T2 ANALISI ATTIVA - Contro la pena capitale

T2

Contro la pena capitale

Dei delitti e delle pene, par. 28

Il paragrafo, di cui riportiamo le prime pagine, è giustamente celebre: a partire dalla sua concezione delle pene – da intendersi non come vendetta della società sul colpevole, ma come disincentivo ai delitti, in virtù del loro effetto dissuasivo – Beccaria condanna senza appello l’istituto della pena di morte.

28. Della pena di morte

Questa inutile prodigalità di supplicii,1 che non ha mai resi migliori gli uomini, 

mi ha spinto ad esaminare se la morte2 sia veramente utile e giusta in un governo 

bene organizzato. Qual può essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di 

5      trucidare i loro simili? Non certamente quello da cui risulta la sovranità e le leggi. 

Esse non sono che una somma di minime porzioni della privata libertà di 

ciascuno;3 esse rappresentano la volontà generale, che è l’aggregato delle particolari. 

Chi è mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l’arbitrio di ucciderlo? 

Come mai nel minimo sacrificio della libertà di ciascuno vi può essere quello del 

10    massimo tra tutti i beni, la vita? E se ciò fu fatto, come si accorda un tal principio 

coll’altro, che l’uomo non è padrone di uccidersi, e doveva esserlo se ha potuto 

dare altrui questo diritto o alla società intera?

Non è dunque la pena di morte un diritto, mentre4 ho dimostrato che tale5 

essere non può, ma è una guerra della nazione con un cittadino, perché giudica 

15    necessaria o utile la distruzione del suo essere. Ma se dimostrerò non essere la 

morte né utile né necessaria, avrò vinto la causa dell’umanità.

La morte di un cittadino non può credersi necessaria che per due motivi. Il 

primo, quando anche privo di libertà egli abbia ancora tali relazioni e tal potenza 

che interessi la sicurezza della nazione; quando la sua esistenza possa produrre 

20    una rivoluzione pericolosa nella forma di governo stabilita. La morte di qualche 

cittadino divien dunque necessaria quando la nazione ricupera o perde la sua 

libertà, o nel tempo dell’anarchia, quando i disordini stessi tengon luogo di leggi; 

ma durante il tranquillo regno delle leggi, in una forma di governo per la quale i 

voti della nazione siano riuniti,6 ben munita7 al di fuori e al di dentro dalla forza8 

25     dalla opinione,9 forse più efficace della forza medesima, dove il comando10 non 

è che presso il vero sovrano,11 dove le ricchezze comprano piaceri e non autorità,12 

io non veggo necessità alcuna di distruggere un cittadino, se non quando la di lui 

morte fosse il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti, 

secondo motivo per cui può credersi giusta e necessaria la pena di morte.

30    Quando la sperienza di tutt’i secoli,13 nei quali l’ultimo supplicio14 non ha 

mai distolti gli uomini determinati dall’offendere la società, quando l’esempio 

dei cittadini romani,15 e vent’anni di regno dell’imperatrice Elisabetta di 

Moscovia,16 nei quali diede ai padri dei popoli quest’illustre esempio, che equivale 

almeno a molte conquiste comprate col sangue dei figli della patria,17 non 

35    persuadessero gli uomini, a cui il linguaggio della ragione è sempre sospetto ed 

efficace quello dell’autorità, basta consultare la natura dell’uomo per sentire la 

verità della mia assersione.18

Non è l’intensione19 della pena che fa il maggior effetto sull’animo umano, ma 

l’estensione20 di essa; perché la nostra sensibilità è più facilmente e stabilmente 

40    mossa da minime ma replicate21 impressioni che da un forte ma passeggiero 

movimento. L’impero dell’abitudine è universale sopra ogni essere che sente,22 e come 

l’uomo parla e cammina e procacciasi i suoi bisogni23 col di lei aiuto, così l’idee 

morali non si stampano nella mente che per durevoli ed iterate percosse.24 Non 

è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e 

45    stentato25 esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio,26 

ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte 

 i delitti. Quell’efficace, perché spessissimo ripetuto ritorno27 sopra di noi 

medesimi, io stesso sarò ridotto a così lunga e misera condizione se commetterò simili 

mi­sfatti, è assai più possente che non l’idea della morte, che gli uomini veggon28 

50    sempre in una oscura29 lontananza.

