Vittorio Alfieri

I GRANDI TEMI

1 La visione tragica

Vittorio Alfieri è uno scrittore legato al proprio tempo, ma anche capace di importanti anticipazioni di temi e motivi che, alcuni decenni più tardi, saranno sviluppati nell’ambito della temperie romantica. Oggi troviamo forse le ragioni di maggiore interesse in un’opera come la Vita, un’autobiografia capace di momenti di profonda introspezione e di intuizioni quasi “psicanalitiche” ante litteram. Tuttavia a lungo Alfieri è stato letto soprattutto come autore di tragedie e dall’impegno in questo genere è scaturita la sua fama.

Scoperta la propria vocazione letteraria nel 1775, lo scrittore si raccoglie in sé stesso, allontanandosi dalla vita mondana e interrompendo la stagione dei viaggi. Si accorge di avere un’affinità di temperamento con gli eroi tragici e sente una naturale predisposizione a teatralizzarne umori e stati d’animo. Il genere della tragedia corrisponde inoltre a un’idea elitaria di arte che il nobile astigiano ha sempre coltivato: la commedia e il romanzo sono da lui giudicati generi buoni a intrattenere le masse, inferiori perciò alla letteratura aristocratica.

Il teatro italiano, al tempo di Alfieri, era appunto dominato dalla commedia borghese di Carlo Goldoni, mentre all’estero le linee guida della drammaturgia erano state tracciate dagli autori francesi. Alfieri segue la lezione di Jean Racine (1639-1699), il più illustre drammaturgo del Seicento, ma rielabora il genere tragico in chiave personale, eliminando dai testi i personaggi secondari, gli effetti a sorpresa e le trame complesse.

Questa semplificazione gli permette di indagare i caratteri dei protagonisti con grande penetrazione psicologica, e di elaborare trame lineari in cui si assiste all’esasperazione progressiva di un dissidio che si presenta in maniera esplicita sin dal primo atto. L’interesse del poeta è quello di “spettacolarizzare” i conflitti interiori, fino a spingere i personaggi verso un destino ineluttabile, in cui la morte è vista come salvezza e liberazione da una crisi di coscienza insanabile.

Le tragedie di Alfieri tendono a ridurre le situazioni storiche e sociali a una lotta tra forze inconciliabili, in cui si scontrano frontalmente libertà e tirannide, bene e male, rettitudine e corruzione morale, coraggio eroico e meschinità. I protagonisti manifestano subito una sensibilità aliena da ogni compromesso e una volontà intransigente che né le forze naturali né quelle divine riescono ad arginare. La ricerca di libertà si configura allora non soltanto come lotta contro un tiranno particolare, ma come volontà di ribellione contro la natura e i limiti umani in generale.

Se consideriamo a mo’ di esempio le due tragedie alfieriane più riuscite, Saul e Mirra, possiamo constatare come la loro peculiarità risieda nella capacità dell’autore di trasferire gli elementi oppositivi in un unico personaggio, anziché rappresentarli attraverso lo scontro di due figure che si fronteggiano come duellanti. In questo modo il conflitto si sposta nell’interiorità dei personaggi, nell’io lacerato di Saul e di Mirra, e l’azione cede il passo all’analisi di sentimenti e passioni: il desiderio di ribellione, il senso di colpa, la drammatica percezione dello scorrere inesorabile del tempo e della morte incombente.

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2 La tensione antitirannica

I personaggi delle tragedie e la vita stessa di Alfieri sono attraversati, come si è visto, da un perenne istinto di ribellione, che si rivolge ora contro figure concrete, ora contro forze oscure avvertite come un limite per l’autonomia dell’individuo. Il bisogno di libertà da qualsiasi vincolo e condizionamento si esprime nel rifiuto di ogni costrizione, morale e politica. Lo scrittore non mette in dubbio la legittimità del principio di autorità, ma è insofferente, per indole, ai confini che esso impone. Ai suoi occhi, in questo senso, tutte le forme di governo – siano esse monarchiche, oligarchiche o democratiche – minacciano di ingabbiare la personalità degli esseri umani e di inibirne desideri e impulsi.

