.

 >> pagina 399 

Mafia e potere

Dopo essersi trasferito momentaneamente a Roma, Sciascia torna in Sicilia per lavorare presso il Patronato scolastico di Caltanissetta. Nel 1961 scrive il suo romanzo più noto, Il giorno della civetta, nel quale porta all’attenzione dell’opinione pubblica il tema della mafia, vista come un vero e proprio Stato nello Stato, come un’entità malvagia e tentacolare che si è infiltrata nel corpo malato della politica, sfruttando la connivenza delle istituzioni e l’omertà della gente comune.
Dopo le inchieste storiche che danno vita a Il consiglio d’Egitto (1963) e a Morte dell’inquisitore (1967), ambientate rispettivamente nella Sicilia del Settecento e del Seicento, e il romanzo A ciascuno il suo (1966), incentrato su un delitto mafioso, Sciascia scrive due gialli a sfondo politico, basati sulla costante ricerca razionale della verità: Il contesto (1971) e Todo modo (1974). Sono libri nei quali affiora uno scenario drammaticamente pessimistico sul potere costituito e sulle trame occulte grazie alle quali esso si perpetua nel tempo. Oggetto dell’attenzione dello scrittore è soprattutto il sistema affaristico e clientelare fiorito intorno a correnti e notabili della Democrazia Cristiana. La polemica di Sciascia contro questo partito caratterizza anche il pamphlet L’affaire Moro, edito nel 1978, poco tempo dopo il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse: l’autore condanna la folle ideologia dei terroristi, ma lancia anche un forte atto d’accusa contro la scelta della DC di rifiutare di trattare con loro per la liberazione di Moro. 
Nel 1979 Sciascia è eletto alla Camera dei deputati nelle fila del Partito radicale e può quindi proseguire le proprie battaglie civili anche nel cuore di quel potere di cui ha mostrato contraddizioni e devianze. I suoi articoli giornalistici, insieme alla pubblicazione di diversi volumi, ispirati a fatti di cronaca, producono spesso dibattiti e polemiche: desta scandalo, tra gli altri, un intervento pubblicato dal “Corriere della Sera” nel 1987 dal titolo I professionisti dell’antimafia, dove in nome del garantismo e del rispetto delle regole stabilite Sciascia attacca gli strumenti e le modalità dell’antimafia, da lui reputate estranee ai princìpi democratici dello Stato di diritto e della Costituzione. Sciascia muore a Palermo nel 1989.

La passione illuministica

Intellettuale e scrittore controcorrente, ostile alle interpretazioni convenzionali o astrattamente ideologiche della realtà politica e sociale, Sciascia è stato nella cultura italiana del secondo dopoguerra una sorta di “battitore libero”, una voce fuori dal coro e per questo puntualmente destinato a finire nell’occhio del ciclone. La sua figura costituisce la perfetta sintesi tra una mai doma passione civile, lo studio rigoroso dei documenti del passato e del presente, lo sguardo razionale sul mondo e una volontà costante di intervenire nelle questioni più scottanti che hanno attanagliato la vita pubblica italiana.
Da questo punto di vista, la letteratura svolge per lui un’insostituibile funzione di svelamento e di denuncia delle finzioni e delle zone d’ombra che avvolgono i meccanismi del potere.
Sciascia ha riconosciuto in più occasioni di avere ereditato tale concezione della scrittura come mezzo di indagine critica da Manzoni, non solo quello dei Promessi sposi, ma anche quello della Storia della colonna infamelo scrittore milanese rappresenta un modello di lettura illuministica del reale, capace di scandagliare il caos del mondo ricercando il bandolo della matassa per orientarvisi. «È stato detto», scrive Sciascia a proposito di Manzoni, «che ha convertito, convertendosi, l’illuminismo al cattolicesimo; ma io penso che in lui è forse accaduto il contrario: il cattolicesimo si è convertito all’illuminismo».