La pena di morte fa un’impressione che colla sua forza non supplisce alla 

pronta dimenticanza, naturale all’uomo anche nelle cose più essenziali, ed 

accelerata dalle passioni. Regola generale: le impressioni violenti30 sorprendono gli 

uomini, ma non per lungo tempo, e però31 sono atte a fare quelle rivoluzioni che 

55    di uomini comuni ne fanno o dei Persiani o dei Lacedemoni;32 ma in un libero e 

tranquillo governo le impressioni debbono essere più frequenti che forti.

La pena di morte diviene uno spettacolo per la maggior parte e un oggetto di 

 compassione mista di sdegno per alcuni; ambidue questi sentimenti occupano 

più l’animo degli spettatori che non il salutare terrore che la legge pretende inspirare.33 

60    Ma nelle pene moderate e continue il sentimento dominante è l’ultimo34 

perché è il solo. Il limite che fissar dovrebbe il legislatore al rigore delle pene sembra 

consistere nel sentimento di compassione,35 quando comincia a prevalere su 

di ogni altro nell’animo degli spettatori d’un supplicio più fatto per essi che per 

il reo.36

65    Perché una pena sia giusta non deve avere che quei soli gradi d’intensione che 

bastano a rimuovere gli uomini dai delitti;37 ora non vi è alcuno che, riflettendovi, 

scieglier possa la totale e perpetua perdita della propria libertà per quanto 

avvantaggioso possa essere un delitto: dunque l’intensione della pena di schiavitù 

perpetua38 sostituita alla pena di morte ha ciò che basta per rimuovere qualunque 

70    animo determinato;39 aggiungo che ha di più:40 moltissimi risguardano la morte41 

con viso tranquillo e fermo, chi per fanatismo, chi per vanità, che quasi sempre 

accompagna l’uomo al di là dalla tomba, chi per un ultimo e disperato tentativo 

o di non vivere o di sortir di miseria;42 ma né il fanatismo né la vanità stanno43 

fra i ceppi o le catene, sotto il bastone, sotto il giogo, in una gabbia di ferro, e il 

75    disperato non finisce i suoi mali, ma gli44 comincia. L’animo nostro resiste più 

alla violenza ed agli estremi ma passeggieri dolori che al tempo ed all’incessante 

noia;45 perché egli può per dir così condensar tutto se stesso per un momento per 

respinger i primi,46 ma la vigorosa di lui elasticità non basta a resistere alla lunga e 

ripetuta azione dei secondi.47 Colla pena di morte ogni esempio che si dà alla 

80    nazione suppone48 un delitto; nella pena di schiavitù perpetua un sol delitto dà 

moltissimi e durevoli esempi, e se egli49 è importante che gli uomini veggano spesso il 

poter delle leggi, le pene di morte non debbono essere molto distanti fra di loro: 

dunque suppongono la frequenza dei delitti, dunque perché questo supplicio sia 

utile bisogna che non faccia su gli uomini tutta l’impressione che far dovrebbe, 

85    cioè che sia utile e non utile nel medesimo tempo. Chi dicesse che la schiavitù 

perpetua è dolorosa quanto la morte, e perciò egualmente crudele, io risponderò 

che sommando tutti i momenti infelici della schiavitù lo sarà forse anche di più, 

ma questi sono stesi sopra tutta la vita, e quella esercita tutta la sua forza in un 

momento; ed è questo il vantaggio della pena di schiavitù, che spaventa più chi 

90    la vede che chi la soffre; perché il primo considera tutta la somma dei momenti 

infelici, ed il secondo è dall’infelicità del momento presente distratto dalla futura. 

Tutti i mali s’ingrandiscono nell’immaginazione, e chi soffre trova delle risorse e 

delle consolazioni non conosciute e non credute dagli spettatori, che sostituiscono 

la propria sensibilità all’animo incallito dell’infelice.

