Carlo Goldoni

LA VITA

Una giovinezza irrequieta

Carlo Goldoni nasce a Venezia nel 1707, primogenito di una famiglia borghese; il nonno paterno è un notaio originario di Modena, città nella quale conserva interessi e qualche proprietà, il padre è un medico che svolge la professione compiendo anche frequenti viaggi.

Il piccolo Carlo dà prove di un’intelligenza precoce: a quattro anni sa già leggere e scrivere; a otto compone l’abbozzo di una commedia, suscitando l’orgoglio di parenti e precettori.

Dopo la primissima formazione a Venezia, Goldoni conclude gli studi umanistici e di retorica presso i gesuiti, a Perugia. Poiché il padre lo vuole medico, dal 1720 viene mandato a Rimini a studiare filosofia«la logica, che apre la carriera a tutte le scienze fisiche e speculative», scrive Goldoni, in riferimento al fatto che a quel tempo la carriera medica iniziava proprio con lo studio della filosofia –, mentre il resto della famiglia si stabilisce a Chioggia. Dopo un anno, però, Carlo  fugge con una compagnia di commedianti e abbandona gli studi di medicina per iniziare quelli di giurisprudenza.

Dopo essere stato praticante presso lo zio Giampaolo Indric, procuratore a Venezia, ottiene un posto nel prestigioso collegio cattolico Ghislieri di Pavia. Qui conduce una vita libera e spregiudicata, e nel 1725 viene espulso dall’istituto per aver scritto una satira contro le ragazze di Pavia. Superata l’effimera intenzione di farsi frate cappuccino, fa pratica presso la cancelleria criminale di Chioggia e nel 1729 ottiene un impiego a Feltre come coadiutore del cancelliere criminale (un ufficiale dotato di poteri giudiziari).

La passione di una vita: il teatro

Alla morte del padre, nel 1731, Goldoni si laurea in Giurisprudenza a Padova e inizia a esercitare la professione di avvocato, prima a Venezia, poi a Milano, a Crema e in diverse altre città dell’Italia settentrionale.

Nel 1733 conosce il genovese Giuseppe Imer, direttore di una compagnia che si esibisce in uno spettacolo teatrale cui egli assiste all’Arena di Verona; Imer, apprezzando molto una sua tragicommedia scritta nei mesi precedenti, Belisario, gli commissiona degli intermezzi, brevi composizioni comiche accompagnate da musica e rappresentate tra un atto e l’altro di tragedie e melodrammi. Goldoni inizia così a scrivere opere di carattere vario per il teatro e si procura immediati consensi da parte del pubblico e degli addetti ai lavori.

Seguendo Imer in diverse località d’Italia, Goldoni comincia a essere noto negli ambienti teatrali. Dopo varie avventure galanti e alcune travagliate esperienze amorose giunge a Genova, dove conosce e sposa Nicoletta Connio, figlia di un notaio del collegio cittadino: «Sposai», scriverà nell’autobiografia, «una giovane donna, saggia, onesta e affascinante, che mi risarcì di tutti i brutti tiri che mi avevano giocato le donne e mi riconciliò col gentil sesso».

Senza rinunciare all’attività forense e ricoprendo, senza compensi, la carica di console di Genova presso la Repubblica veneziana, tra il 1737 e il 1741 Goldoni dirige il teatro San Giovanni Crisostomo, a Venezia. In questo periodo può dedicarsi alla scrittura, dando inizio, con Momolo cortesan (1738) e, più tardi, con La donna di garbo (1743), a una radicale riforma della commedia. Nel 1745, però, dovendo far fronte a ingenti debiti dovuti a una truffa subita dal fratello, è costretto a trasferirsi a Pisa per esercitare a tempo pieno l’avvocatura.

