La cupezza della colpa di Gertrude
Nei Promessi sposi non ci sono donne bionde. Anche i due archetipi contrapposti di femminilità – la dolce e modesta Lucia e la fatale e infida Gertrude – sono accomunati dai capelli bruni. La nera chioma della monaca può non sorprenderci: nel canone letterario la bellezza di una capigliatura scura è spesso il segno della malvagità. Le ciocche bionde invece sono per convenzione sinonimo di bontà: le esibivano Venere e Diana, poi la Laura di Petrarca, l’Angelica di Ariosto, la Teresa delle Ultime lettere di Jacopo Ortis e via dicendo, quasi senza eccezione.
Il ritratto di Gertrude è coerente con l’iconografia, tipicamente ottocentesca, della donna fatale: il contrasto tra i capelli e gli occhi scuri da una parte e il viso languido e pallido dall’altra rientra nel topos romantico della «bellezza contaminata» (Praz) da una sofferenza segreta e da una corruzione conturbante. Come ha sottolineato la studiosa inglese Verina Jones, il fascino inquieto dell’aspetto della monaca sta nel suo carattere oppositivo («impressione di bellezza, ma d’una bellezza sbattuta»; «contorno delicato e grazioso, ma alterato») o che pare addirittura un ossimoro («qualcosa di studiato e di negletto»), all’interno del quale pallore e oscurità richiamano le passioni sconvolgenti di un animo turbato. L’ambiguità erotica della sua femminilità («vita […] attillata»; «scollo d’un nero saio») affiora quanto più contrasta con la sua condizione religiosa: in fondo, la stessa menzione del colore dei capelli costituisce un’infrazione, poiché la monaca dovrebbe avere la testa rasata e nascosta dal velo.