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ANALISI ATTIVA

I contenuti tematici

In queste pagine – le più famose del trattato – viene sviluppata un’autorevole ed efficace critica alla pena di morte, di cui si auspica esplicitamente l’abolizione. Idee contrarie alla pena capitale erano state manifestate fin dal Medioevo in circoscritti ambiti teo­logici e filosofici, ma le posizioni abolizioniste avevano sempre avuto scarsa risonanza. Gli stessi ispiratori del pensiero di Beccaria, pur lamentando l’arretratezza degli ordinamenti penali loro contemporanei, non avevano palesato una particolare ostilità nei confronti della pena capitale: nello Spirito delle leggi (1748) Montesquieu aveva affermato che l’omicida merita la morte, mentre nel Contratto sociale (1762) Jean-­Jacques Rousseau aveva giustificato il ricorso alla pena capitale nei confronti degli assassini o dei «nemici pubblici».

Negli stessi anni, tuttavia, compaiono anche prese di posizione diverse. Nel 1760 il giurista fiorentino Giuseppe Bencivenni Pelli (1729-1808) è autore di una dissertazione nella quale contesta la validità della pena capitale con motivazioni umanitarie e contrattualiste che anticipano quelle di Beccaria, mentre nel 1764 l’illuminista austriaco Joseph von Sonnenfels (1733-1817) nega che la pena di morte risponda agli specifici scopi preventivi che devono essere propri delle pene. È però soltanto grazie alla pubblicazione del trattato di Beccaria che l’istanza abolizionista penetra in modo definitivo nel dibattito culturale. Un dibattito ancora aperto: a oltre due secoli e mezzo di distanza dalla pubblicazione di Dei delitti e delle pene, il problema della pena di morte resta drammaticamente attuale, essendo essa tuttora prevista non solo da numerosi regimi totalitari, ma anche da alcuni ordinamenti democratici.

1. In che cosa consiste l’attualità della riflessione di Beccaria sulla pena di morte?

Beccaria affronta il tema della pena di morte nel paragrafo 28 del trattato, dopo avere discusso, in quello precedente, della «Dolcezza delle pene». Su quest’ultimo punto l’autore osserva come l’atrocità dei supplizi sia contraria ai princìpi di umanità, leda il principio di proporzionalità tra delitto commesso e punizione inflitta, e risulti per di più inefficace, in quanto ciò che conta affinché una pena ottenga il suo effetto (vale a dire la deterrenza) non è la crudeltà dei castighi, ma la loro infallibilità (cioè la certezza della pena). È proprio a partire dalla constatazione dell’inutilità di questa prodigalità di supplicii (r. 2) che l’autore giunge a discutere se la pena di morte sia veramente utile e giusta. Egli sviluppa essenzialmente due argomenti, che, basati sui princìpi del contrattualismo e dell’utilitarismo, intendono dimostrare l’illegittimità e l’inutilità della pena di morte.

2. Perché, secondo Beccaria, l’applicazione della pena di morte non può essere un diritto dello Stato?


3. In quali circostanze, secondo Beccaria, si potrebbe essere portati a ritenere ammissibile la pena capitale?


4. Che cosa colpisce più facilmente l’animo umano, secondo Beccaria?


5. Quali sono, secondo Beccaria, le caratteristiche di una pena giusta?

Il primo argomento afferma che la pena di morte è giuridicamente illegittima in quanto non prevista dal patto con cui si è costituita la società e dal quale discendono le leggi e la sovranità stessa. Il diritto di punire si basa sì su una delega contenuta in tale patto, ma con questa delega il singolo non ha affatto concesso ad altri l’arbitrio di ucciderlo (r. 8). Le leggi che attuano il diritto di punire, infatti, sono costituite dalla somma di minime porzioni della privata libertà di ciascuno (rr. 6-7), e in questo minimo sacrificio della libertà (r. 9) non è compreso quello massimo tra tutti i beni (r. 10), la vita.

Nella concezione di Beccaria, d’altra parte, la vita costituisce un diritto naturale indisponibile (tanto che l’uomo non è padrone di uccidersi, r. 11), e di conseguenza nessuno può avere ceduto il diritto alla vita, dal momento che non si può cedere una cosa di cui non si dispone.

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6. Perché, secondo Beccaria, la pena di morte è illegittima? Sintetizza la risposta in 3 righe.

