T6 - Le tappe di un viaggiatore in fuga dal mondo

T6

Le tappe di un viaggiatore in fuga dal mondo

Vita, Epoca terza, cap. 8

In questo capitolo Alfieri riporta un’intensa descrizione dei viaggi compiuti dall’Austria alla Germania, dalla Danimarca fino alle «immense selve, laghi, e dirupi» della Svezia. In ogni tappa l’autore incontra personalità di spicco: dal racconto di questi episodi emergono il suo carattere burbero e scontroso e la sua volontà di rimanere sempre coerente a un’idea di libertà assoluta.

Secondo viaggio, per la Germania, la Danimarca e la Svezia.

Ottenuta la solita indispensabile e dura permissione del Re,1 partii nel maggio del 

1769 a bella prima alla volta di Vienna.2 Nel viaggio, abbandonando l’incarico 

nojoso del pagare al mio fidatissimo Elia,3 io cominciava a fortemente riflettere su 

5      le cose del mondo; ed in vece di una malinconia fastidiosa ed oziosa,4 e di quella 

mera impazienza di luogo,5 che mi aveano sempre incalzato nel primo viaggio,6 

[…] ne avea ricavata un’altra malinconia riflessiva e dolcissima.7 Mi riuscivano in 

ciò di non picciolo ajuto (e forse devo lor tutto, se alcun poco ho pensato 

dappoi)8 i sublimi Saggi del familiarissimo Montaigne,9 i quali divisi in dieci tometti, 

10    e fattisi miei fidi e continui compagni di viaggio, tutte esclusivamente riempivano 

le tasche della mia carrozza.10 Mi dilettavano ed instruivano, e non poco lusingavano 

anche la mia ignoranza e pigrizia, perché aperti così a caso, qual che si fosse 

il volume, lettane una pagina o due, lo richiudeva, ed assai ore poi su quelle due 

pagine sue io andava fantasticando del mio. Ma mi facea bensì molto scorno11 

15    quell’incontrare ad ogni pagine di Montaigne uno o più passi latini, ed essere 

costretto a cercarne l’interpretazione nella nota, per la totale impossibilità in cui 

mi era ridotto d’intendere neppure le più triviali12 citazioni di prosa, non che le 

tante dei più sublimi poeti. E già non mi dava neppur più la briga di provarmici, e 

asinescamente leggeva a dirittura13 la nota. Dirò più; che quei sì spessi14 squarci dei 

20    nostri Poeti primarj italiani che vi s’incontrano, anco venivano da me saltati a piè 

pari, perché alcun poco mi avrebbero costato fatica a benissimo intenderli. Tanta

era in me la primitiva ignoranza, e la desuetudine15 poi di questa divina lingua, la 

quale in ogni giorno più andava perdendo.

Per la via di Milano e Venezia, due città ch’io volli rivedere; poi per Trento, 

25    Inspruck, Augusta, e Monaco, mi rendei16 a Vienna, pochissimo trattenendomi 

in tutti i suddetti luoghi. Vienna mi parve avere gran parte delle picciolezze17 di 

Torino, senza averne il bello della località.18 Mi vi trattenni tutta l’estate, e non 

vi imparai nulla. Dimezzai il soggiorno, facendo nel luglio una scorsa19 fino a 

Buda,20 per aver veduta21 una parte dell’Ungheria. Ridivenuto oziosissimo, altro 

30    non faceva che andare attorno qua e là nelle diverse compagnie;22 ma sempre ben 

armato contro le insidie d’amore.23 E mi era a questa difesa un fidissimo usbergo24 

il praticare il rimedio commendato da Catone.25 Io avrei in quel soggiorno 

di Vienna potuto facilmente conoscere e praticare26 il celebre poeta Metastasio,27 

nella di cui casa ogni giorno il nostro Ministro, il degnissimo conte di Canale,28 

35    passava di molte ore la sera in compagnia scelta di altri pochi letterati, dove si 

leggeva seralmente29 alcuno squarcio di classici o greci, o latini, o italiani. E 

quell’ottimo vecchio conte di Canale, che mi affezionava,30 e moltissimo compativa i miei 

perditempi, mi propose più volte d’introdurmivi. Ma io, oltre all’essere di natura 

ritrosa, era anche tutto ingolfato nel francese,31 e sprezzava ogni libro ed autore 