Le tirannidi contro cui si scaglia la polemica alfieriana sono soprattutto le monarchie assolute del Settecento, alla cui condanna egli accomuna quella verso la letteratura servile prodotta dai letterati che gravitavano attorno alle corti. Tuttavia, in una prospettiva più ampia, che trascende il proprio tempo, Alfieri attribuisce il nome di tirannide a qualsiasi regime che imponga la propria forza con l’arbitrio, soffocando le virtù dei temperamenti individuali: tirannide è per Alfieri ogni sistema organizzato che annichilisce la libertà del singolo, generando paura e terrore.

La lotta del poeta contro questa forma di autoritarismo non può però definirsi davvero una battaglia politica. Il pensiero illuminista su cui egli si è formato non lo porta infatti a elaborare una coerente visione ideologica: come ha scritto Elio Gioanola, «nessuna opera è forse meno politica di quella dell’Alfieri, nel senso che ci si muove sempre tra idee assolute, contrapposizioni radicali, scelte eroiche, indipendentemente da qualsiasi riferimento alla realtà concreta e da qualsiasi articolazione teorica».

Il tiranno di cui parla Alfieri si delinea come una figura della fantasia poetica, come l’incarnazione di un potere sospettoso e crudele, corrotto e corruttore, non limitato da alcuna legge esterna alla sua volontà. In altri termini, l’autore non conduce un’analisi razionale o storica della tirannide, ma una descrizione cupa e terribile dell’oppressione, mettendo sotto accusa, con impeto libertario, la figura astratta del tiranno ed esaltando, al contrario, il coraggio della ribellione e lo spirito di libertà del singolo, senza alcuna proposta di azione collettiva.

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Per sconfiggere la tirannide, infatti, Alfieri non fa affidamento sul popolo, che considera un «turpissimo armento» (cioè una mandria spregevole), né sulle pratiche riformatrici elaborate nel secolo dei Lumi. Egli riserva invece la propria ammirazione a pochi individui eccezionali dotati di «forte sentire»: personalità che si elevano sul volgo e che, grazie al loro coraggioso antagonismo, scelgono l’ipotesi del tirannicidio o del suicidio piuttosto che tollerare di vivere in schiavitù.

La posizione ideologica alfieriana è quella di un aristocratico d’ancien régime, la cui idea di virtù è modellata su Plutarco e sui classici latini, cioè sul culto degli eroi e delle personalità straordinarie. Il disprezzo della tirannide e del volgo, in Alfieri, sono due facce di una stessa medaglia: l’idea del popolo come entità organizzata, portatrice di diritti e di una volontà legittima, è una parte della riflessione politica illuminista che gli rimane sostanzialmente estranea. Il suo individualismo esasperato e la sua  titanica opposizione al proprio tempo lo avvicinano semmai alla sensibilità romantica, che si affermerà di lì a qualche decennio (e che vedrà nel nobile astigiano un proprio precursore).

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In questa irriducibile lotta per mantenere l’integrità morale in un universo degradato e liberticida, lo scrittore stesso è un eroe tragico. Nel trattato Del principe e delle lettere il nemico del tiranno è lo scrittore eroe: l’artista libero nell’animo, sganciato da qualsiasi vincolo con il potere e dotato di «una sete insaziabile di bel fare e di gloria». Alfieri procede anche a una rigida distinzione degli scrittori, dividendoli tra servi del potere e ribelli al potere: nel primo gruppo si trova per esempio Virgilio (colpevole di essere sceso a patti con la politica ufficiale), nel secondo Dante e naturalmente lo stesso Alfieri.

