T5 - Alle origini di un’indole impetuosa
T5
Alle origini di un’indole impetuosa
Vita, Epoca prima, capp. 2-4
CAPITOLO SECONDO
Reminiscenze dell’infanzia.
Ripigliando dunque a parlare della mia primissima età, dico che di quella stupida
vegetazione infantile,1 non mi è rimasta altra memoria se non quella d’uno zio
paterno, il quale avendo io tre anni in quattr’anni,2 mi facea por ritto3 su un antico
5 cassettone, e quivi molto accarezzandomi mi dava degli ottimi confetti. Io non
mi ricordava più quasi punto4 di lui, né altro me n’era rimasto fuorch’egli portava
certi scarponi riquadrati in punta. Molti anni dopo, la prima volta che mi vennero
agli occhi certi stivali a tromba,5 che portano pure la scarpa quadrata a quel modo
stesso dello zio morto già da gran tempo, né mai più veduto da me da che io aveva
10 uso di ragione, la subitanea6 vista di quella forma di scarpe del tutto oramai
disusata, mi richiamava ad un tratto tutte quelle sensazioni primitive7 ch’io aveva
provate già nel ricevere le carezze e i confetti dello zio, di cui i moti8 ed i modi, ed
il sapore perfino dei confetti mi si riaffacciavano vivissimamente ed in un subito
nella fantasia.9 Mi sono lasciata uscir di penna questa puerilità,10 come non inutile
15 affatto a chi specula sul meccanismo delle nostre idee, e sull’affinità dei pensieri
colle sensazioni.11
Nell’età di cinque anni circa, dal mal de’ pondi12 fui ridotto in fine;13 e mi pare
di aver nella mente tuttavia un certo barlume de’ miei patimenti; e che senza aver
idea nessuna di quello che fosse la morte, pure la desiderava come fine di dolore;
20 perché quando era morto quel mio fratello minore,14 avea sentito dire ch’egli era
diventato un angioletto.
Per quanti sforzi io abbia fatto spessissimo per raccogliere le idee primitive, o
sia le sensazioni ricevute prima de’ sei anni, non ho potuto mai raccapezzarne altre
che queste due. La mia sorella Giulia, ed io, seguitando il destino della madre,
25 eramo15 passati dalla casa paterna ad abitare con lei nella casa del patrigno, il quale
pure ci fu più che padre per quel tempo che ci stemmo. La figlia ed il figlio del
primo letto rimasti,16 furono successivamente inviati a Torino, l’uno nel Collegio
de’ Gesuiti, l’altra nel monastero; e poco dopo fu anche messa in monastero, ma
in Asti stessa, la mia sorella Giulia, essendo io vicino ai sett’anni. E di quest’avvenimento
30 domestico mi ricordo benissimo, come del primo punto17 in cui le facoltà
mie sensitive18 diedero cenno di sé. Mi sono presentissimi i dolori e le lagrime
ch’io versai in quella separazione di tetto19 solamente, che pure a principio non
impediva ch’io la visitassi ogni giorno. E speculando20 poi dopo su quegli effetti
e sintomi del cuore provati allora, trovo essere stati per l’appunto quegli stessi
35 che poi in appresso21 provai quando nel bollore22 degli anni giovenili mi trovai
costretto a dividermi da una qualche amata mia donna;23 ed anche nel separarmi
da un qualche vero amico, che tre o quattro successivamente ne ho pure avuti finora;
fortuna che non sarà toccata a tanti altri, che gli avranno forse meritati più di
me. Dalla reminiscenza di quel mio primo dolore del cuore, ne ho poi dedotta la
40 prova che tutti gli amori dell’uomo, ancorché24 diversi, hanno lo stesso motore.25
Rimasto dunque io solo di tutti i figli nella casa materna, fui dato in custodia
ad un buon prete, chiamato don Ivaldi, il quale m’insegnò cominciando dal compitare26
e scrivere, fino alla classe quarta, in cui io spiegava non male, per quanto
diceva il maestro, alcune vite di Cornelio Nipote,27 e le solite favole di Fedro.28 Ma
45 il buon prete era egli stesso ignorantuccio,29 a quel ch’io combinai30 poi dopo; e
se dopo i nov’anni mi avessero lasciato alle sue mani, verisimilmente non avrei
imparato più nulla. I parenti erano anch’essi ignorantissimi; e spesso udiva loro
ripetere quella usuale massima dei nostri nobili di allora; che ad un Signore non
era necessario di diventar un Dottore. Io nondimeno aveva per natura una certa
50 inclinazione allo studio, e specialmente dopo che uscì di casa la sorella, quel ritrovarmi
in solitudine col maestro mi dava ad un tempo malinconia e raccoglimento.
