Il catalogo shakespeariano e la produzione teatrale

Il catalogo shakespeariano e la produzione teatrale

La situazione testuale

Sulla gran parte della produzione di Shakespeare non esistono dati certi. In molti casi gli studiosi sono cauti riguardo al numero delle opere, alle datazioni e alle fonti dei singoli lavori. Complessa è anche l’analisi dello stile, essendo i testi che leggiamo oggi il risultato di un confronto sistematico fra le varianti delle edizioni contemporanee – i cosiddetti  in quarto, limitati a drammi singoli – e di quelle che si sono succedute nel corso del tempo, raccolte in volumi  in folio ed edizioni critiche. Una delle fonti più importanti per la datazione dei drammi di Shakespeare è il cosiddetto First Folio, pubblicato sette anni dopo la sua morte, nel 1623, e curato da due attori suoi colleghi, John Heminge ed Henry Condell: la loro suddivisione delle opere in tragedie, commedie e drammi storici è tuttora valida.

I drammi di Shakespeare non nascono come testi firmati dall’autore, ma come copioni privi di suddivisione in atti e in scene. La compagnia li modifica nel corso delle recite e ne è a tutti gli effetti la proprietaria, mentre la pubblicazione avviene soltanto dopo la rappresentazione, spesso clandestinamente e in forma rimaneggiata. Non stupisce dunque l’assenza di manoscritti e di versioni a stampa autorizzate da Shakespeare. La costituzione dell’attuale corpus delle opere shakespeariane è il frutto di un intenso lavoro della critica, iniziato nel XVIII secolo e tuttora in corso.
Attualmente il catalogo è composto da 37 drammi, oltre che da alcune composizioni poe­tiche scritte nell’ultimo decennio del Cinquecento, in un breve periodo di chiusura dei teatri a causa della peste: 2 poemetti narrativi (Venere e Adone, 1592-1593; Lucrezia violentata, 1593-1594) e 154 sonetti costruiti in modo originale sul modello petrarchesco, dominante nel Rinascimento inglese.

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L’edificio teatrale e l’illusione scenica

Un teatro essenziale

La tecnica drammatica di Shakespeare è coerente con il tipo di teatro per il quale scrive. La maggior parte dei suoi drammi è composta per il Globe, un teatro in legno di forma circolare («Questa O di legno», com’è definito nel prologo dell’Enrico V), che fin dal nome suggerisce l’immagine del mondo. Oggi ricostruito fedelmente sulla riva sud del Tamigi, presso il Millennium Bridge, era un edificio a due piani, scoperto e dotato di una piattaforma aggettante verso il pubblico, dietro la quale correvano balconate e si aprivano le porte per l’entrata e l’uscita degli attori. Si trattava di un teatro sostanzialmente povero, pensato per dare risalto alla figura dell’attore: gli scenari erano rudimentali e il sipario assente, sicché la scenografia era quasi interamente creata dalle parole. Proprio alla carenza di realismo scenico si deve lo spessore simbolico del linguaggio, che esigeva un’intensa partecipazione immaginativa degli spettatori all’azione rappresentata sul palcoscenico. Prosegue il prologo dell’Enrico V, rivolgendosi agli spettatori:


Fate conto che entro la cerchia di queste mura siano racchiuse due potenti monarchie e che un pericoloso stretto divida le loro alte fronti, a picco, sul mare. Riempite le nostre lacune col vostro pensiero, dividete in mille parti ogni uomo e create, così, un imponente esercito immaginario. Se si parlerà di cavalli, fate conto di vederli stampare gli zoccoli superbi sul molle terreno che ne riceve le impronte. Il vostro pensiero, infatti, è chiamato ora a fornire ricche vesti ai nostri re e a trasportarli qua e là, saltando lunghe stagioni, riassumendo gli avvenimenti di molti anni in un volger di clessidra…

Attori e pubblico

Mentre gli attori erano esclusivamente uomini, anche per le parti femminili (la recitazione non era infatti permessa alle donne), la composizione del pubblico era mista, anche dal punto di vista sociale: c’erano esponenti della corte, gentiluomini, membri delle classi medie e popolani chiassosi che pagavano un penny all’ingresso. Spiega lo scrittore inglese Peter Ackroyd: «La costruzione misurava 30 metri di diametro e si suppone potesse contenere circa 3300 spettatori. Ognuna delle due gallerie inferiori poteva ospitare un migliaio di persone. In altre parole, c’era una bella calca di corpi elisabettiani, dato che i proprietari permettevano l’ingresso a un pubblico due o tre volte maggiore di quello di un moderno teatro londinese. Ma l’atmosfera doveva essere più quella di uno stadio di football che quella di un teatro, con qualche elemento di luna park».

