3 - Storia e Provvidenza

3 Storia e Provvidenza

La meditazione sulla Storia ha un ruolo fondamentale in tutta l’opera creativa e saggistica di Manzoni, che a essa guarda per comporre tanto le due tragedie, Il conte di Carmagnola e Adelchi (ambientate la prima nel XV secolo, la seconda nell’VIII), quanto il romanzo I promessi sposi (situato nel XVII secolo). Dagli idéologues francesi frequentati in gioventù, lo scrittore milanese mutua un approccio agli eventi del passato lontano dalle consuetudini tradizionali. Lungi dal ridurre la Storia a celebrazione delle imprese militari e delle vicende politiche, egli mira a una ricostruzione più ampia, che non si limiti a proiettare in primo piano le gesta di principi e generali, ma tenga conto dell’esistenza di chi nel tempo si sia trovato a subire le ragioni della forza, dunque anche degli appartenenti alle classi più umili.

Questa impostazione, sottesa al disegno dei Promessi sposi, è chiaramente espressa da Manzoni nel Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, scritto e pubblicato a margine dell’Adelchi, nel 1822. Trovatosi dinanzi alla mancanza di testimonianze sulla vita degli italici durante la dominazione longobarda, ai fini di una rappresentazione corretta l’autore si dice convinto dell’esigenza di dar voce ai «desideri, i timori, i patimenti, lo stato generale dell’immenso numero d’uomini che non ebbero parte attiva in quell’avvenimento, ma che ne provaron gli effetti». Quei milioni di individui che sulla Terra passarono senza lasciare traccia, come comparse invisibili, salgono adesso sul palcoscenico della letteratura e della storiografia.

A ossessionarlo è la questione relativa alla presenza del male nella Storia, a causa del quale, in ultima analisi, nella vita terrena non vi è spazio per azioni nobili o disinteressate, ma solo per la violenza che divide il mondo in «oppressori» e «oppressi». Come dice con amarezza Adelchi, agli uomini «non resta / che far torto o patirlo».

La Grazia divina si presenta allora nei confronti degli eroi manzoniani sotto forma di «provvida sventura», ovvero di una disgrazia terrena che li colloca fra gli «oppressi»: sconfitte e umiliazioni portano la salvezza eterna ad Adelchi, alla sorella Ermengarda, come anche a Napoleone nell’ode Il cinque maggio . Da buon cattolico, l’autore vede nella Storia il compimento del volere divino. La Provvidenza agisce in modo imperscrutabile, ma ciò non diminuisce d’altra parte le responsabilità degli esseri umani.

La più alta e intensa riflessione di Manzoni su quest’ultimo punto è costituita dal saggio Storia della colonna infame, dove rifiuta le opinioni espresse da Pietro Verri nelle Osservazioni sulla tortura. Verri aveva ricondotto l’esito del processo agli untori che ebbe luogo nella Milano del 1630, devastata dalla peste, all’ignoranza diffusa in un’epoca violenta e alle leggi sbagliate, che giustificarono le torture e procurarono condanne ingiuste.

Manzoni, tornando sul medesimo processo, sostiene che ridurre quel risultato abominevole a «un effetto de’ tempi e delle circostanze» è inaccettabile per un credente. Il peso della responsabilità a suo parere ricade interamente sui giudici che punirono degli innocenti, calpestando ogni regola: «se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa, ma una colpa».

Al di là di ogni condizionamento, dunque, l’individuo risponde pienamente delle sue azioni. I comportamenti morali, gli abissi del cuore umano nei Promessi sposi sono ampiamente valutati e commentati, senza attenuanti permesse dall’iniquità dei tempi. Nel romanzo la Provvidenza trasforma il male in una serie di prove che consentono di verificare e temprare la fede dei personaggi, che la chiamano in causa a più riprese, a differenza del narratore onnisciente che non la nomina mai esplicitamente: dinanzi al mistero della Grazia divina, «un ordine che passa [supera] immensamente la nostra cognizione» (come scrive nel dialogo Dell’invenzione), Manzoni fa un passo indietro e sceglie per sé un silenzio reverente.

