CRITICI A CONFRONTO - Tommaso Giartosio e Nicola Gardini - Malinconia o sdegno? Come leggere la Vita di Alfieri

CRITICI A CONFRONTO

Tommaso Giartosio e Nicola Gardini

Malinconia o sdegno? Come leggere la Vita di Alfieri

Lo scrittore e critico Tommaso Giartosio (n. 1963), leggendo la Vita alfieriana in chiave psicanalitica, ritiene che l’assenza della figura paterna sia all’origine del suo temperamento malinconico, motivo centrale nell’opera. Lo studioso Nicola Gardini (n. 1965) evidenzia invece nel testo il motivo della tensione antitirannica e l’emergere del temperamento sdegnoso dello scrittore, in permanente contrasto con il mondo che lo circonda. Sono due diverse chiavi di lettura di quello che in molti ritengono il capolavoro dell’autore astigiano.

Tommaso Giartosio

Premetto qualche dato sulla particolarissima situazione familiare di Alfieri. La madre, Monica Maillard di Tournon, già vedova del marchese di Cacherano, sposò in seconde nozze il conte Antonio Alfieri, che però venne a morte pochi mesi dopo la nascita del secondogenito Vittorio. Cinque anni dopo Monica si risposò ancora, curiosamente, con un altro conte Alfieri, cugino del primo. Quindi Vittorio si trova ad avere la madre tutta per sé per ben cinque anni, mentre il padre è una figura teneramente amata ma del tutto assente. Sembra un sogno edipico. Ma poi la madre si risposa (i primi ricordi di Vittorio sono appunto di quest’epoca) e il paradiso infantile crolla. Le pagine della Puerizia mostrano una tensione sottaciuta ma crescente, indubbiamente collegata al conflitto con la madre, che fu, a quanto pare, un’educatrice inflessibile.

Questa prima parte della Vita ha in realtà un obiettivo ben preciso: mostrare come il bambino Vittorio avesse già un temperamento da poeta, cioè un temperamento malinconico. È interessante seguire l’insorgere di questa caratterizzazione essenziale per l’(auto) immagine di Alfieri, la malinconia. Verso i sei anni Vittorio è preso da un «innocente amore» per un gruppo di giovani novizi che vede quando assiste alla messa nella chiesa del Carmine. L’autore spiega questa passione («e questo insomma, sotto tanti e sì diversi aspetti, era amore») con il dolore per la partenza della sorella di sangue Giulia, mandata in monastero dopo le terze nozze della madre. L’amore per i novizi è insomma una reazione all’isolamento che si è prodotto nel momento in cui la madre ha spezzato il nucleo familiare primario. Si tratta ovviamente di un sentimento inconfessabile, ma Vittorio gli trova uno sbocco sorprendente. Un giorno, di nascosto, presi i vocabolari di latino e italiano cancella in entrambi la parola “frati” e vi sostituisce la parola “padri”.

In questo piccolo sabotaggio linguistico si esprimono numerosi contenuti. L’amore per un padre immaginario che fa da termine di riferimento unico, da polo affettivo profondo; l’identificarsi, quindi, delle due dimensioni del desiderio e dell’identità; il bisogno di affermarsi su entrambi questi livelli insieme, a costo di infrangere le regole del mondo in cui il bambino già vive e che prima o poi dovrà accettare (ma la trasgressione dilatoria è consapevole, e niente affatto sgradita); la scelta, infine, di attuare la propria rivolta mediante il linguaggio, per giunta appropriandosi dei significati ricevuti e distorcendoli: segno, questo, di un’evidente vocazione all’elaborazione formale personale. Vediamo quindi come la puerizia del piccolo Vittorio provi davvero la sua vocazione poetica; mostrandoci, però, come questa vocazione si articoli in un contesto repressivo, un po’ come quei popoli costretti dall’oppressione straniera ad elaborare una propria letteratura esortativa e oratoria.


(Tommaso Giartosio, Alfieri: la vocazione di un malinconico, in AA.VV., Rileggiamo i classici, a cura di Roberto Carnero e Giuliano Ladolfi, Interlinea, Novara 2002)

Nicola Gardini

Il protagonista del racconto è un irrequieto aristocratico [] che, senza mai smettere di girovagare, a un certo punto comincia a mettere radici nella lettura dei classici. La scoperta della vocazione letteraria non è precoce; né lo è l’effettivo esercizio del comporre. Alfieri non si presenta certo come un enfant prodige o un predestinato all’arte della poesia. Anzi, non la smette di fustigare la sua ignoranza giovanile pure della lingua italiana – l’ammirato toscano – e, anche quando la sua attività di scrittore si è pienamente sviluppata, continua a considerare prioritaria per lui l’istruzione rispetto all’esercizio creativo («dovendo lasciare, o le mie cose, o lo studio, senza dubbio lascio le mie», IV, xxvii).

La Vita, in sostanza, mette in scena la formazione letteraria di un grande europeo: uno che ha contrastato l’inevitabile provincialismo delle sue origini italiane e l’autodistruzione cui lo portava la sua indole sfrenata con un caparbio, sempre più efficiente studio della lingua e della letteratura. Facilmente di questo bel libro si sono messi e ancora si potrebbero mettere in evidenza la rappresentazione psicofisica dell’uomo: la sua irruenza, il suo fastidio dell’ipocrisia e del servilismo, la sua isterica passionalità, il suo orgoglio, il suo narcisismo, la sua passione per i cavalli, le sue sofferenze amorose, le sue malattie; insomma, tutti quei tratti e vezzi da «eroe romantico» che Alfieri stesso ha grande interesse ad attribuirsi. Io, mettendo da parte il romanzo psicologico e sentimentale, che pure ancora appassiona e convince, vorrei insistere sull’aspetto «educativo» della Vita: cioè sull’immagine dell’uomo che impara; l’autodidatta, che, mosso unicamente da un suo fuoco, si costringe a leggere; il fiero anticonformista che, quando, a Parigi, gli si offre l’occasione di incontrare Rousseau, sceglie di ritirarsi nella biblioteca dei suoi adorati autori italiani, preferendo il confronto con la tradizione al commercio con i contemporanei. []

Il personaggio di questa autobiografia è una vivente protesta contro l’Italia del suo tempo. Il suo amore dei classici, dell’italiano (puntualmente contrapposto al francese), della libertà politica e creativa che altro è se non la difesa di un sistema civile superiore, che si attua in lui prima che in altri e in lui prende la forma di una smaniosa, superba militanza? []

Questo – lo sdegno – è il senso imperituro del libro, non l’autocelebrazione, non la registrazione di qualche episodio singolare, cose che stanno tra i motivi contingenti della scrittura e non possono procurare che un piacere minore. La Vita, dopo oltre due secoli dalla sua pubblicazione, ci offre il confortante modello di una persona che critica, uno che non si allinea e di fronte allo schifo non tace e, per quanto solo nella società degli altri uomini, non si perde d’animo, perché sa di avere potenti alleati nella lingua e nei libri.


(Nicola Gardini, Per una biblioteca indispensabile, Einaudi, Torino 2011)

PER SCRIVERNE

Le due interpretazioni della Vita di Alfieri proposte da Giartosio e Gardini, per quanto diverse, non sono affatto incompatibili, anzi possono proficuamente integrarsi a vicenda. In che modo in quest’opera si intrecciano il motivo della “malinconia” e quello dello “sdegno”? In quale reciproca relazione si pongono? Rispondi facendo riferimento ai brani da te letti.

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