In Toscana, grazie alle relazioni intessute dopo l’ingresso nella sezione locale dell’Accademia dell’Arcadia, si procura una buona clientela: «Lavoravo giorno e notte, avevo più cause di quante ne potessi sostenere», ricorda. Nonostante il gravoso impegno professionale, comunque, egli coglie l’occasione offertagli da Antonio Sacchi, famoso attore del tempo e celebrato interprete di Arlecchino, che lo esorta a comporre una commedia tagliata su misura su di lui: scrivendo di notte, nel 1745 Goldoni porta a termine  Arlecchino servitore di due padroni, che riscuote grande successo al teatro San Samuele di Venezia.

Nel 1747, a Livorno, avviene un incontro decisivo per la sua carriera: il capocomico Girolamo Medebach gli propone di tornare a Venezia per lavorare con lui. Goldoni accetta: lascia definitivamente l’avvocatura e firma con l’impresario un contratto di durata quadriennale, in cui si impegna a fornire otto commedie all’anno da mettere in scena al teatro Sant’Angelo. Tra il 1748 e il 1749 vengono rappresentate, tra le altre, La vedova scaltra (1748), La putta onorata (1748), La famiglia dell’antiquario (1749).

Non mancano momenti di crisi, dovuti ad alcuni insuccessi e alla concorrenza di altri autori, primo fra tutti Pietro Chiari (1712-1785), che è al servizio di un altro teatro veneziano, il San Samuele. Goldoni riesce tuttavia a mantenere il suo pubblico, nella stagione 1750-1751, annunciando la composizione di ben sedici nuove commedie, alcune delle quali costituiranno i più importanti frutti della sua arte: Il teatro comico, La bottega del caffè, I pettegolezzi delle donne.

Intanto, però, malgrado la soddisfazione degli spettatori, si incrinano i rapporti con Medebach, che non solo esclude Goldoni dai guadagni di questa produzione supplementare, ma si oppone anche alla pubblicazione delle commedie da parte dell’autore, ritenendosene il proprietario e autorizzandone la prima edizione a stampa presso l’editore veneziano Giuseppe Bettinelli, nel 1750.

Scaduto l’impegno con Medebach, nel 1753 Goldoni stipula un contratto con il nobile Antonio Vendramin, proprietario del teatro San Luca, impegnandosi anche in questo caso a scrivere otto commedie all’anno, a condizioni più favorevoli quanto a libertà d’azione e compensi, ma meno soddisfacenti per la qualità della compagnia. Per attirarsi i favori del pubblico, l’autore compone anche alcune commedie di ambientazione esotica, che rispondono a una moda del momento.

Le gratificazioni ottenute in vari teatri d’Italia sono periodicamente turbate dalla depressione che perseguita Goldoni da quando è ragazzo: «Per natura ero allegro, ma, fin dall’infanzia, andavo soggetto a certi vapori ipocondriaci e malinconici che offuscavano il mio spirito». Aver riunito nella propria casa la madre, il fratello vedovo e i nipoti non allevia le sue sofferenze: «I miei vapori mi attaccarono più violentemente del solito. La nuova famiglia che ospitavo in casa mia mi rendeva indispensabile più che mai la salute, e la paura di perderla accresceva il mio male. I miei attacchi erano fisici oltre che psicologici; a volte un’eccessiva esaltazione mi scaldava la mente, a volte l’apprensione mi disturbava l’equilibrio fisico; lo spirito è così strettamente legato al corpo che, senza la ragione, la quale è propria dell’anima immortale, noi non saremmo altro che macchine».

La sua opera continua comunque a essere apprezzata. Nel 1756 è insignito dal duca di Parma del titolo di marchese di Felino e gli vengono commissionate tre commedie, grazie alle quali ottiene anche una pensione annua. Più tardi, a Roma, viene accolto con molti onori presso la curia pontificia ed è ricevuto in udienza da papa Clemente XIII.

Nel 1756, mentre si accende la contesa con Carlo Gozzi (1720-1806), un altro tenace avversario della sua riforma e artefice di favole teatrali fantasiose in cui sopravvivono alcune caratteristiche della commedia dell’arte, Goldoni mette in scena a Venezia Il campiello, commedia in versi di ambientazione veneziana, cui seguono altri capolavori, come I rusteghi (1760) e Le baruffe chiozzotte (1762).

