La poesia religiosa

La poesia religiosa

Dopo la conversione Manzoni abbandona in modo risoluto forme e argomenti della produzione precedente. Si volge a una poesia di matrice cattolica, scartando il lirismo soggettivo verso cui si indirizzava la poesia europea della sua epoca per concentrarsi su verità di fede di portata universale. Egli rinuncia tanto al corredo mitologico del gusto neoclassico quanto agli atteggiamenti di sdegnosa solitudine dello stereotipo romantico, per unirsi al coro della comunità cristiana, reinterpretando così in chiave evangelica gli ideali egualitari e la vena pedagogica della tradizione illuminista in cui si era formato.

Inni sacri

Manzoni progetta di scrivere 12 inni, ciascuno dedicato a una festa liturgica, ma il ciclo resterà incompiuto. Nei 4 inni terminati fra il 1812 e il 1815 (La Resurrezione, Il nome di Maria, Il Natale, La Passione) prende forma una poesia che vorrebbe essere popolare sia sul piano tematico sia su quello stilistico, supportata da agili metri derivati dalle canzonette in voga nella produzione settecentesca dell’Arcadia, qui impiegati per veicolare una materia sublime, attinta da fonti bibliche. Ma al centro dei componimenti più che la dottrina religiosa egli pone i suoi effetti sui fedeli, secondo lo schema tripartito che prevede l’alternanza tra enunciazione del tema, narrazione dell’episodio prescelto, riflessione in merito.

Ai primi inni Manzoni riesce ad aggiungere soltanto La Pentecoste, iniziata nel 1817 e terminata nel 1822, e più tardi i frammenti del Natale del 1833 (1835) e Ognissanti (1847). Nella Pentecoste, composta nel periodo più fervido della creatività dell’autore, vengono evidenziate la presenza di Dio nella Storia e l’azione rischiaratrice della Grazia nel cuore e nella vita dei cristiani. La rievocazione della discesa dello Spirito Santo sugli uomini non insiste sugli aspetti teologici e si scioglie in una commossa preghiera corale, accesa dalla speranza di redenzione e giustizia per l’umanità.

T2

La Pentecoste

Inni sacri

È il quinto degli Inni sacri, elaborato diversi anni dopo i precedenti, e insieme l’ultimo grande componimento in versi portato a termine da Manzoni. La stesura è lunga e difficoltosa: due volte abbandonata, nel 1817 e nel 1819, essa viene infine conclusa e il testo può essere stampato nell’autunno del 1822, nello stesso periodo in cui l’autore lavora ai Promessi sposi. L’inno si concentra sulla festa liturgica che ricorda l’inizio della diffusione del cristianesimo. La Pentecoste celebra infatti la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli, cinquanta giorni dopo la resurrezione di Cristo (pentecoste in greco significa “cinquantesimo”), per conferire loro la facoltà di essere compresi in tutte le lingue e in tal modo di dare alla lieta novella una portata universale.


Metro 18 strofe di 8 settenari, disposti secondo lo schema SASASBBT (dove S indica i versi sdruccioli, T i versi tronchi). Le strofe sono unite a due a due dall’identità dell’ultima rima tronca.

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Madre de’ Santi, immagine

della città superna,

del Sangue incorruttibile

conservatrice eterna;

5      tu che, da tanti secoli,

soffri, combatti e preghi,

che le tue tende spieghi

dall’uno all’altro mar;

campo di quei che sperano,

10    chiesa del Dio vivente;

dov’eri mai? qual angolo

ti raccogliea nascente,

quando il tuo Re, dai perfidi

tratto a morir sul colle,

15    imporporò le zolle

del suo sublime altar?

E allor che dalle tenebre

la ▶ diva salma uscita,

mise il potente anelito

20    della seconda vita;

e quando, in man recandosi

il prezzo del perdono,

da questa polve al trono

del Genitor salì;

25    compagna del suo gemito,

conscia de’ suoi misteri,

tu, della sua vittoria

figlia immortal, dov’eri?

In tuo terror sol vigile,

30    sol nell’obblio secura,

stavi in riposte mura,

fino a quel sacro dì,

quando su te lo Spirito

rinnovator discese,

35    e l’inconsunta fiaccola

nella tua destra accese;

quando, segnal dei popoli,

ti collocò sul monte;

e ne’ tuoi labbri il fonte

40    della parola aprì.

Come la luce rapida

piove di cosa in cosa,

e i color vari suscita

ovunque si riposa;

45    tal risonò moltiplice

la voce dello Spiro:

l’Arabo, il Parto, il Siro

in suo sermon l’udì.

