Vittorio Alfieri

LA VITA

Una giovinezza inquieta

Vittorio Alfieri nasce ad Asti il 16 gennaio 1749 in una famiglia dell'  alta aristocrazia piemontese. Dopo la morte del padre, avvenuta nello stesso anno della sua nascita, la madre, Monica Maillard de Tournon, una nobile savoiarda severa e autoritaria, già vedova due volte, contrae un terzo matrimonio. Il giovane Alfieri è affidato alle cure del “prete di casa” (ogni famiglia nobile aveva allora un ecclesiastico al proprio servizio), tanto bonario quanto ignorante, che lo lascia – come ricorderà lo scrittore nella sua autobiografia – «asino tra gli asini e sotto un asino», contribuendo a creare in lui quell’immagine dell’infanzia come epoca di «stupida vegetazione».

Vivace, sensibile e cagionevole di salute, il bambino cresce alternando giochi spericolati a crisi di solitudine depressiva e alimentando un umore malinconico che lo accompagnerà per tutta la vita. Le cose non migliorano nemmeno quando lo zio, nel 1758, lo fa entrare nell’Accademia Reale di Torino, la scuola in cui i Savoia formano i propri quadri diplomatici e militari, e da cui Alfieri esce con la qualifica di portainsegna del reggimento; la disciplina militare, infatti, accresce il suo spirito di ribellione a gerarchie, ordini e imposizioni. Così, quando il re lo dispensa finalmente dal servizio, inizia una lunga serie di viaggi, approfittando delle notevoli risorse finanziarie di cui la sua famiglia dispone.

Alfieri viaggia ininterrottamente per sei anni, dal 1767 al 1772: prima in Italia, sostando a Milano, Firenze, Roma, Napoli e Venezia; poi in Francia, Inghilterra, Olanda, Austria, Germania, Danimarca, Svezia, Spagna, Portogallo e Russia. Non si tratta di viaggi appaganti, come quelli che soddisfano la curiosità di tanti intellettuali illuministi, ma piuttosto di fughe dettate dall’incapacità di rimanere fermo e da un inestirpabile senso di scontentezza di sé e degli altri.

Sono anche anni di passioni travolgenti e di amori conflittuali (in Inghilterra, per esempio, deve affrontare in duello il marito di una sua amante, Penelope Pitt), che lo spingono a fuggire di nazione in nazione.

Alfieri disprezza Parigi, la Prussia di Federico II (che gli appare come una «universal caserma»), la Pietroburgo della zarina Caterina II; a Vienna si rifiuta di incontrare Pietro Metastasio, il poeta più celebre del tempo (e di cui pure apprezza l’opera), colpevole ai suoi occhi di aver fatto la «genuflessioncella», cioè di essersi inginocchiato ai piedi dell’imperatrice. Non gli piacciono le città né, tanto meno, l’alta società, con le sue relazioni mondane e i suoi vuoti galatei.

Il suo animo in perenne subbuglio si placa soltanto davanti ai paesaggi incontaminati, alle lande deserte e selvagge che si aprono a dismisura nei paesi nordici. In questa natura libera e indomabile Alfieri vede lo specchio del suo io, anticipando quel gusto per gli spettacoli sublimi che sarà proprio dei Romantici, di cui egli è per molti versi un precursore.

IL CARATTERE

Un’incessante inquietudine

Forse nessun’altra figura della letteratura italiana ha saputo imporre con la stessa forza di Vittorio Alfieri il proprio carattere ai lettori. Nelle sue opere, egli ci fa conoscere minuziosamente la sua indole indomita e irruenta, il suo animo perennemente in preda a sbalzi d’umore che lo spingono a desiderare atti eroici o a precipitare nel vittimismo. Di questo complesso temperamento egli fa uno dei principali oggetti della sua arte, rappresentando fatti ed eventi emblematici al fine di drammatizzare, e nello stesso tempo celebrare, la propria tempra eccezionale, insofferente di qualsiasi limite.