Il secondo argomento, di tipo utilitaristico, rappresenta la parte maggiormente articolata del discorso di Beccaria, con cui l’autore intende dimostrare che la pena di morte risulta meno efficace – sempre nell’ottica della deterrenza, vero scopo delle pene – della detenzione perpetua (ossia dell’ergastolo). Il ragionamento prende le mosse dall’individuazione di due situazioni ipotetiche nelle quali la morte di un cittadino può credersi (r. 17) utile o necessaria, e cioè quando – nei periodi di guerra civile e di anarchia – un soggetto, pur privato della libertà, abbia relazioni e potenza tali da rappresentare una minaccia per la sicurezza della nazione e per la forma di governo stabilita (rr. 18-20); oppure quando, anche in una situazione di normalità (durante il tranquillo regno delle leggi, r. 23), tale pena costituisca l’unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti (r. 28). La formulazione di queste due ipotesi ha indotto alcuni studiosi a ritenere la posizione di Beccaria contraddittoria e non pienamente abolizionista. In realtà, il ripetuto e sapiente ricorso all’espressione può credersi indica come Beccaria non preveda, nell’ambito dello Stato di diritto, alcun caso in cui la pena di morte possa essere giusta, utile e necessaria. Del resto, la prima delle due ipotesi configura una situazione di assenza o di sospensione delle leggi (quando i disordini stessi tengon luogo di leggi, r. 22), e non può dunque essere utilizzata per dimostrare la necessità della pena di morte in una società civile; quanto alla fondatezza della seconda ipotesi, essa è smentita sia dall’esperienza storica sia dall’esame della natura umana.

In ordine a questo secondo punto, Beccaria ricorda che la storia (la sperienza di tutt’i secoli, r. 30) dimostra come la pena capitale (l’ultimo supplicio, r. 30) non abbia mai costituito un utile deterrente (cioè non abbia distolti gli uomini determinati dall’offendere la società, r. 31). A questo scopo, molto più efficace dell’intensità della pena è la sua estensione nel tempo (Non è l’intensione della pena che fa il maggior effetto sull’animo umano, ma l’estensione di essa, rr. 38-39). Il massimo effetto dissuasivo non discende dallo spettacolo terribile ma passeggiero (r. 44) della morte di un criminale, che impressiona gli animi per breve tempo, ma dall’esempio di un soggetto privato della propria libertà per lungo tempo (dal lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, rr. 44-46). La schiavitù perpetua (rr. 67-68), cioè appunto la reclusione a vita, deve dunque sostituire la pena di morte, la cui presunta esemplarità ha addirittura effetti contraddittori, arrivando a suscitare la solidarietà dei cittadini nei confronti del condannato (divenendo oggetto di compassione mista di sdegno per alcuni, rr. 57-58).

7. Perché, secondo Beccaria, la pena di morte è inutile? Sintetizza la risposta in 3 righe.


8. Spiega la seguente affermazione: perché questo supplicio sia utile bisogna che non faccia su gli uomini tutta l’impressione che far dovrebbe, cioè che sia utile e non utile nel medesimo tempo (rr. 83-85).

Le scelte stilistiche

Nelle argomentazioni qui esaminate il presupposto utilitarista ha una decisa prevalenza sugli altri elementi ideali – a cominciare da quello umanitario, pur presente – che concorrono a formare il pensiero di Beccaria. Anche le scelte stilistiche contribuiscono a sostenere l’uno o l’altro approccio. Come si è già visto, una prosa asciutta e sobria caratterizza lo stile del trattato nei passaggi in cui la concatenazione logica degli argomenti è più serrata e puntuale. Ciò non toglie che la scrittura di Beccaria sappia allontanarsi dall’oggettività propria della prosa filosofica e giuridica, per esprimere invece il punto di vista soggettivo del condannato, attraverso l’evocazione viva e concreta della sua situazione. È il caso della descrizione dello stato di schiavitù perpetua (rr. 68-69), in cui il reo è paragonato a una bestia di servigio (r. 45) destinata a trascorrere la vita fra i ceppi o le catene, sotto il bastone, sotto il giogo, in una gabbia di ferro (r. 74). Gli oggetti propri dell’ambiente di detenzione sono quasi uno specchio della condizione psicologica ed esistenziale del condannato, e il suo punto di vista emerge chiaramente quando l’autore ricorda come la condanna non rappresenti la fine, ma l’inizio dei suoi mali, delineando un regime potenzialmente più crudele della pena capitale (anche se tale condizione, in realtà, spaventa più chi la vede che chi la soffre, rr. 89-90, dal momento che chi la subisce finisce per concentrarsi sull’infelicità del momento presente, perdendo di vista l’assenza di prospettive future).