CAPITOLO TERZO
Primi sintomi di un carattere appassionato.
Ma qui mi occorre di notare un’altra particolarità assai strana, quanto allo sviluppo
delle mie facoltà amatorie. La privazione della sorella mi avea lasciato addolorato
55 per lungo tempo, e molto più serio in appresso.31 Le mie visite a quell’amata
sorella erano sempre andate diradando, perché essendo sotto il maestro,32 e dovendo
attendere allo studio, mi si concedeano solamente nei giorni di vacanza o
di festa, e non sempre. Una tal quale consolazione di quella mia solitudine mi si
era andata facendo sentire a poco a poco nell’assuefarmi ad andare ogni giorno
60 alla chiesa del Carmine attigua alla nostra casa; e di sentirvi spesso della musica,
e di vedervi uffiziare33 quei frati, e far tutte le ceremonie della messa cantata,
processione, e simili. In capo a più mesi non pensavo più tanto alla sorella; ed
in capo a più altri, non ci pensava quasi più niente, e non desiderava altro che di
essere condotto mattina e giorno al Carmine. Ed eccone la ragione. Dal viso di
65 mia sorella in poi, la quale avea circa nov’anni quando uscì di casa, io non aveva
più veduto usualmente altro viso di ragazza né di giovane, fuorché certi fraticelli
novizj del Carmine, che poteano avere tra i quattordici e sedici anni all’incirca, i
quali coi loro roccetti34 assistevano alle diverse funzioni di chiesa. Questi loro visi
giovenili, e non dissimili da’ visi donneschi,35 aveano lasciato nel mio tenero ed
70 inesperto cuore a un di presso36 quella stessa traccia e quel medesimo desiderio
di loro, che mi vi avea già impresso il viso della sorella. E questo insomma, sotto
tanti e sì diversi aspetti, era amore; come poi pienamente conobbi e me ne accertai
parecchi anni dopo, riflettendovi su; perché di quanto io allora sentissi o facessi
nulla affatto sapeva, ed obbediva al puro istinto animale.37 Ma questo mio innocente
75 amore per que’ novizj, giunse tant’oltre, che io sempre pensava ad essi ed
alle loro diverse funzioni; or mi si rappresentavano nella fantasia coi loro devoti
ceri in mano, servienti la Messa con viso compunto38 ed angelico, ora coi turiboli39
incensando l’altare; e tutto assorto in codeste imagini, trascurava i miei studj, ed
ogni occupazione, o compagnia mi nojava. Un giorno fra gli altri, stando fuori di
80 casa il maestro, trovatomi solo in camera, cercai ne’ due vocabolarj latino e italiano
l’articolo frati; e cassata40 in ambidue quella parola, vi scrissi Padri; così credendomi
di nobilitare, o che so io d’altro, quei novizietti ch’io vedeva ogni giorno,
con nessun dei quali avea però mai favellato,41 e da cui non sapeva assolutamente
quello ch’io mi volessi. L’aver sentito alcune volte con qualche disprezzo articolare
85 la parola Frate, e con rispetto ed amore quella di Padre, erano le sole cagioni per
cui m’indussi a correggere quei dizionarj; e codeste correzioni fatte anche grossolanamente
col temperino e la penna, le nascosi poi sempre con gran sollecitudine e
timore al maestro, il quale non se ne dubitando,42 né a tal cosa certamente pensando,
non se n’avvide poi mai. Chiunque vorrà riflettere alquanto su quest’inezia, e
90 rintracciarvi il seme delle passioni dell’uomo, non la troverà forse né tanto risibile
né tanto puerile, quanto ella pare.