40    italiano. Onde quell’adunanza di letterati di libri classici mi parea dover essere 

una fastidiosa brigata di pedanti. Si aggiunga, che io avendo veduto il Metastasio 

a Schoenbrunn32 nei giardini imperiali fare a Maria Teresa33 la genuflessioncella di 

uso,34 con una faccia sì servilmente lieta e adulatoria, ed io giovenilmente 

plutarchizzando,35 mi esagerava talmente il vero in astratto,36 che io non avrei 

45    consentito mai di contrarre né amicizia né familiarità con una Musa appigionata37

venduta all’autorità despotica38 da me sì caldamente abborrita.39 In tal guisa40 io 

andava a poco a poco assumendo il carattere di un salvatico41 pensatore; e queste 

disparate42 accoppiandosi poi con le passioni naturali all’età di vent’anni e le loro 

conseguenze naturalissime, venivano a formar di me un tutto assai originale e 

50    risibile.43

Proseguii nel settembre il mio viaggio verso Praga e Dresda, dove mi trattenni da44 

un mese; indi a Berlino, dove dimorai altrettanto. All’entrare negli stati del 

gran Federico,45 che mi parvero la continuazione di un solo corpo di guardia, mi 

sentii raddoppiare e triplicare l’orrore per quell’infame mestier militare, infamissima 

55    e sola base dell’autorità arbitraria, che sempre è il necessario frutto di tante 

migliaja di assoldati satelliti.46 Fui presentato al Re. Non mi sentii nel vederlo 

alcun moto né di maraviglia né di rispetto, ma d’indegnazione bensì e di rabbia; 

moti che si andavano in me ogni giorno afforzando e moltiplicando alla vista di 

quelle tante e poi tante diverse cose che non istanno come dovrebbero stare, e che 

60    essendo false si usurpano pure la faccia47 e la fama di vere. Il conte di Finch, 

Ministro del Re, il quale mi presentava, mi domandò perché io, essendo pure in 

servizio del mio Re, non avessi quel giorno indossato l’uniforme. Risposigli: «Perché 

in quella corte mi parea ve ne fossero degli uniformi abbastanza». Il Re mi disse 

quelle quattro solite parole di uso; io l’osservai profondamente, ficcandogli 

65    rispettosamente gli occhi negli occhi; e ringraziai il Cielo di non mi aver fatto nascer suo 

schiavo.48 Uscii di quella universal caserma prussiana verso il mezzo Novembre, 

abborrendola quanto bisognava.

Partito alla volta di Amburgo, dopo tre giorni di dimora, ne ripartii per la 

Danimarca. Giunto a Copenhaguen ai primi di decembre, quel paese mi piacque 

70    bastantemente, perché mostrava una certa somiglianza coll’Olanda; ed anche v’era 

una certa attività, commercio, ed industria, come non si sogliono vedere nei 

governi pretti monarchici:49 cose tutte, dalle quali ne ridonda un certo ben essere 

universale, che a primo aspetto previene chi arriva, e fa un tacito elogio di chi vi 

comanda; cose tutte, di cui neppur una se ne vede negli stati prussiani; benché il 

75    gran Federico vi comandasse alle lettere e all’arti e alla prosperità, di fiorire sotto 

l’ uggia sua.50 Onde la principal ragione per cui non mi dispiacea Copenhaguen si 

era il non esser Berlino né Prussia; paese, di cui niun altro mi ha lasciato una più 

spiacevole e dolorosa impressione, ancorché vi siano, in Berlino massimamente, 

molte cose belle e grandiose in architettura. Ma quei perpetui soldati, non li posso 

80    neppur ora, tanti anni dopo, ingojare senza sentirmi rinnovare lo stesso furore che 

la loro vista mi cagionava in quel punto.

In quell’inverno mi rimisi alcun poco a cinguettare51 italiano con il Ministro 

di Napoli52 in Danimarca, che si trovava essere pisano; il conte Catanti, cognato 

del celebre primo Ministro in Napoli, Marchese Tanucci,53 già professore 

85    nell’Università pisana. Mi dilettava molto il parlare e la pronunzia toscana, 

massimamente paragonandola col piagnisteo nasale e gutturale del dialetto danese che 

mi toccava di udire per forza, ma senza intenderlo, la Dio grazia.54 Io malamente 

mi spiegava col prefato55 conte Catanti, quanto alla proprietà dei termini, e alla 

brevità ed efficacia delle frasi, che è somma nei Toscani; ma quanto alla pronunzia 

90    di quelle mie parole barbare italianizzate, ell’era bastantemente pura e toscana; 

stante che io deridendo sempre tutte le altre pronunzie italiane, che veramente mi 

offendeano l’udito, mi era avvezzo a pronunziar quanto meglio poteva e la u, e la 

z, e gi, e ci, ed ogni altra toscanità. Onde alquanto inanimito56 dal suddetto conte 

Catanti a non trascurare una sì bella lingua, e che era pure la mia, dacché di essere 

95    io francese non acconsentiva a niun modo, mi rimisi a leggere alcuni libri italiani. 