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9. Ricostruisci la struttura del discorso di Beccaria, individuando tesi, argomentazioni, esempi.


10. Perché alle rr. 48-49 una frase è riportata in corsivo?


11. In quali punti del testo Beccaria fa ricorso ad argomenti di tipo giuridico?


12. In quali punti del testo Beccaria fa ricorso ad argomenti che richiamano la conoscenza della natura umana?

Educazione CIVICA – Spunti di realtà

OBIETTIVO
16 PACE, GIUSTIZIA E ISTITUZIONI SOLIDE


La pena di morte, un tempo ritenuta la pena per eccellenza, è ormai giudicata dalla maggior parte degli Stati una violazione dei diritti umani nonché una punizione barbara poco consona a uno Stato civile, per cui i paesi che continuano ad applicarla si trovano sempre più in difficoltà nel fornirne una giustificazione.


• Quali tra gli argomenti portati da Beccaria contro la pena di morte ritieni ancora validi e dunque attuali nel dibattito su questo tema? Esponi le tue considerazioni in un testo di circa 50 righe.

T3

Prevenzione ed educazione

Dei delitti e delle pene, parr. 41 e 45

Dai temi della repressione e della punizione, che veniva concepita tradizionalmente (ma non da Beccaria) come espiazione di colpe morali e religiose, l’accento passa, negli ultimi paragrafi del trattato, a quelli della prevenzione dei delitti e dell’educazione dei cittadini.

41. Come si prevengano i delitti

È meglio prevenire i delitti che punirgli.1 Questo è il fine principale d’ogni buona 

legislazione, che è l’arte di condurre gli uomini al massimo di felicità o al minimo 

d’infelicità possibile, per parlare secondo tutt’i calcoli dei beni e dei mali della 

5      vita.2 Ma i mezzi impiegati fin ora sono per lo più falsi3 ed opposti al fine 

proposto. Non è possibile il ridurre la turbolenta attività degli uomini ad un ordine 

geometrico senza irregolarità e confusione. Come le costanti e semplicissime leggi 

della natura non impediscono che i pianeti non si turbino nei loro movimenti, 

così nelle infinite ed oppostissime attrazioni del piacere e del dolore, non possono 

10    impedirsene dalle leggi umane i turbamenti ed il disordine.4 Eppur questa è la 

chimera5 degli uomini limitati,6 quando abbiano il comando in mano. Il proibire 

una moltitudine di azioni indifferenti7 non è prevenire i delitti che ne possono 

nascere, ma egli8 è un crearne dei nuovi, egli è un definire a piacere la virtù ed il 

vizio, che ci vengono predicati eterni ed immutabili. A che saremmo ridotti, se ci 

15    dovesse essere vietato tutto ciò che può indurci a delitto? Bisognerebbe privare 

l’uomo dell’uso de’ suoi sensi. Per un motivo che spinge gli uomini a commettere 

un vero delitto, ve ne son mille che gli9 spingono a commetter quelle azioni 

indifferenti, che chiamansi delitti dalle male leggi;10 e se la probabilità dei delitti è 

proporzionata al numero dei motivi,11 l’ampliare la sfera dei delitti è un crescere la 

20    probabilità di commettergli. La maggior parte delle leggi non sono che privilegi, 

cioè un tributo di tutti al comodo di alcuni pochi.

Volete prevenire i delitti? Fate che le leggi sian chiare, semplici, e che tutta la 

forza della nazione sia condensata a difenderle, e nessuna parte di essa sia 

impiegata a distruggerle.