Da questi sì fatti effetti d’amore ignoto intieramente a me stesso,43 ma pure
tanto operante nella mia fantasia, nasceva, per quanto ora credo, quell’umor malinconico,
che a poco a poco s’insignoriva44 di me, e dominava poi sempre su
95 tutte le altre qualità dell’indole mia. Fra i sette ed ott’anni, trovandomi un giorno
in queste disposizioni malinconiche, occasionate45 forse anche dalla salute
che era gracile anzi che no,46 visto uscire il maestro, e il servitore, corsi fuori del
mio salotto che posto a terreno riusciva in un secondo cortile, dove eravi intorno
intorno molt’erba. E tosto mi posi a strapparne colle mani quanta ne veniva, e
100 ponendomela in bocca a masticarne e ingojarne quanta più ne poteva, malgrado
il sapore ostico47 ed amarissimo. Io avea sentito dire non so da chi, né come, né
quando, che v’era un’erba detta cicuta48 che avvelenava e faceva morire; io non
avea mai fatto pensiero di voler morire, e poco sapea quel che il morire si fosse;
eppure seguendo così un non so quale istinto naturale misto di un dolore di cui
105 m’era ignota la fonte, mi spinsi avidissimamente a mangiar di quell’erba, figurandomi
che in essa vi dovesse anco essere della cicuta. Ma ributtato poi dalla
insopportabile amarezza e crudità di un tal pascolo, e sentendomi provocato a
dare di stomaco, fuggii nell’annesso giardino, dove non veduto da chi che sia mi
liberai quasi interamente di tutta l’erba ingojata; e tornatomene in camera me ne
110 rimasi soletto e tacito con qualche doloruzzo di stomaco e di corpo. Tornò frattanto
il maestro, che di nulla si avvide, ed io nulla dissi. Poco dopo si dové andare
in tavola, e mia madre vedendomi gli occhi gonfi e rossi, come sogliono rimanere
dopo gli sforzi del vomito, domandò, insistendo, e volle assolutamente saper quel
che fosse; ed oltre i comandi della madre mi andavano anche sempre più punzecchiando
115 i dolori di corpo, sì ch’io non potea punto mangiare, e parlar non voleva.
Onde io sempre duro a tacere, ed a vedere di non mi scontorcere,49 la madre sempre
dura ad interrogare e minacciarmi; finalmente osservandomi essa ben bene, e
vedendomi in atto di patire, e poi le labbra verdiccie, che io non avea pensato di
risciacquarmele, spaventatasi molto ad un tratto si alza, si approssima a me, mi
120 parla dell’insolito color delle labbra, m’incalza e sforza a rispondere, finché vinto
dal timore e dolore io tutto confesso piangendo. Mi vien dato subito un qualche
leggero rimedio, e nessun altro male ne segue, fuorché per più giorni fui rinchiuso
in camera per gastigo; e quindi nuovo pascolo, e fomento50 all’umor malinconico.
CAPITOLO QUARTO
Sviluppo dell’indole indicato da varj fattarelli.
125 L’indole, che io andava intanto manifestando in quei primi anni della nascente
ragione, era questa. Taciturno e placido, per lo più; ma alle volte loquacissimo e
vivacissimo; e quasi sempre negli estremi contrarj; ostinato e restìo contro la forza,
pieghevolissimo agli avvisi amorevoli; rattenuto più che da nessun’altra cosa dal
timore d’essere sgridato; suscettibile di vergognarmi fino all’eccesso, e inflessibile
130 se io veniva preso a ritroso.51
Ma, per meglio dar conto ad altrui ed a me stesso di quelle qualità primitive
che la natura mi avea improntate nell’animo, fra molte sciocche istoriette accadutemi
in quella prima età, ne allegherò52 due o tre di cui mi ricordo benissimo,
e che ritrarranno al vivo il mio carattere. Di quanti gastighi mi si potessero dare,
135 quello che smisuratamente mi addolorava, ed a segno di53 farmi ammalare, e che
perciò non mi fu dato che due volte sole, egli era di mandarmi alla Messa colla
reticella da notte in capo, assetto che nasconde quasi interamente i capelli.
La prima volta ch’io ci fui condannato (né mi ricordo più del perché) venni dunque
strascinato per mano dal maestro alla vicinissima chiesa del Carmine; chiesa
140 abbandonata,54 dove non si trovavano mai quaranta persone radunate nella sua
vastità; tuttavia sì fattamente mi afflisse55 codesto gastigo, che per più di tre mesi
poi rimasi irreprensibile.56 Tra le ragioni ch’io sono andato cercando in appresso
entro di me medesimo, per ben conoscere il fonte57 di un simile effetto, due principalmente
ne trovai, che mi diedero intiera soluzione del dubbio. L’una si era,
145 che io mi credeva gli occhi di tutti doversi necessariamente affissare su quella mia
reticella, e ch’io dovea essere molto sconcio e diforme58 in codesto assetto, e che
tutti mi terrebbero per un vero malfattore59 vedendomi punito così orribilmente.