Lessi, tra’ molti altri, i Dialoghi dell’Aretino,57 i quali benché mi ripugnassero per 

le oscenità, mi rapivano pure per l’originalità, varietà, e proprietà dell’espressioni. 

E mi baloccava58 così a leggere, perché in quell’inverno mi toccò di star molto in 

casa ed anche a letto, atteso i replicati incomoducci che mi sopravvennero per aver 

100 troppo sfuggito l’amore sentimentale.59 Ripigliai anche con piacere a rileggere per 

la terza e quarta volta il Plutarco; e sempre il Montaigne; onde il mio capo era 

una strana mistura di filosofia, di politica, e di discoleria.60 Quando gl’incomodi 

mi permetteano d’andar fuori, uno dei maggiori miei divertimenti in quel clima 

boreale era l’andare in slitta; velocità poetica, che molto mi agitava e dilettava la 

105 non men celere61 fantasia.

Verso il fin di marzo partii per la Svezia; e benché io trovassi il passo del Sund 

affatto libero dai ghiacci, indi la Scania libera dalla neve; tosto ch’ebbi oltrepassato 

la città di Norkoping, ritrovai di bel nuovo un ferocissimo inverno, e tante 

braccia di neve, e tutti i laghi rappresi,62 a segno che63 non potendo più proseguire 

110 colle ruote, fui costretto di smontare il legno64 e adattarlo come ivi s’usa sopra 

due slitte; e così arrivai a Stockolm. La novità di quello spettacolo, e la greggia65 

maestosa natura di quelle immense selve, laghi, e dirupi, moltissimo mi 

trasportavano;66 e benché non avessi mai letto l’Ossian,67 molte di quelle sue immagini 

mi si destavano ruvidamente scolpite, e quali le ritrovai poi descritte allorché più 

115 anni dopo lo lessi studiando i ben architettati versi del celebre Cesarotti.68

La Svezia locale,69 ed anche i suoi abitatori d’ogni classe, mi andavano molto 

a genio; o sia perché io mi diletto molto più degli estremi, o altro sia ch’io non 

saprei dire; ma fatto si è, che s’io mi eleggessi di vivere nel Settentrione, preferirei 

quella estrema parte a tutte l’altre a me cognite.70 La forma del governo della 

120 Svezia, rimestata71 ed equilibrata in un certo tal qual modo che pure una semilibertà 

vi trasparisce, mi destò qualche curiosità di conoscerla a fondo. Ma incapace poi 

di ogni seria e continuata applicazione, non la studiai che alla grossa.72 Ne intesi 

pure abbastanza per formarne nel mio capino un’idea: che stante la povertà delle 

quattro classi votanti,73 e l’estrema corruzione della classe dei nobili e di quella 

125 dei cittadini, donde nasceano le venali influenze dei due corruttori paganti, la 

Russia e la Francia,74 non vi potea allignare75 né concordia fra gli ordini, né 

efficacità di determinazioni,76 né giusta e durevole libertà. Continuai il divertimento 

della slitta con furore, per quelle cupe selvone, e su quei lagoni crostati, fino oltre 

ai 20 di aprile; ed allora in soli quattro giorni con una rapidità incredibile seguiva 

130 il dimoiare77 d’ogni qualunque gelo, attesa la lunga permanenza del sole su 

l’orizzonte, e l’efficacia dei venti marittimi; e allo sparir delle nevi accatastate forse 

in dieci strati l’una su l’altra, compariva la fresca verdura;78 spettacolo veramente 

bizzarro, e che mi sarebbe riuscito poetico se avessi saputo far versi.

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DENTRO IL TESTO

I contenuti tematici

Nella Giovinezza i viaggi di Alfieri si susseguono a ritmo incalzante, con un continuo cambio di scenari, di atmosfere, di persone. Alla sete di conoscenza dello scrittore contribuiscono l’insoddisfazione e la noia da cui egli si sente continuamente assalito: i viaggi rappresentano un tentativo, in realtà vano, di fuggire da una condizione dello spirito che l’autore riuscirà a placare solo con la conversione letteraria.

La noia – che lo porta a cambiare continuamente l’oggetto dei suoi desideri e delle sue passioni – è anche la causa dell’incapacità di approfondire i propri interessi. Alfieri si accusa più volte, infatti, di superficialità (Ma incapace poi di ogni seria e continuata applicazione, non la studiai che alla grossa, rr. 121-122).