 >> pagina 400 

La Sicilia come metafora

Tutta la produzione di Sciascia è, a ben vedere, volta a esplorare l’esistenza umana con gli strumenti della ragione, intesa come fondamento della società civile. I suoi romanzi gialli senza soluzione finale, i racconti autobiografici, i saggi storici, i libelli politici sono contrassegnati da un costante desiderio di indagare, in modo paziente ma anche provocatorio, le logiche criminali regnanti nell’Italia degli scandali e dei misteri irrisolti, della corruzione e del compromesso (come quello messo in atto, negli anni Settanta, dalla Democrazia Cristiana e il principale partito d’opposizione, il Partito comunista, accusato in realtà di essere colluso nella pratica consociativa del potere). In quest’ottica anche la descrizione della mafia e dei suoi codici, oltre che dei suoi misfatti, rimanda a mali e a vizi storici e antropologici dell’intera società italiana, come purtroppo puntualmente l’attualità si incaricherà di mostrare (si pensi agli intrecci tra la criminalità organizzata e la classe politica e dirigente del paese): «La Sicilia – scrive Sciascia – offre la rappresentazione di tanti problemi, di tante contraddizioni, non solo italiani ma anche europei, al punto da poter costituire la metafora del mondo odierno».
Al di là della Storia locale e della cronaca contingente, dunque, la Sicilia tende a diventare l’emblema di una condizione assoluta, di un’identità peculiare che attraversa il tempo, fissandosi come un dato antropologico distintivo. Il compito che Sciascia si pone è quello di scrutare proprio nella realtà malata, dominata da forze cieche e perverse, in cui leggi indecifrabili e logiche oscure nascondono un potere inviolabile. L’intellettuale non può cambiare la sostanza e la natura delle cose (il pessimismo di Sciascia è, da questo punto di vista, radicale), ma deve impegnarsi, al di là di ogni rapporto organico con gruppi o partiti, in una sincera e individuale ricerca della giustizia, smascherando le imposture accreditate dalla Storia ufficiale mediante un’analisi scrupolosa dei documenti: proprio come ha fatto Manzoni, il quale con i suoi personaggi ha fornito un impietoso quadro della mentalità e dei costumi che da sempre allignano nel nostro paese, ovvero «l’Italia delle grida, l’Italia dei padri provinciali e dei conte-zio, l’Italia dei Ferrer italiani dal doppio linguaggio, l’Italia della mafia, degli azzeccagarbugli, degli sbirri che portan rispetto ai prepotenti, delle coscienze che facilmente si acquietano».

Il caso Tortora

Secondo Sciascia, ogni fatto d’attualità non va trattato come un evento eccezionale, ma al contrario ricondotto a dinamiche generali e ad attitudini costanti del vivere civile italiano. Un esempio emblematico di questo atteggiamento può essere colto in una delle più accese polemiche animate dallo scrittore. Siamo nel 1983, anno in cui viene arrestato un noto presentatore televisivo, Enzo Tortora, accusato ingiustamente da alcuni pregiudicati di essere affiliato alla camorra e di trafficare in stupefacenti. Dopo sette mesi di reclusione, Tortora viene liberato ma, nel processo tenutosi nel 1985, sarà condannato a dieci anni di carcere per poi essere assolto in appello l’anno successivo.
Il caso rappresenta per Sciascia l’occasione per ragionare su come in Italia viene amministrata la giustizia.
Come possiamo vedere in questo articolo, uscito il 3 agosto 1985 sul “Corriere della Sera” e poi raccolto nel volume A futura memoria (se la memoria ha un futuro), edito nel 1989, I promessi sposi costituiscono, una volta ancora, una chiave di lettura per comprendere meglio il presente:

 >> pagina 401 
Nel capitolo VIII dei Promessi sposi – quello in cui Renzo e Lucia si introducono con uno stratagemma in casa di don Abbondio a che, suo malgrado, li faccia marito e moglie – nel descrivere la confusione che ne segue per la pronta reazione di don Abbondio, Manzoni dice:
«In mezzo a questa serra serra, non possiam lasciare di fermarci un momento a fare una riflessione.
Renzo, che strepitava di notte in casa altrui, che vi s’era introdotto di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha tutta l’apparenza d’un oppressore; eppure, alla fin de’ fatti, era l’oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente a’ fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure, in realtà, era lui che faceva un sopruso. Così va spesso il mondo... voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo».
La battuta ironica che conclude la riflessione dice della ragione stessa che l’ha suscitata: Manzoni non sta parlando soltanto del secolo decimo settimo, ma anche del suo, del nostro, dell’Italia di sempre. E del resto tutto il romanzo – ma non so quando si capirà appieno e, soprattutto, quando in questa chiave lo si farà leggere a scuola – è un disperato ritratto dell’Italia.
Su questa riflessione conviene – è il caso di dire – riflettere in rapporto alla questione del processo di Napoli1 che socialisti e radicali stanno agitando, ricevendone l’accusa di una intrusione e aggressione che sta facendo scampanare ad allarme le campane della retorica nazionale così come quella notte le campane della chiesa di cui don Abbondio era curato. E con questo voglio anche dire che conoscendo l’Italia, l’Italia del Manzoni, l’Italia di cui Pirandello diceva che le parole vanno nell’aria aprendo la coda come tacchini, radicali e socialisti avrebbero forse dovuto essere più cauti, meno intempestivi: aspettare, insomma, la sentenza.
E non perché il loro intervento davvero costituisca una intrusione, una interferenza, un’aggressione: ma perché hanno dato modo alla retorica nazionale di scampanare allarme per l’attentato alla libertà e indipendenza del potere giudiziario. Hanno dato modo, insomma, di far gridare allo scandalo: e queste grida sovrastano e sommergono lo scandalo che loro intendono denunciare, fanno perdere di vista gli argomenti – a dir poco inquietanti – che accompagnano la loro denuncia e le danno inequivoca ragion d’essere e forza.
È facile, scampanando retorica e sollecitando un mai sopito plebeismo, fare apparire una vittima come un privilegiato: ed è quel che si sta tentando di fare con Enzo Tortora.
Ma il caso Tortora non sta soltanto nell’angosciosa vicenda che lui sta vivendo: è il caso del diritto, il caso della giustizia.

Contro la giustizia ingiusta

Il caso Tortora non è dunque che l’ennesima vicenda di ingiustizia, arbitrio e arroganza dei potenti, che in realtà si rivelano mediocri, opportunisti, come il don Abbondio manzoniano, vero e proprio artefice di un sistema di servitù volontario, perfetto e inattaccabile esempio di un conformismo che si trasforma in sopraffazione dei più deboli. La legge è dalla sua parte: non è forse vero che, nella cosiddetta “notte degli imbrogli”, Renzo e Lucia l’hanno trasgredita, intrufolandosi di soppiatto nella casa del curato? Non è ancora vero che la giustizia formale premia la sua viltà e non sanziona la violenza di don Rodrigo, mentre viola il diritto dei due giovani a sposarsi e a vivere felici nella propria terra? Allo stesso modo, i socialisti e i radicali, che esigono il rispetto dei diritti degli indagati e degli imputati in nome del garantismo, vengono ora accusati dalle anime belle della retorica nazionale di attentare alla libertà e indipendenza del potere giudiziario. Il paradosso è che, mentre don Abbondio pare essere un oppresso, ma in realtà è un oppressore, Enzo Tortora, da vittima qual è effettivamente, diventa “un privilegiato” nell’immaginario collettivo e nella cattiva coscienza degli italiani.
Così, con lo stile lucido e analitico che rafforza la sostanza concreta della sua scrittura, Sciascia mette in luce, attraverso l’archetipo manzoniano, gli ingranaggi di quella grande macchina inquisitoriale che incombe sulle esistenze degli individui. La strenua difesa del diritto si configura così come l’orgogliosa, anche se difficile, battaglia di un letterato “in trincea”, deciso ad affidare alle sue pagine il senso, ma più spesso purtroppo il nonsenso, della Storia e del carattere degli italiani.

Il magnifico viaggio - volume 4
Il magnifico viaggio - volume 4
Il primo Ottocento