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4 La riflessione sulla lingua

Ai tempi di Manzoni erano in pochi a capire il toscano, e pochissimi in grado di parlarlo, persino fra i ceti colti. Ne dà testimonianza lo scrittore stesso in una vivace pagina del trattato Della lingua italiana: «Supponete dunque che ci troviamo cinque o sei milanesi in una casa, dove stiam discorrendo, in milanese, del più e del meno. Capita uno, e presenta un piemontese, o un veneziano, o un bolognese, o un napoletano, o un genovese; e, come vuol la creanza, si smette di parlar milanese, e si parla italiano. Dite voi se il discorso cammina come prima, dite se ci troviamo in bocca quell’abbondanza e sicurezza di termini che avevamo un momento prima; dite se non dovremo, ora servirci d’un vocabolo generico o approssimativo, dove prima s’avrebbe avuto in pronto lo speciale, il proprio; ora aiutarci con una perifrasi, e descrivere, dove prima non s’avrebbe avuto a far altro che nominare; ora tirar a indovinare, dove prima s’era certi del vocabolo che si doveva usare, anzi non ci si pensava; veniva da sé; ora anche adoprar per disperati il vocabolo milanese, correggendolo con un: come si dice da noi».

Nella seconda introduzione al Fermo e Lucia, addirittura, Manzoni riconosce nel milanese l’unica lingua «nella quale ardirei promettermi di parlare […] tanto da stancare il più paziente uditore, senza proferire un barbarismo [vocabolo straniero]; e di avvertire immediatamente qualunque barbarismo che scappasse altrui». In realtà l’autore conosce molto bene anche il francese, perfezionato negli anni trascorsi a Parigi e periodicamente esercitato nelle lettere. In una di esse, scritta all’amico Claude Fauriel nel 1806, confessa di aver visto «con un piacere misto d’invidia il popolo di Parigi intendere ed applaudire alle commedie di Molière», mentre in Italia l’eccessivo scarto fra lingua scritta e lingua parlata rende impossibile agli scrittori l’effetto di erudire «la moltitudine, di farla invaghire del bello e dell’utile, e di rendere in questo modo le cose un po’ più come dovrebbono essere».

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Il problema della popolarità del linguaggio, che tormenta Manzoni sin dalla gioventù, diviene pressante nel momento in cui egli si volge alla stesura del romanzo, rendendosi conto ben presto dell’estrema difficoltà del compito, moltiplicata dalla latitanza di un uso linguistico comune nella penisola e di una norma universalmente riconosciuta.

Di qui i dubbi che accompagnano la transizione dall’eclettismo del Fermo e Lucia al “toscano-milanese” della ventisettana (ovvero l’edizione del 1827), figlio di febbrili spogli di vocabolari e altre fonti libresche. Subito dopo, il viaggio a Firenze, con la celebre “risciacquatura dei panni in Arno”, contribuisce a orientare l’autore verso l’uso vivo del ceto colto cittadino. A questa opzione è improntata la revisione linguistica del romanzo, che sfocia nell’edizione definitiva, comparsa in dispense fra il 1840 e il 1842.

D’altra parte, alla produzione creativa Manzoni accompagna intense riflessioni teoriche, che avrebbero dovuto convergere nel trattato Della lingua italiana, al quale lavora per decenni, scrivendone cinque redazioni senza mai giungere a un esito ritenuto soddisfacente. Nelle carte di questo «eterno lavoro», pubblicate solo nel XX secolo, lo scrittore articola le sue idee in materia di lingua, ragionando sul concetto di “uso” e confutando le posizioni espresse in merito da puristi e Classicisti. Nelle pagine di Sentir messa, egli insiste sui vantaggi del toscano, unico idioma utilizzato dagli italiani di varia provenienza per comunicare tra loro.

La tesi “fiorentinista” viene pubblicamente espressa e difesa dallo scrittore in interventi più estemporanei, a cominciare dalla Lettera sulla lingua italiana a Giacinto Carena, pubblicata nel 1850, in cui auspica la redazione di un vocabolario dell’uso vivo e caldeggia l’individuazione di una capitale linguistica da assumere a modello. Come il latino fu la lingua di Roma e il francese è la lingua di Parigi, il fiorentino sarà la lingua dell’Italia. L’unità politica non può, secondo Manzoni, prescindere dall’unità linguistica: la nuova nazione dovrà porsi e risolvere il problema. Queste convinzioni impregnano i numerosi interventi, pubblici e privati, che negli anni della vecchiaia Manzoni instancabilmente dedica a una questione che ritiene non puramente estetica, ma innanzitutto sociale e politica.

Il magnifico viaggio - volume 4
Il magnifico viaggio - volume 4
Il primo Ottocento