Alfieri è affamato di cultura classica, ma non fatica a constatare i propri limiti, che gli impediscono di comprendere le citazioni in latino contenute nell’opera di Montaigne. La critica alla formazione culturale ricevuta, presente fin dall’incipit della Vita, costituisce un vero e proprio cruccio che non abbandona mai lo scrittore, costretto a un faticoso lavoro da autodidatta.

Emerge qui in modo chiaro il carattere altero e sdegnoso di Alfieri, che, in nome della libertà e dell’odio per qualsiasi forma di autoritarismo, rifiuta di trascorrere le serate nei salotti austriaci che si onoravano della presenza di Metastasio: Alfieri disprezza il celebrato poeta perché asservito al sovrano, apostrofandolo Musa appigionata o venduta (rr. 45-46). Si scorge, in tale polemica, l’ideale di artista vagheggiato dall’autore e descritto nel trattato Del principe e delle lettere: non il cortigiano bisognoso di denaro e protezione, ma l’intellettuale libero, che rifiuta le lusinghe del mecenatismo per esprimere senza condizionamenti il proprio pensiero.

Una situazione simile si ripete nella Prussia di Federico II, che Alfieri giudica una universal caserma (r. 66), rimanendo inorridito dalla presenza massiccia dei soldati del vasto esercito prussiano. Al cospetto del re egli non solo non indossa l’uniforme, come dovrebbe, ma lo fissa negli occhi per manifestargli la fierezza della propria libertà.

Da questi atteggiamenti di superiorità e di sfida traspare dunque il temperamento orgoglioso del poeta, che, tuttavia, è anche capace di sottoporre sé stesso e i propri comportamenti a un’ironica autocritica, come quando si definisce assai originale e risibile (rr. 49-50) in relazione ad alcune pose assunte.

Nel racconto delle tappe svedesi del viaggio, infine, si coglie l’attrazione di Alfieri, di gusto tipicamente preromantico, per i paesaggi incontaminati (io mi diletto molto più degli estremi, r. 117), che lo scrittore, volontariamente, attraversa in condizioni precarie e su diligenze poco confortevoli. Gli spazi sconfinati e solitari rappresentano il teatro congeniale per soddisfare il desiderio del “sublime” e dell’“illimitato” e, allo stesso tempo, per dare requie a un cuore perennemente afflitto da malinconia e insoddisfazione.

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VERSO LE COMPETENZE

Comprendere

1 Ripercorri su una carta dell’Europa le tappe del viaggio di Alfieri.


2 Per ogni tappa, sintetizza in due o tre righe le attività e le occupazioni di Alfieri.

Analizzare

3 Sottolinea nel testo le espressioni con cui l’autore situa temporalmente i diversi spostamenti. Quale effetto espressivo è determinato dalla loro rapida successione?


4 Il tema linguistico è ricorrente in queste pagine: come si sente, Alfieri, nei confronti della lingua italiana e perché? Che cosa desidererebbe? Quali soluzioni mette in atto? Perché questa riflessione è così importante per la sua produzione successiva?

Interpretare

5 Alfieri esprime giudizi, a volte molto severi, su ogni paese che visita: in base a quali criteri ti sembra formularli?


6 Dalle osservazioni fatte sui diversi sistemi politici, quale concezione emerge?


7 Quale aspetto della personalità dello scrittore viene evidenziato dalla sua passione per i paesaggi estremi, come quelli svedesi?

sviluppare il lessico

8 Nel testo che hai letto, Alfieri fa largo uso di aggettivi di grado superlativo e di nomi alterati: individuane almeno tre esempi e spiegane la funzione.


Aggettivi di grado superlativo

 
 
 

Nomi alterati

 
 
 

scrivere per...

esporre

9 Dal giudizio sul contegno di Metastasio traspare la concezione alfieriana dell’intellettuale. Delineala in un testo espositivo di circa 15 righe.

Paesaggi romantici

Negli stessi anni in cui Vittorio Alfieri descrive con entusiasmo i suoi viaggi nella natura sconfinata del Nord, anche la pittura sviluppa una sensibilità estetica per il “sublime”, con la raffigurazione di paesaggi amplissimi, illuminati da una luce fredda e tagliente o avvolti in atmosfere di tempesta. Il norvegese Peder Balke (1804-1887), autore soprattutto di marine e paesaggi acquatici, ben incarna questa tendenza: raffigurando la Lapponia visitata in gioventù dal re di Francia Luigi Filippo, egli presenta drammatici contrasti tonali, con il sole che fa capolino dietro cumuli di nubi e illumina i profili aspri delle montagne per poi riflettersi nelle onde agitate del mare.

Il magnifico viaggio - volume 3
Il magnifico viaggio - volume 3
Il Seicento e il Settecento