Adorator degl’idoli,

50    sparso per ogni lido;

volgi lo sguardo a Solima,

odi quel santo grido:

stanca del vile ossequio,

la terra a Lui ritorni:

55    e voi che aprite i giorni

di più felice età,

spose, che desta il subito

balzar del pondo ascoso;

voi già vicine a sciogliere

60    il grembo doloroso;

alla bugiarda pronuba

non sollevate il canto:

cresce serbato al Santo

quel che nel sen vi sta.

65    Perché, baciando i pargoli,

la schiava ancor sospira?

E il sen che nutre i liberi

invidïando mira?

Non sa che al regno i miseri

70    seco il Signor solleva?

Che a tutti i figli d’Eva

nel suo dolor pensò?

Nova franchigia annunziano

i cieli, e genti nove;

75    nove conquiste, e gloria

vinta in più belle prove:

nova, ai terrori immobile

e alle lusinghe infide,

pace, che il mondo irride,

80    ma che rapir non può.

O Spirto! Supplichevoli

a’ tuoi solenni altari;

soli per selve inospite;

vaghi in deserti mari;

85    dall’Ande algenti al Libano,

d’Erina all’irta Haiti,

sparsi per tutti i liti,

ma d’un cor solo in Te,

noi T’imploriam! Placabile

90    spirto discendi ancora,

ai tuoi cultor propizio,

propizio a chi t’ignora:

scendi e ricrea: rianima

i cor nel dubbio estinti:

95    e sia divina ai vinti

il Vincitor mercè.

Discendi Amor; negli animi

l’ire superbe attuta:

dona i pensier, che il memore

100 ultimo dì non muta:

i doni tuoi benefica

nutra la tua virtude:

siccome il sol che schiude

dal pigro germe il fior;

105 che lento poi su le umili

erbe morrà non colto,

né sorgerà coi fulgidi

color del lembo sciolto,

se fuso a lui nell’etere

110 non tornerà quel mite

lume, dator di vite,

e infaticato altor.

Noi T’imploriam! Nei languidi

pensier dell’infelice

115 scendi piacevol alito,

aura consolatrice:

scendi bufera ai tumidi

pensier del violento;

vi spira uno sgomento

120 che insegni la pietà.

Per Te sollevi il povero

al ciel, ch’è suo, le ciglia;

volga i lamenti in giubilo,

pensando a Cui somiglia:

125 cui fu donato in copia,

doni con volto amico,

con quel tacer pudico,

che accetto il don ti fa.

Spira dei nostri bamboli

130 nell’ineffabil riso;

spargi la casta porpora

alle donzelle in viso;

manda alle ascose vergini

le pure gioie ascose;

135 consacra delle spose

il verecondo amor.

Tempra dei baldi giovani

il confidente ingegno;

reggi il viril proposito

140 ad infallibil segno;

adorna le canizie

di liete voglie sante;

brilla nel guardo errante

di chi sperando muor.

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DENTRO IL TESTO

I contenuti tematici

La Pentecoste è costruita su uno schema tripartito in cui si alternano narrazione, riflessione e preghiera. La prima parte (vv. 1-48) si apre con un’apostrofe alla Chiesa primitiva degli apostoli, alla quale segue il racconto dell’evento miracoloso. Lo Spirito Santo infonde forza e coraggio al primo nucleo di fedeli e consente loro di predicare la “buona novella” in qualunque lingua, venendo compresi dappertutto. La seconda parte (vv. 49-80) esorta pagani, spose e schiave ad accettare il messaggio evangelico, che a tutti gli uomini prospetta libertà, amore e uguaglianza nel regno dei cieli. Nella terza e ultima parte (vv. 81-144) il poeta si rivolge direttamente allo Spirito Santo, perché discenda ancora e sempre, per la salvezza del genere umano. Prende così slancio una preghiera condotta alla prima persona non singolare ma plurale (noi T’imploriam, vv. 89 e 113), sull’esempio del tono liturgico dei canti corali.

Questo testo è il più tardo degli Inni sacri: il più vicino, tanto sul piano ideologico quanto sul piano tematico, ai Promessi sposi. Non a caso nelle ultime strofe appaiono evidenti prefigurazioni dei personaggi del romanzo: dalla fanciulla pudica al malvagio da redimere, sino ai baldi giovani (v. 137) da temprare. Dio è visto come una forza operante nell’uomo: in virtù dell’azione dello Spirito Santo, il cristiano supera la propria debolezza e agisce per un rinnovamento morale collettivo.