IL CARATTERE

UN GENIO MALINCONICO

Ci si può fare un’idea della personalità di Goldoni attraverso un’at­tenta lettura dei Mémoires, dell’epistolario e delle prefazioni alle commedie (le Memorie italiane), cercando, nella natura soggettiva di tali fonti, gli indizi di una realtà spesso mascherata dall’autore.

Le inquietudini di un borghese insoddisfatto

Goldoni eredita dal nonno e dal padre una certa svagatezza, la prodigalità, la passione per il tea­tro e la propensione ai frequenti spostamenti, dettati non solo dalla necessità di seguire le rappresentazioni degli spettacoli, ma anche da un’inquietudine interiore, che genera l’esigenza di cambiare spesso ambiente.

Al tempo stesso, egli sa assumersi responsabilità e impegni, dimostrandosi competente e abile nell’esercitare l’avvocatura e negli incarichi ricoperti in vari ambiti. Non gli mancano il senso pratico e la caparbietà tipicamente borghesi, con cui affronta le sfide dei teatri rivali; e nemmeno l’autoironia: nei Mémoires, per esempio, racconta di aver suscitato imbarazzo per essersi dimenticato di baciare la «sacra pantofola» al papa nel congedarsi dopo l’udienza.

Il genio turbato dalle ansie

Le vicende alterne che segnano la sua esistenza sono affrontate dallo scrittore con un profondo coinvolgimento emotivo, alla ricerca di un difficile equilibrio psicologico. Egli soffre di periodiche crisi di ipocondria, e anche gli amori sono spesso fonte di ansie e tribolazioni. In questa situazione, la moglie rappresenta un punto di riferimento sicuro per un uomo inappagato e in cerca di una serenità che non raggiungerà mai definitivamente.

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Gli ultimi anni

La notorietà di Goldoni supera anche le Alpi. Il primo attore della  Comédie Italienne (il celebre teatro italiano operante sotto la protezione del re di Francia) lo invita a Parigi, dove è conosciuto e apprezzato, chiedendogli di rinnovare il repertorio della compagnia. Per l’autore si tratta di una scelta difficile, ma la necessità di assicurarsi un’adeguata collocazione professionale e una rendita su cui contare negli anni della vecchiaia – cose che a Venezia non gli vengono garantite – lo spinge a partire. Nel 1762 Goldoni si trasferisce a Parigi con la moglie e il figlio del fratello. Qui, però, si trova a dover fronteggiare l’ostilità degli attori, inclini all’improvvisazione e impreparati alla recitazione di testi d’autore, e del pubblico francese, abituato a identificare il teatro comico italiano con le maschere fisse e i canovacci della commedia dell’arte: «I miei cari compatrioti non facevano che rappresentare commedie ormai logore, commedie all’improvviso [improvvisate] di un genere pessimo, quel genere che io avevo riformato in Italia. Ci penserò io, mi dicevo, ci penserò io a dare caratteri, sentimento, progressione, condotta, stile». In effetti, dopo i primi insuccessi, Goldoni ottiene ampi riconoscimenti, sia pure con una produzione lontana dalla sua vena più autentica. In conseguenza del prestigio acquisito, nel 1765 viene chiamato a Versailles in qualità di insegnante di italiano delle figlie di re Luigi XV, incarico ricoperto fino al 1770, quando, ormai cieco da un occhio, ottiene una pensione che gli garantisce una certa tranquillità economica.

Nel 1792, durante la Rivoluzione francese, l’Assemblea legislativa sopprime tutti gli emolumenti di corte ed egli perde la pensione di quattromila lire annue concessagli nel 1769. Goldoni avanza una supplica e la pensione gli viene restituita, ma la comunicazione è recapitata soltanto il 7 febbraio 1793. Troppo tardi: lo scrittore era morto il giorno prima.

Il magnifico viaggio - volume 3
Il magnifico viaggio - volume 3
Il Seicento e il Settecento