Si afferma in tal modo un’immagine di scrittore sempre controcorrente, che rifiuta l’ideale illuministico del letterato riformatore e collaboratore del potere, e sceglie invece di diffondere un messaggio ideale e assoluto, che spesso gli provoca l’incomprensione dei contemporanei e lo condanna – ma nell’ottica di Alfieri è un privilegio – a un’ascetica e sdegnosa solitudine. Si tratta di una concezione ispirata allo stesso individualismo eroico e antisociale che ritroviamo nei personaggi delle sue tragedie.

3 Il rifiuto del proprio tempo

Dopo la conversione letteraria, la cifra esistenziale di Alfieri è la solitudine. L’isolamento in cui il poeta si chiude appare come una rivendicazione di unicità rispetto alla massa e al proprio tempo; la stessa scelta del genere tragico – di cui in Italia si deplorava a quel tempo la decadenza ma a cui nessuno aveva trovato il coraggio di accostarsi per recuperarne il prestigio – è una scelta programmatica di originalità e indipendenza, che rimarca l’eccezionalità dell’artista, incline a esprimersi con modalità personali e a cimentarsi in generi poco frequentati.

Questo sdegnoso isolamento deve però essere interpretato anche alla luce dei cambiamenti sociali in atto all’epoca. La ribellione di Alfieri nasce infatti, come si legge nell’incipit della Vita, dalla cappa soffocante rappresentata dalla provincia piemontese in cui egli è nato, circondato da un’aristocrazia incapace di rinnovarsi in un momento di profonde trasformazioni sociali, nell’ambito delle quali la borghesia va assumendo un ruolo sempre più preponderante sul piano economico e politico.

Dall’altra parte, Alfieri non riesce a farsi interprete delle spinte riformistiche che attraversano il secolo dei Lumi. Il suo rapporto con il pensiero illuministico emerge bene dai suoi trattati: esso rappresenta inizialmente una fonte di ispirazione, ma gli elementi razionali vengono presto superati da aspetti emotivi, esistenziali e psicologici che nulla hanno a che spartire con lo spirito empirico dei philosophes.

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Assetato di alte imprese e dotato di superba e indomita volontà, Alfieri supera il razionalismo settecentesco per dedicarsi invece a una letteratura soggettiva, che pone al centro sentimenti, movimenti dell’animo, aspirazioni, desideri e frustrazioni dell’individuo. Se la sua ideologia politica si rivela antiquata, indecisa com’è tra ribellismo utopistico e posizioni conservatrici, gli aspetti esistenziali e psicologici costituiscono un elemento di novità della sua opera, dando voce alle tendenze preromantiche che si stanno imponendo alla fine del Settecento, e di cui il poeta avverte per primo, in Italia, la forza. Si spiega così la predilezione, nelle tragedie e nelle Rime, per l’individualismo e gli slanci titanici, che esaltano i gesti eclatanti dei protagonisti o dell’io poetico.

Questo nuovo spazio assegnato al mondo interiore dei personaggi ha reso Alfieri un vero e proprio precursore della sensibilità romantica. Non è un caso che proprio dai Romantici egli sarà amato, se non addirittura idolatrato, in un processo di mitizzazione che contribuirà a cristallizzare l’immagine del poeta come eroe ribelle.

L’originalità di Alfieri non si riduce comunque all’anticipazione di alcune importanti istanze romantiche. Nelle tragedie, ma anche nei trattati e nelle Rime, sono molti i momenti in cui la brama di libertà diventa desiderio di affermazione di sé, frustrato però da leggi e vincoli che non consentono la realizzazione individuale. Sotto questo aspetto, la letteratura alfieriana intende riflettere una profonda impotenza e incapacità di vivere: in essa si trovano espresse, sia pur trasfigurate da un ego debordante, le problematiche psicologiche che legano l’essere umano alle proprie incertezze, facendolo sprofondare nella malinconia e in un destabilizzante senso di vuoto e di solitudine.

Il magnifico viaggio - volume 3
Il magnifico viaggio - volume 3
Il Seicento e il Settecento