Per rendere viva e concreta nel mondo la parola dei Vangeli, la Pentecoste deve ripetersi in ogni istante nella vita degli uomini. Per questo Manzoni fa solo un accenno al momento del miracolo e si concentra piuttosto sulla rinascita dei valori dovuta al cristianesimo. Imposta dunque una preghiera corale, che occupa quasi metà del componimento e in cui lo Spirito Santo è invocato per tutti: la redenzione riguarda l’intera umanità e Cristo è portatore di un messaggio universale di uguaglianza e fratellanza tra popoli e ceti differenti. In questo modo, come scrisse Francesco De Sanctis, lo scrittore milanese traspone in termini cattolici i concetti cardine dell’Illuminismo e in definitiva «concilia gli ideali del Settecento con il Vangelo».

Occorre tuttavia precisare che l’attenzione verso gli oppressi, che connota tutta l’opera manzoniana, va intesa in termini spirituali, prima che sociali o politici. La Pentecoste prelude a una liberazione spirituale, al trionfo dell’uomo sul peccato, in vista della salvezza dell’anima. Nel frattempo è però necessario contrastare il male nel mondo terreno, evitando la rassegnazione passiva ed esercitando la carità.

Le scelte stilistiche

Esiste una contraddizione di fondo tra gli intenti democratici sottesi agli Inni sacri e lo stile sublime profuso in essi dall’autore, in omaggio alle regole del genere degli inni e con l’adozione di un linguaggio comprensibile solo a una ristretta classe di persone colte: La Pentecoste non fa eccezione. Allo stesso tempo Manzoni rinuncia ad attingere dal patrimonio della mitologia classica, che egli ritiene, dopo la conversione, superato: recuperarlo equivarrebbe a una blasfema superstizione (Giunone è definita bugiarda pronuba, v. 61); perciò il poeta si rivolge alle fonti bibliche, moltiplicando i rimandi alle Sacre Scritture.

Nell’ambito lessicale spicca il ricorso ad aulicismi e latinismi (polve, pondo, pronuba, altor ecc.); per il lettore odierno questi ultimi si configurano a volte come “falsi amici” di parole ancora in uso, in quanto assumono un significato diverso da quello corrente per presentare una somiglianza morfologica o fonetica: il lento fiore per esempio è un fiore reclinato; i languidi pensieri sono pensieri deboli, di una mente prostrata.

Molto fitta è la trama di espedienti retorici, tra i quali spiccano le figure della ripetizione: anafore e iterazioni giovano alla memorizzazione del testo e riproducono un andamento stilistico di stampo biblico. Il ricorso ai settenari conferisce all’inno un ritmo incalzante, grazie al sostegno di una sintassi complessa (non mancano periodi che si estendono per più di dieci versi), ricca di parallelismi e movimentata dalla presenza di interrogative, invocazioni, esortazioni.

Per dare terrena concretezza alle questioni teologiche Manzoni ricorre inoltre a due articolate similitudini, che coinvolgono i sensi e la natura, paragonando l’azione dello Spirito Santo al “piovere” della luce sulle cose (vv. 41-48) e al raggio di sole che induce i fiori a germogliare (vv. 103-112).

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VERSO LE COMPETENZE

Comprendere

Riassumi in 10 righe l’argomento della Pentecoste.


Quali momenti della storia sacra sono menzionati nel testo?


Le tre parti dell’inno si rivolgono ciascuna a un diverso interlocutore. Quale?

Analizzare

Come cambia l’atteggiamento della Chiesa prima e dopo la discesa dello Spirito Santo?


Perché Manzoni si rivolge non solo al cristiano ma anche all’adorator degl’idoli (v. 49)?


Individua le diverse figure su cui si esercita l’azione dello Spirito Santo.


Analizza il ruolo della luce nelle due similitudini ai vv. 41-48 e 103-112.

Interpretare

Quale immagine e funzione della Chiesa emerge dal testo?


Come agisce lo Spirito Santo sulla società umana?

Le tragedie

Nella seconda metà degli anni Dieci – quando in lui matura la volontà di concentrarsi sulla Storia, in modo da offrire una meditazione cristiana sulla virtù, sull’ingiustizia, sulla violenza, sul dolore – Manzoni si volge al genere della tragedia. E lo fa, come nel caso della poesia, infrangendo consolidate tradizioni di genere. Compone sì tragedie in versi in 5 atti, com’era prassi comune, ma rifiuta le regole aristoteliche. Seguendo il modello di Shakespeare, molto ammirato in ambito romantico, abbandona le unità aristoteliche di tempo e luogo, che ritiene matrici di inverosimiglianza e causa principale delle forzature ravvisabili nei caratteri e nelle passioni dei personaggi di molte tragedie contemporanee. Riprende inoltre dall’antichità l’istituto del coro, ma gli assegna il ruolo di una sorta di «cantuccio» riservato alle considerazioni del narratore sulle vicende.