25    Fate che le leggi favoriscano meno le classi degli uomini che gli uomini stessi. 

Fate che gli uomini le temano, e temano esse sole. Il timor delle leggi è salutare, 

ma fatale e fecondo di delitti è quello di uomo a uomo. Gli uomini schiavi sono 

più voluttuosi,12 più libertini,13 più crudeli degli uomini liberi. Questi meditano 

sulle scienze, meditano sugl’interessi della nazione, veggono grandi oggetti,14

30    gl’imitano; ma quegli contenti del giorno presente cercano fra lo strepito del 

libertinaggio una distrazione dall’annientamento in cui si veggono; avvezzi 

all’incertezza dell’esito di ogni cosa, l’esito de’ loro delitti divien problematico per essi,15 

in vantaggio della passione che gli determina. Se l’incertezza delle leggi cade su di 

una nazione indolente per clima,16 ella mantiene ed aumenta la di lei indolenza e 

35    stupidità. Se cade in una nazione voluttuosa, ma attiva, ella ne disperde l’attività 

in un infinito numero di piccole  cabale ed intrighi, che spargono la diffidenza in 

ogni cuore e che fanno del tradimento e della dissimulazione la base della prudenza. 

Se cade su di una nazione coraggiosa e forte, l’incertezza vien tolta alla fine, 

formando17 prima molte oscillazioni18 dalla libertà alla schiavitù, e dalla schiavitù 

40    alla libertà.


45. Dell’educazione

Finalmente il più sicuro ma più difficil mezzo di prevenire i delitti si è di perfezionare 

l’educazione, oggetto troppo vasto e che eccede i confini che mi sono 

prescritto, oggetto, oso anche dirlo, che tiene troppo intrinsecamente alla natura

45    del governo perché non sia sempre fino ai più remoti secoli della pubblica felicità 

un campo sterile, e solo coltivato qua e là da pochi saggi.19 Un grand’uomo, che 

illumina l’umanità che lo perseguita,20 ha fatto vedere in dettaglio quali sieno le 

principali massime di educazione veramente utile agli uomini, cioè consistere 

meno in una sterile moltitudine di oggetti21 che nella scelta e precisione di essi, 

50    nel sostituire gli originali alle copie nei fenomeni sì morali che fisici che il caso o 

l’industria22 presenta ai novelli23 animi dei giovani, nello spingere alla virtù per la 

facile strada del sentimento, e nel deviarli dal male per la infallibile della necessità 

e dell’inconveniente,24 e non colla incerta del comando, che non ottiene che una 

simulata e momentanea ubbidienza.

 >> pagina 377

DENTRO IL TESTO

I contenuti tematici

L’approccio di Beccaria parte sempre da un’osservazione diretta e pratica della realtà, anziché da una visione idealizzante o utopica: di fronte alla complessità e al disordine che caratterizzano le passioni degli esseri umani (nelle infinite ed oppostissime attrazioni del piacere e del dolore, r. 9), il legislatore non può avere la pretesa di codificare e di normare nei minimi dettagli i comportamenti dei singoli, vietando ogni azione potenzialmente pericolosa o dannosa per il corpo sociale, poiché quest’ultimo non costituisce affatto un ordine geometrico (rr. 6-7) che renda prevedibile il suo evolversi. Al contrario, se un simile tentativo riuscisse, il suo effetto sarebbe quello di negare la stessa natura umana (privare l’uomo dell’uso de’ suoi sensi, rr. 15-16). L’autore, d’altra parte, sostiene che spesso l’affastellamento di leggi e norme irrazionali nasconde la volontà dei potenti di proteggere i propri privilegi di classe (La maggior parte delle leggi non sono che privilegi, cioè un tributo di tutti al comodo di alcuni pochi, rr. 20-21).

