Nella Commedia... e oltre

NELLA COMMEDIA... IN PRIMO PIANO Le macchie lunari di Dante e quelle di Galileo Il più importante poema del Seicento italiano è l Adone (1625) del napoletano Giovan Battista Marino, scritto grazie ai finanziamenti del re di Francia Luigi XIII. Il testo, che è di fatto la trasposizione in chiave mitica della vita dell alta aristocrazia gaudente e disimpegnata, racconta appunto le vicende di Adone, un bellissimo ragazzo frigio del quale si innamora perfino Venere. La dea lo conduce nel suo palazzo, facendogli trascorrere le giornate tra giochi, spettacoli e banchetti. In questo contesto narrativo Marino inserisce anche un viaggio: Venere conduce Adone nei cieli, dove il giovane impara dalla loro guida il dio Mercurio i misteri del cosmo. Giunto sul cielo della Luna, Adone domanda al dio il perché delle macchie lunari: esattamente lo stesso quesito sollevato da Dante nel canto II del Paradiso. Le risposte fornite, invece, sono ben diverse. Beatrice spiega che ogni sfera celeste, anche quella della Luna, è abitata dalle Intelligenze angeliche, le quali hanno il compito di direzionare l energia divina, la gloria di colui che tutto move, la quale per l universo penetra e risplende in una parte più e meno altrove. Dal momento che gli angeli hanno una I VIAGGI LETTERARI diversa virtù e quindi una diversa capacità di trasmettere tale energia, tra tanti splendori ci sono luci meno intense, che possono sembrare scure rispetto a quelle circostanti: si tratta dei bagliori corrispondenti agli angeli di livello inferiore; proprio questa differenza dà l impressione che ci siano macchie lunari . Trecento anni dopo Galileo Galilei, grazie al cannocchiale, svelerà che queste sono semplicemente le zone concave ovvero i crateri della Luna, confutando il principio della cosmologia tolemaica secondo cui le imperfezioni, come appunto i crateri, non potevano trovarsi sulle sfere celesti, di necessità perfette. E proprio questo racconta Marino nel suo poema. Mercurio infatti spiega ad Adone che: Or io ti fo saver che quel pianeta [la Luna] / non è (com altri vuol) polito e piano / ma ne recessi suoi profondi e cupi / ha non men che la terra, e valli e rupi. E questo è stato scoperto da un picciol cannone e duo cristalli, le componenti del telescopio: per te fia, Galileo, l opra composta. Galileo Galilei, Le macchie lunari, ms. galileiano 55c., 8r., 9r., prima metà del XVII secolo. La scrittura e la lettura come una navigazione All inizio del canto II del Paradiso Dante avverte i lettori che hanno seguito il suo legno (cioè la sua nave, ovvero il poema stesso) con piccioletta barca, cioè con scarsa preparazione filosofica e teologica, che ora la navigazione affronterà un pelago, ovvero il mare aperto, cioè diventerà difficile. Già all inizio del Purgatorio il poeta aveva equiparato implicitamente la propria opera a un mezzo di navigazione: Per correr miglior acque alza le vele / omai la navicella del mio ingegno. E ancora, più avanti, nel XXIII del Paradiso, scriverà che la descrizione del regno celeste è appunto impresa di estrema difficoltà: Ma chi pensasse il ponderoso tema (ovvero: il pesantissimo argomento) / e l omero mortal che se ne carca (le braccia che se ne fanno carico, che se lo prendono in spalla) / nol biasmerebbe se sott esso trema (non avrebbe da ridire se chi lo ha preso su di sé trema per il peso): / non è pareggio da picciola barca (non è un tratto di mare adatto a una piccola barca) / quel che fendendo va l ardita prora / né da nocchier 264 E OLTRE ch a sé medesmo parca (né da nocchiero che si risparmi, che non si sforzi al massimo per compiere l impresa). Anche in questo caso Dante non ricorre casualmente alla metafora della navigazione per descrivere la scrittura (e quindi la lettura): essa, infatti, era assai diffusa in quella letteratura latina che costituisce spesso un punto di riferimento costante per l opera dantesca. In particolare nelle Georgiche dell amatissimo Virgilio (libro II vv. 39-46) Dante poteva leggere l invocazione con la quale l autore, rivolgendosi al suo benefattore Mecenate, gli chiedeva di aiutarlo nella navigazione del proprio poema: E tu assistimi, ripercorrendo con me il lavoro iniziato, / o tu vanto, o tu giustamente gran parte della mia fama / Mecenate, e volando apri le vele verso il mare che si distende di fronte. / Io non desidero di abbracciare con i miei versi tutto / non potrei nemmeno se avessi cento bocche con cento lingue / e una voce di ferro. Assistimi e costeggia il lembo estremo della spiaggia.

Antologia della Divina Commedia
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