In fuga da sé stesso

Se da una parte questa inquietudine esistenziale, che lo anima fin dall’infanzia, è fonte di travaglio interiore, dall’altra essa si rivela come la linfa che porta Alfieri a scoprirsi poeta e a diventare il più importante autore di tragedie della nostra letteratura. È proprio l’insofferenza verso l’ambiente provinciale del regno sabaudo a spingerlo a viaggiare, spostandosi in condizioni difficili e inoltrandosi nei paesaggi più estremi e deserti per placare un continuo bisogno di fuga.

Un amante insoddisfatto

Una prorompente passione per le donne lo porta in diverse occasioni a fuggirle o a inseguirle, anche mettendo a repentaglio la propria vita. Nella sua autobiografia, per esempio, racconta di come una sua amata di nome Gabriella l’avesse costretto a separarsi da lei nella speranza che la lontananza smorzasse l’ardore dei suoi sentimenti. Tornato a casa, solo con un atto estremo di volontà il poeta riuscirà a non ricadere nella situazione iniziale: Alfieri racconta di essersi raso il capo – fatto che rendeva un nobile del tempo impresentabile in pubblico – e di essersi immerso completamente negli studi per dimenticare la donna. Molto travagliata è anche la relazione con la contessa Luisa Stolberg d’Albany, moglie del nobile inglese Carlo Edoardo Stuart, pretendente al trono d’Inghilterra: Alfieri la inseguirà più volte, tentando persino di organizzare una fuga a Roma al fine di sottrarla all’anziano marito.

La scrittura come salvezza

Né le vicende sentimentali, né i viaggi, né il lusso, né gli svaghi – come il grandissimo amore per i cavalli – riescono ad appagare l’animo del poeta, spesso affogato in un tedio insopportabile e in una mediocrità che contrasta dolorosamente con il suo desiderio di gloria e di ribellione. È proprio questo continuo tentativo di trovare scampo alla mediocrità a spingerlo verso la letteratura e a portarlo a dar vita a eroi tormentati, attraversati da tensioni morali e da un assoluto desiderio di libertà al quale si contrappongono gli ostacoli della vita sociale e le forze più irrazionali dell’animo umano.

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L’amore per la libertà e per la letteratura

Quando Alfieri torna a Torino, nel 1772, la prospettiva di condurre una vita del tutto simile a quella del «giovin signore» descritto da Parini nel Giorno lo disgusta tremendamente; l’insofferenza per il potere e l’autorità lo porta inoltre a rifiutare incarichi politici e amministrativi, spingendolo sempre più a rifugiarsi in sé stesso. Il suo disprezzo per il denaro e per la ricchezza – in contrasto con la vita lussuosa che conduce – lo avvicina finalmente alla letteratura, a cui egli si aggrappa anche per scacciare i propri fantasmi interiori: il 1775 è l’anno della sua “conversione letteraria”.

La sua prima opera, scritta in francese, si intitola Esquisse du jugement universel (Abbozzo del giudizio universale) ed è un testo satirico che prende di mira i nobili e l’alta società torinese, confermando quanto Alfieri scriverà in apertura della propria autobiografia: «Il nascere della classe dei nobili, mi giovò appunto moltissimo per poter poi, senza la taccia [accusa] di invidioso e di vile, dispregiare la nobiltà di per sé sola, svelarne le ridicolezze, gli abusi ed i vizi».

La prima tragedia, che risale al 1775, si intitola Antonio e Cleopatra ed è ispirata dalla lettura della Cleopatra del drammaturgo veneziano Giovanni Dolfin (1617-1699) e, soprattutto, dell’opera forse in assoluto a lui più cara, le Vite parallele dello storico greco Plutarco (46/50 - dopo il 120 d.C.), che aveva dedicato uno dei suoi ritratti ad Antonio. Alfieri, che porta a termine l’opera dopo una laboriosa stesura, non è affatto soddisfatto del risultato finale (a essa si riferirà in seguito con il nome di Cleopatraccia), ma comprende che la forma letteraria della tragedia gli offre la possibilità di esprimere la potenza del suo sentire, dando voce sia alla volontà di ribellione politica sia all’irruenza delle passioni.