In generale il teatro di Manzoni, più adatto alla lettura che alla messa in scena, non mira al trasporto emotivo, ma allo sviluppo di una coscienza critica ispirata dagli eventi esposti.

Il conte di Carmagnola

Di poetica teatrale Manzoni ragiona nella Prefazione al Conte di Carmagnola, tragedia avviata nel 1816, pubblicata nel 1820 e rappresentata per la prima volta a Firenze nel 1828. La vicenda è ambientata nel Quattrocento: il capitano di ventura Francesco Bussone, al servizio del duca di Milano, passa al soldo dei veneziani, che dopo la vittoria di Maclodio (1427) lo condannano a morte in quanto sospettato di tradimento, per avere usato troppa clemenza con i nemici sconfitti.

Nella vicenda di un uomo innocente, sul quale si accaniscono i meccanismi machiavellici della politica, Manzoni rappresenta il trionfo del male nella Storia, temperato solo dalla fede che consola il Carmagnola prima di salire al patibolo. Nel coro S’ode a destra uno squillo di tromba, dedicato allo scontro fra veneziani e milanesi, l’autore lancia un implicito monito agli italiani del suo tempo, perché mettano da parte le discordie, in nome dell’unità.

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Adelchi

Composta tra il 1820 e il 1822, quando viene data alle stampe (la prima messinscena, a Torino, risale al 1843), la tragedia Adelchi è il capolavoro del teatro romantico italiano: Manzoni ottiene una riuscita sintesi tra “vero storico” e “vero poetico”, raccontando gli eventi che nell’VIII secolo portarono al crollo del dominio longobardo in Italia, sotto la spinta dei Franchi di Carlo Magno. In controluce tuttavia non è difficile riconoscere i riferimenti alla situazione politica dell’Italia dell’Ottocento, divisa in più Stati e soggetta al dominio delle potenze straniere.

L’attenzione principale è rivolta ai vinti, siano questi gli eredi della dinastia reale, Adelchi ed Ermengarda, o le popolazioni latine soggiogate. Il racconto, pur ambientato nell’Alto Medioevo, non indulge a concessioni al gusto del pittoresco diffuso nel Romanticismo europeo, in particolare nell’area nordica. Dal punto di vista ideologico, Adelchi rappresenta il punto più avanzato del pessimismo cristiano di Manzoni, animato da una visione radicalmente negativa della società umana.

Gli eventi si svolgono tra il 772 e il 774, quando gran parte della penisola è occupata dai principi longobardi: Ermengarda, figlia del re Desiderio andata in sposa a Carlo, re dei Franchi (il futuro Carlo Magno), viene da lui ripudiata e torna presso la reggia del padre a Pavia. I rapporti tra i due re precipitano definitivamente quando le mire espansionistiche di Desiderio minacciano lo Stato della Chiesa e papa Adriano IV invoca il soccorso di Carlo. La guerra inizia e nel frattempo Ermengarda, ritiratasi in un convento, muore straziata alla notizia delle nuove nozze di Carlo. Questi, dopo essere rimasto a lungo bloccato sulle Alpi, grazie alla guida del diacono Martino e al tradimento di Svarto e altri duchi longobardi, dilaga con il suo esercito nella Pianura padana. Adelchi, erede al trono longobardo, tenta a Pavia un’estrema difesa ma è ferito e catturato, al pari di Desiderio. Prima di spirare, affida il vecchio padre alla clemenza di Carlo, che appare colpito dalla grandezza d’animo del suo avversario.

I due re, Desiderio e Carlo, sono personaggi mossi soltanto dall’interesse di Stato e dalla brama di potere. Dinanzi a loro si ergono Adelchi ed Ermengarda, che rispondono invece alle ragioni dei sentimenti e della giustizia. Adelchi, pur contrario alla guerra, si batte sino in fondo, sperimentando su di sé il dissidio fra le leggi morali e l’azione politica, che si concretizza in una realtà fatta di sangue, violenza, sopraffazione, in cui non resta che «far torto / o patirlo».

Questo scontro tra ideale e reale fa di lui un tipico eroe romantico, che svela l’inganno del potere (la «feroce forza» che «fa nomarsi dritto», cioè che si fa chiamare diritto) e va incontro al proprio destino di sconfitta con cristiana fermezza. La sua è una sventura provvidenziale («provvida sventura»), in quanto garantisce la salvezza eterna. La medesima dinamica riguarda sua sorella Ermengarda, anch’essa appartenente alla schiera degli oppressi: l’umiliazione ricevuta da Carlo ne fa una vittima innocente, sulla cui sofferenza discende la consolazione della Grazia divina.

Il magnifico viaggio - volume 4
Il magnifico viaggio - volume 4
Il primo Ottocento