Nel capitolo VIII dei Promessi sposi – quello in cui Renzo e Lucia si introducono con uno stratagemma in casa di don Abbondio a che, suo malgrado, li faccia marito e moglie – nel descrivere la confusione che ne segue per la pronta reazione di don Abbondio, Manzoni dice:
«In mezzo a questa serra serra, non possiam lasciare di fermarci un momento a fare una riflessione.
Renzo, che strepitava di notte in casa altrui, che vi s’era introdotto di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha tutta l’apparenza d’un oppressore; eppure, alla fin de’ fatti, era l’oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente a’ fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure, in realtà, era lui che faceva un sopruso. Così va spesso il mondo... voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo».
La battuta ironica che conclude la riflessione dice della ragione stessa che l’ha suscitata: Manzoni non sta parlando soltanto del secolo decimo settimo, ma anche del suo, del nostro, dell’Italia di sempre. E del resto tutto il romanzo – ma non so quando si capirà appieno e, soprattutto, quando in questa chiave lo si farà leggere a scuola – è un disperato ritratto dell’Italia.
Su questa riflessione conviene – è il caso di dire – riflettere in rapporto alla questione del processo di Napoli1 che socialisti e radicali stanno agitando, ricevendone l’accusa di una intrusione e aggressione che sta facendo scampanare ad allarme le campane della retorica nazionale così come quella notte le campane della chiesa di cui don Abbondio era curato. E con questo voglio anche dire che conoscendo l’Italia, l’Italia del Manzoni, l’Italia di cui Pirandello diceva che le parole vanno nell’aria aprendo la coda come tacchini, radicali e socialisti avrebbero forse dovuto essere più cauti, meno intempestivi: aspettare, insomma, la sentenza.
E non perché il loro intervento davvero costituisca una intrusione, una interferenza, un’aggressione: ma perché hanno dato modo alla retorica nazionale di scampanare allarme per l’attentato alla libertà e indipendenza del potere giudiziario. Hanno dato modo, insomma, di far gridare allo scandalo: e queste grida sovrastano e sommergono lo scandalo che loro intendono denunciare, fanno perdere di vista gli argomenti – a dir poco inquietanti – che accompagnano la loro denuncia e le danno inequivoca ragion d’essere e forza.
È facile, scampanando retorica e sollecitando un mai sopito plebeismo, fare apparire una vittima come un privilegiato: ed è quel che si sta tentando di fare con Enzo Tortora.
Ma il caso Tortora non sta soltanto nell’angosciosa vicenda che lui sta vivendo: è il caso del diritto, il caso della giustizia.