L’altra ragione si era, ch’io temeva di esser visto così dagli amati novizj; e questo
mi passava veramente il cuore.60 Or mira, o lettore, in me omiccino il ritratto e tuo
150 e di quanti anche uomoni sono stati o saranno; che tutti siam pur sempre, a ben
prendere,61 bambini perpetui.
Ma l’effetto straordinario in me cagionato da quel gastigo, avea riempito di
gioja i miei parenti e il maestro; onde ad ogni ombra di mancamento, minacciatami
la reticella abborrita, io rientrava immediatamente nel dovere,62 tremando.
155 Pure, essendo poi ricaduto al fine in un qualche fallo insolito, per iscusa del quale
mi occorse di articolare una solennissima bugia alla Signora Madre, mi fu di bel
nuovo sentenziata la reticella;63 e di più, che in vece della deserta chiesa del Carmine,
verrei64 condotto così a quella di S. Martino, distante da casa, posta nel bel
centro della città, e frequentatissima su l’ora del mezzo giorno da tutti gli oziosi
160 del bel mondo. Oimè, qual dolore fu il mio! pregai, piansi, mi disperai;65 tutto
invano. Quella notte, ch’io mi credei dover essere l’ultima della mia vita, non
che chiudessi mai occhio, non mi ricordo mai poi di averne in nessun altro mio
dolore passata una peggio. Venne alfin l’ora; inreticellato,66 piangente, ed urlante
mi avviai stiracchiato67 dal maestro pel braccio, e spinto innanzi dal servitore per
165 di dietro; e in tal modo traversai due o tre strade, dove non era gente nessuna;
ma tosto che si entrò nelle vie abitate, che si avvicinavano alla piazza e chiesa di
S. Martino, io immediatamente cessai dal piangere e dal gridare, cessai dal farmi
strascinare; e camminando anzi tacito, e di buon passo, e ben rasente al prete
Ivaldi, sperai di passare inosservato nascondendomi quasi sotto il gomito del talare68
170 maestro, al di cui fianco appena la mia staturina giungeva. Arrivai nella
piena chiesa, guidato per mano come orbo ch’io era; che in fatti chiusi gli occhi
all’ingresso, non gli apersi più finché non fui inginocchiato al mio luogo di udir
la messa; né, aprendoli poi, li alzai mai a segno di potervi distinguere nessuno.
E rifattomi orbo all’uscire, tornai a casa con la morte in cuore, credendomi disonorato
175 per sempre. Non volli in quel giorno mangiare, né parlare, né studiare, né
piangere. E fu tale in somma e tanto il dolore, e la tensione d’animo, che mi
ammalai per più giorni; né mai più si nominò pure in casa il supplizio della reticella,
tanto era lo spavento che cagionò alla amorosissima madre la disperazione ch’io
ne mostrai. Ed io parimenti per assai gran tempo non dissi piú bugia nessuna; e
180 chi sa s’io non devo poi a quella benedetta reticella l’essere riuscito in appresso un
degli uomini i meno bugiardi ch’io conoscessi.
Altra storietta. Era venuta in Asti la mia nonna materna, matrona di assai gran
peso in Torino, vedova di uno dei barbassori69 di corte, e corredata di tutta quella
pompa di cose, che nei ragazzi lasciano grand’impressione. Questa, dopo essere
185 stata alcuni giorni con la mia madre, per quanto mi fosse andata accarezzando
moltissimo in quel frattempo, io non m’era per niente addimesticato70 con lei,
come selvatichetto ch’io m’era; onde, stando essa poi per andarsene, mi disse ch’io
le doveva chiedere una qualche cosa, quella che più mi potrebbe soddisfare, e
che me la darebbe di certo. Io, a bella prima per vergogna e timidezza ed irresoluzione,
190 ed in seguito poi per ostinazione e ritrosia, incoccio71 sempre a rispondere
la stessa e sola parola: Niente; e per quanto poi ci si provassero tutti in venti
diverse maniere a rivoltarmi per pure estrarre da me qualcosa altro che non fosse
quell’ineducatissimo Niente, non fu mai possibile; né altro ci guadagnarono nel
persistere gl’interrogatori, se non che da principio il Niente veniva fuori asciutto,
195 e rotondo; poi verso il mezzo veniva fuori con voce dispettosa e tremante ad un
tempo; ed in ultimo, fra molte lagrime, interrotto da profondi singhiozzi. Mi cacciarono
dunque, come io ben meritava, dalla loro presenza, e chiusomi in camera,
mi lasciarono godermi il mio così desiderato Niente, e la nonna partì. Ma quell’istesso
io, che con tanta pertinacia aveva ▶ ricusato ogni dono legittimo della nonna,
200 più giorni addietro le avea pure involato72 in un suo forziere aperto un ventaglio,
che poi celato nel mio letto, mi fu ritrovato dopo alcun tempo; ed io allora dissi,
com’era vero, di averlo preso per darlo poi alla mia sorella. Gran punizione mi
toccò giustamente per codesto furto; ma, benché il ladro sia alquanto peggior del
bugiardo, pure non mi venne più né minacciato né dato il supplizio della reticella;
205 tanta era più la paura che aveva la mia madre di farmi ammalare di dolore, che
non di vedermi riuscire un po’ ladro; difetto, per il vero, da non temersi poi molto,
e non difficile a sradicarsi da qualunque ente73 non ha bisogno di esercitarlo. Il
rispetto delle altrui proprietà, nasce, e prospera prestissimo negl’individui che ne
posseggono alcune legittime loro.