Il successo che la tragedia ottiene nella messa in scena del 16 giugno 1775 al teatro Carignano di Torino incoraggia il poeta a dedicarsi totalmente a questo genere letterario, infondendogli «in ogni vena un sì fatto bollore [ardore] e furore di conseguire un giorno meritatamente una vera palma [gloria] teatrale, che non mai febbre alcuna di amore mi avea con tanta impetuosità assalito». Nella celebre frase «  Volli, e volli sempre, e fortissimamente volli» (contenuta in una lettera al drammaturgo Ranieri de’ Calzabigi, del 6 settembre 1783) il poeta esprimerà il fermo impegno assunto con sé stesso, dopo l’applaudita rappresentazione di quella sua prima tragedia, di compiere ogni sforzo per diventare un autentico autore tragico.

La produzione principale di Alfieri è racchiusa in poco più di un decennio (1777-1789). Oltre alle 19 tragedie vanno ricordati due importanti trattati politici, Della tirannide (1777) e Del principe e delle lettere (1778-1786), cui si aggiunge un cospicuo numero di poesie raccolte sotto il titolo di Rime.

In questi anni Alfieri stravolge le sue vecchie abitudini di nobile mondano per dedicarsi esclusivamente alla scrittura, che acquista ai suoi occhi una funzione catartica (ossia di purificazione dalle passioni) e insieme politica, esortando i lettori al valore e alla pratica della libertà.

Folgorato dalla scoperta della tragedia, egli riprende gli studi con tenacia e ostinazione, passando in rassegna i classici della letteratura italiana e latina; parte inoltre per la Toscana, con l’intento di “spiemontizzare” sia la sua lingua sia la sua forma mentis, condizionata dal chiuso provincialismo del regno sabaudo.

Il poeta soggiorna a Siena e poi, per tre anni, a Firenze, dove incontra la donna della sua vita, la contessa  Luisa Stolberg d’Albany, moglie di un anziano nobile inglese cui Alfieri cerca con ogni mezzo di sottrarla, andando incontro anche ad avventure rocambolesche.

Nel 1778, per lasciarsi definitivamente alle spalle quel Piemonte periferico che percepisce come una gabbia, cede l’intero patrimonio alla sorella, da sempre molto amata, tenendo per sé soltanto una pensione che gli consenta di vivere senza preoccupazioni e di dedicarsi a tempo pieno alle lettere. Sempre all’inseguimento dell’amata contessa d’Albany, lo ritroviamo negli anni successivi in diverse località italiane e poi in Alsazia, dove rimane con lei fino al 1787.

A partire dallo stesso 1787 è con lei a Parigi per curare l’edizione delle sue tragedie. Nel 1789, quando scoppia la Rivoluzione, è ancora in Francia. Saluta positivamente gli eventi rivoluzionari, ma si tratta di un entusiasmo breve, poiché lo scrittore coglie presto, negli atti del nuovo governo, una tirannia che giudica volgare e plebea e che lo porta a rinnegare l’appoggio iniziale, collocandosi su posizioni conservatrici.

Nel 1792, minacciato in quanto nobile, fugge da Parigi per tornare a Firenze, dove resta fino alla morte, che lo coglie nel 1803, in estrema solitudine, insidiato dall’ombra della follia e a contatto soltanto con gli amati classici.

Ugo Foscolo, il poeta che più di tutti promuoverà il suo mito, tenta invano, fino all’ultimo, di incontrarlo: «Il tragico italiano passò gli ultimi anni della sua vita tra un’arrogante irascibilità ed una profonda melanconia che talvolta cresceva a segno da non renderlo responsabile delle proprie azioni». Viene sepolto nella basilica di Santa Croce, a Firenze, dove la contessa d’Albany fa erigere in sua memoria un monumento funebre scolpito dal più celebrato artista del Neoclassicismo, Antonio Canova.

Il magnifico viaggio - volume 3
Il magnifico viaggio - volume 3
Il Seicento e il Settecento