La ricetta beccariana per la prevenzione dei delitti è precisa e fondata su saldi presupposti razionali: occorrono leggi chiare e semplici (r. 22), tese a proteggere non gli interessi particolari di una classe o di un gruppo specifico, ma la libertà di tutti gli individui (Fate che le leggi favoriscano meno le classi degli uomini che gli uomini stessi, r. 25). Soltanto la legge deve suscitare timore nei cittadini, perché quando si teme un individuo particolare, sia pure il più potente della nazione, si entra nel regno dell’arbitrio. Ma la mancanza di libertà e l’incertezza delle leggi (r. 33) determinano la corruzione morale della società, anticamera dei comportamenti criminali.
Fondamentale per la creazione dello spirito civile di un popolo è l’educazione (par. 45), giacché essa pone le premesse per l’azione del legislatore. Beccaria mutua dal filosofo svizzero Jean-Jacques Rousseau – e dal suo romanzo pedagogico Emilio (1762), in cui si descrive l’autoeducazione del protagonista a contatto con la natura – l’idea che nella vita di un popolo, come in quella di un individuo, nessun insegnamento potrà mai veramente radicarsi e incidere sui comportamenti se ha la pretesa di affermarsi attraverso la strada incerta del comando (r. 53): l’autoritarismo è capace infatti di ottenere soltanto un’ubbidienza simulata e momentanea (r. 54). Molto più efficace nel volgere i giovani al bene è il sentimento (r. 52), cioè l’insieme delle passioni e dei desideri che rappresentano la via maestra con cui l’essere umano esprime la propria vitalità; affinché non si rivolga al male, però, esso va disciplinato con lo strumento della ragione e, appunto, dell’educazione.
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VERSO LE COMPETENZE

Comprendere

1 Qual è la chimera degli uomini limitati, quando abbiano il comando in mano (rr. 10-11)?


2 A quale condizione l’educazione è efficace?


3 Sintetizza i capisaldi del programma pedagogico di Beccaria.

Analizzare

4 In aumenta la di lei indolenza (r. 34) quale figura retorica riconosci?

  • a Anafora.
  • b Antitesi.
  • c Climax.
  • d Anastrofe.

Interpretare

5 Beccaria usa frequentemente l’infinito sostantivato. Rintraccia qualche esempio e spiega il motivo di tale scelta espressiva.

SVILUPPARE IL LESSICO

6 In questo testo sono numerosissime le ripetizioni degli stessi termini: quali? Perché, a tuo giudizio, l’autore non ha utilizzato perifrasi o sinonimi? Puoi ricondurre questa scelta al genere e allo scopo dell’opera? Esponi le tue considerazioni.

intrecci CINEMA

La pena di morte secondo Patrice Leconte

Nel 2000 il francese Patrice Leconte (n. 1947) dirige L’amore che non muore, il cui titolo originale è La Veuve de Saint-Pierre, laddove veuve (“vedova”) ha un antico e macabro significato per designare la ghigliottina. Il film s’ispira a un fatto di cronaca verificatosi nel 1920, sebbene sia ambientato a metà Ottocento.

Nel 1849, sull’isola di Saint-Pierre, piccola e sperduta colonia francese al largo delle coste del Canada, il mari­naio Neel Auguste viene condannato alla pena capitale per aver ucciso un uomo dopo una notte di bagordi. Sull’isola, però, non è mai stato giustiziato nessuno, e non ci sono né un boia né la ghigliottina: in attesa che lo strumento di morte giunga dalla madrepatria, Neel viene dato in custodia a Jean, il capitano della guarnigione locale. Madame La, moglie del capitano, prende a cuore il destino del criminale e, con l’appoggio del marito, tenta di riabilitarlo agli occhi della comunità. Quando la ghigliottina arriva, il governatore e i notabili del­l’isola pretendono l’esecuzione del condannato, ma il capitano Jean si oppone.

L’emozionante e suggestivo film di Leconte s’interroga sull’equità e sull’utilità della pena di morte, mostrando come sia possibile il ravvedimento del reo e il suo recupero. La forza umana e morale dell’opera si coglie soprattutto nella contrapposizione tra i notabili di Saint-Pierre da una parte, e Madame La e il capitano dall’altra: come sottolineato dal critico Roberto Escobar, per i primi la ghigliottina «è lo strumento necessario non tanto a uccidere un uomo […], quanto a tener pubblica fede a una loro decisione, e dunque a confermare il loro ruolo», mentre per Jean e la moglie «è lo strumento e il simbolo della barbarie che vince».

Colpisce in particolare la figura di Madame La, per la sua capacità di opporsi con coraggio e tenacia a chi non crede si possa combattere la violenza con l’arma della compassione.

Il magnifico viaggio - volume 3
Il magnifico viaggio - volume 3
Il Seicento e il Settecento