210 E qui, a guisa di storietta, inserirò pure la mia prima Confessione spirituale,
fatta tra i sette ed otto anni. Il maestro mi vi andò preparando, suggerendomi egli
stesso i diversi peccati ch’io poteva aver commessi, dei più de’ quali io ignorava
persino i nomi. Fatto questo preventivo esame in comune col don Ivaldi, si fissò
il giorno in cui porterei il mio fastelletto74 ai piedi del Padre Angelo, carmelitano,
215 il quale era anche il confessore di mia madre. Andai: né so quel che me gli dicessi,
tanta era la mia natural ripugnanza e il dolore di dover rivelare i miei segreti
fatti e pensieri ad una persona ch’io appena conosceva. Credo, che il frate facesse
egli stesso la mia confessione per me; fatto si è che assolutomi75 m’ingiungeva di
prosternarmi76 alla madre prima di entrare in tavola, e di domandarle in tal atto
220 pubblicamente perdono di tutte le mie mancanze passate. Questa penitenza mi
riusciva assai dura da ingojare; non già, perché io avessi ribrezzo nessuno di domandar
perdono alla madre; ma quella prosternazione in terra, e la presenza di
chiunque vi potrebbe essere, mi davano un supplizio insoffribile. Tornato dunque
a casa, salito a ora di pranzo, portato in tavola, e andati tutti in sala, mi parve
225 di vedere che gli occhi di tutti si fissassero sopra di me; onde io chinando i miei
me ne stavo dubbioso e confuso ed immobile, senza accostarmi alla tavola, dove
ognuno andava pigliando il suo luogo;77 ma non mi figurava78 per tutto ciò, che
alcuno sapesse i segreti penitenziali della mia confessione. Fattomi poi un poco
di coraggio, m’inoltro per sedermi a tavola; ed ecco la madre con occhio arcigno
230 guardandomi, mi domanda se io mi ci posso veramente sedere; se io ho fatto
quel ch’era mio dovere di fare; e se in somma io non ho nulla da rimproverare a
me stesso. Ciascuno di questi quesiti mi era una pugnalata nel cuore; rispondeva
certamente per me l’addolorato mio viso; ma il labbro non poteva proferir parola;
né ci fu mezzo mai, che io volessi non che eseguire, ma né articolare né accennar
235 pure la ingiuntami penitenza.79 E parimente la madre non la voleva accennare, per
non tradire il traditor confessore. Onde la cosa finì, che ella perdé per quel giorno
la prosternazione da farglisi, ed io ci perdei il pranzo, e fors’anco l’assoluzione datami
a sì duro patto dal Padre Angelo. Non ebbi con tutto ciò per allora la sagacità
di penetrare80 che il Padre Angelo aveva concertato81 con mia madre la penitenza
240 da ingiungermi. Ma il core servendomi in ciò meglio assai dell’ingegno, contrassi
d’allora in poi un odietto bastantemente profondo pel suddetto frate, e non molta
propensione in appresso per quel sagramento ancorché nelle seguenti confessioni
non mi si ingiungesse poi mai più nessuna pena pubblica.
DENTRO IL TESTO
I contenuti tematici
Già da questi primi passi – in cui Alfieri, alla ricerca dei ricordi della sua infanzia, rievoca piccoli aneddoti e l’eco di alcune atmosfere e sensazioni – le intenzioni dello scrittore risultano chiarissime: interpretare sé stesso con sguardo distaccato e ironico; ripercorrere il filo del tempo a caccia dei segnali che preannunciano la sua futura indole di uomo adulto; rendere la propria biografia specchio dell’animo umano in genere, così che il lettore possa dedurre dall’analisi dei suoi ricordi le dinamiche generali che governano i caratteri più diversi.