La presenza assidua di un pubblico così variegato testimonia la diversità di piani di lettura del teatro shakespeariano ed elisabettiano in generale: dall’umile facchino al colto rappresentante della corte, tutti trovavano motivo d’interesse nelle vicende rappresentate sulla scena.

Le quattro fasi della scrittura per le scene

Per comodità, si è soliti suddividere la carriera di Shakespeare in quattro fasi. La prima, compresa tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta del Cinquecento, è considerata il periodo di apprendistato. Il giovane autore si va formando su alcuni generi allora in voga: elabora gli elementi truculenti delle tragedie latine di Seneca imperniate sul tema del potere (Tito Andronico) e porta in scena le cronache che in quegli anni ricostruivano la storia d’Inghilterra con l’intento di presentare l’assolutismo come l’unica soluzione all’anarchia delle guerre civili (Riccardo III, Riccardo II).

In questa varietà di temi e di generi, il tratto comune è costituito dall’indifferenza verso una rappresentazione impostata su criteri di realismo, in continuità con la tradizione del dramma medievale. Questa caratteristica, che diverrà parte integrante dello stile di Shakespeare, è evidente nella presenza del soprannaturale e nel trattamento spregiudicato del tempo e dello spazio, senza riguardo per i rigidi criteri classici – le cosiddette unità aristoteliche – in base ai quali l’azione scenica doveva svolgersi in un tempo limitato e in unico luogo.

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Alla seconda fase (gli ultimi anni del Cinquecento e i primi del Seicento), che vede Shakespeare attivo con la compagnia dei Lord Chamberlain’s Men (“Uomini del Lord Ciambellano”), risalgono Romeo e Giulietta, Il mercante di Venezia e l’Enrico V, oltre che alcune commedie di grande leggerezza come Sogno d’una notte di mezza estate, mutuate dal gusto italiano per il gioco del travestimento e gli equivoci del linguaggio.

La terza fase (corrispondente all’incirca al primo decennio del Seicento), in cui è impegnato con i King’s Men presso il Globe Theatre, comprende i drammi romani (Giulio Cesare, Antonio e Cleopatra), le grandi tragedie (Amleto, Otello, Macbeth, Re Lear) e le dark comedies (Troilo e Cressida e Misura per misura), che insieme all’Amleto rientrano nella categoria dei problem plays, i “drammi dialettici”, così definiti in quanto opere aperte, non risolte, prive dell’elemento catartico. Anche nelle tragedie più cupe, comunque, non mancano inserti comici, come il dialogo fra i becchini in attesa della sepoltura di Ofelia, nell’Amleto, o il grottesco monologo del portiere dopo il delitto, nel Macbeth; nell’Otello, inoltre, Iago recita spesso la parte del buffone, e un buffone (fool) ha un ruolo importantissimo in Re Lear. D’altro canto, anche le commedie composte in questa fase (Come vi piace, La dodicesima notte) sono più complesse delle precedenti, e il riso assume spesso un sapore amaro.

All’ultima fase (tra la fine del primo e l’inizio del secondo decennio del Seicento) della produzione shakespeariana, in cui il commediografo lavora al teatro di Blackfriars, risale la svolta dei drammi romanzeschi, nei quali il motivo del perdono subentra alla soluzione tragica (Il racconto d’invernoLa tempesta). Anche in queste opere, comunque, al lieto fine si intrecciano tinte più fosche, a dimostrazione di come sia impossibile collocare la produzione di Shakespeare nella gabbia dei generi.

La scrittura shakespeariana si caratterizza dunque per la compresenza di elementi tragici e comici. Il comico assolve a diverse funzioni: risponde a esigenze di organizzazione interna del dramma, attraverso l’inserto di scene comiche di sollievo (relief) che alleggeriscono situazioni di forte intensità emotiva; qualifica i personaggi come socialmente e moralmente bassi (nei drammi sulla storia d’Inghilterra, per esempio, connota Falstaff – figura ereditata dal teatro medievale e utilizzata ora come punto di vista dissacrante sulla retorica celebrativa del principe – come incarnazione del vizio); si trasforma infine in ironia tragica, come accade nell’episodio del contadino che, portando a Cleopatra l’aspide da lei richiesto per suicidarsi, prova su sé stesso l’efficacia del morso velenoso del serpente.

Nell’evidente impossibilità di soffermarci su tutti i drammi shakespeariani, qui di seguito focalizzeremo l’attenzione su alcune opere di maggiore rilievo.

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