Alfieri torna al tempo della sua stupida vegetazione infantile (rr. 2-3) e rammenta una preziosa gamma di sensazioni primitive (r. 11) che riaffiorano inaspettatamente alla memoria mediante la vista di un particolare apparentemente insignificante: un paio di scarpe simili a quelle che calzava suo zio. L’osservazione di Alfieri è estremamente moderna, poiché coglie come la memoria umana conservi non solo ricordi di fatti e persone, ma anche sensazioni particolari capaci di rievocare precise atmosfere (si troverà qualcosa di analogo nel ciclo romanzesco Alla ricerca del tempo perduto dello scrittore francese novecentesco Marcel Proust, il cui protagonista-narratore ritrova alcuni fondamentali ricordi e atmosfere dell’infanzia assaggiando casualmente una madeleine, un dolce che, proprio come le scarpe quadrate di cui parla Alfieri, gli riporta alla mente un passato che credeva dimenticato per sempre).
A partire dal recupero di questa sensazione di familiare dolcezza trae origine una pagina di cristallina intimità, che, in accordo con le teorie sensistiche, rivela l’affinità dei pensieri colle sensazioni (rr. 15-16), dimostrando che la razionalità ha origine dalle impressioni raccolte dai sensi. Il contenuto di questo ricordo, infatti, non è costituito da parole o fatti, ma da sensazioni del gusto (il dolce dei confetti) e del tatto (le carezze dello zio al bambino).
Le scelte stilistiche
La lettura della Vita di Alfieri è gradevole anche per il lettore di oggi in virtù della sua sintassi regolare, caratterizzata da periodi di ragionevole estensione e da una costruzione delle frasi per lo più lineare, ben lontana dall’ampollosità retorica di molta letteratura settecentesca. Alfieri preferisce in genere il procedimento paratattico, che rende la prosa piana e scorrevole; inoltre, la scelta di dividere il testo in capitoli dalle dimensioni contenute gli permette di dare rilievo ai momenti che ritiene più significativi per costruire, attraverso la rievocazione del passato, l’immagine complessa del proprio temperamento.
Il lessico è lontano da quello aulico delle tragedie: l’autore opta qui per scelte più colloquiali, che instaurano con il lettore un immediato clima di intimità, particolarmente adatto alla confessione e al racconto di sé. Alla creazione di questa atmosfera contribuisce l’uso frequente dei nomi alterati (vezzeggiativi e diminutivi in primis). Il tono più volte autoironico, e generalmente bonario, sottolinea invece i comportamenti eccessivi e le reazioni esagerate del protagonista.
VERSO LE COMPETENZE
Comprendere
1 Suddividi il testo in sequenze e assegna a ognuna un titolo.
2 Quali sono i primi ricordi d'infanzia che ha Alfieri?
3 Come e perché Vittorio bambino corregge i dizionari?
4 Chi è Padre Angelo?
Analizzare
5 Sottolinea gli aggettivi che lo scrittore attribuisce al proprio carattere, dividendoli tra quelli che si riferiscono a pregi e quelli che rimandano a difetti.
6 Rintraccia i passi in cui Alfieri motiva la scelta di raccontare gli aneddoti della propria vita.
7 Nel testo sono presenti molti diminutivi e vezzeggiativi: rintracciali e spiega quale funzione hanno di volta in volta.
Interpretare
8 Commenta l’episodio della reticella: perché essa suscita una tale repulsione nel bambino? Quali sentimenti e paure provoca in lui?
9 Spiega quali tratti del carattere del protagonista rivelano gli episodi del tentato suicidio attraverso l’ingestione di erbe e del rifiuto di chiedere una cosa gradita alla nonna materna.
scrivere per...
esporre
10 Descrivi, in un testo di circa 15 righe, il carattere di Alfieri per come emerge complessivamente da questi ricordi d'infanzia.
Dibattito in classe
11 In queste pagine, l’autore delinea le caratteristiche comportamentali che, a suo parere, lo distinguevano fin da bambino. Sei anche tu del parere che l’indole emersa nei primi anni di vita sia quella che resterà comunque prevalente anche nell’età adulta o credi che siano soprattutto le esperienze successive a plasmare il carattere di una persona? perché? Discutine con la classe.
Il magnifico viaggio - volume 3
Il Seicento e il Settecento