T13 - Le ricordanze

T13

Le ricordanze

Canti, 22

Composta tra la fine d’agosto e l’inizio di settembre del 1829 a Recanati, la lirica testimonia il doloroso ritorno di Leopardi al paese natale, dopo il fallimento dei tentativi di emancipazione economica dalla famiglia messi in atto nei quattro anni precedenti, in cui il poeta aveva vissuto a Milano, Bologna, Firenze e Pisa. Nuovamente a casa, nei luoghi dell’infanzia, l’autore pone a confronto la tristezza del presente con le dolci illusioni che avevano nutrito la sua giovinezza.


Metro Strofe di diversa misura in endecasillabi sciolti.

Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea
tornare ancor per uso a contemplarvi
sul paterno giardino scintillanti,
e ragionar con voi dalle finestre
5      di questo albergo ove abitai fanciullo,
e delle gioie mie vidi la fine.
Quante immagini un tempo, e quante fole
creommi nel pensier l’aspetto vostro
e delle luci a voi compagne! allora
10    che, tacito, seduto in verde zolla,
delle sere io solea passar gran parte
mirando il cielo, ed ascoltando il canto
della rana rimota alla campagna!
E la lucciola errava appo le siepi
15    e in su l’aiuole, susurrando al vento
viali odorati, ed i cipressi
là nella selva; e sotto al patrio tetto
sonavan voci alterne, e le tranquille
opre de’ servi. E che pensieri immensi,
20    che dolci sogni mi spirò la vista
di quel lontano mar, quei monti azzurri,
che di qua scopro, e che varcare un giorno
io mi pensava, arcani mondi, arcana
felicità fingendo al viver mio!
25    Ignaro del mio fato, e quante volte
questa mia vita dolorosa e nuda
volentier con la morte avrei cangiato.

Né mi diceva il cor che l’età verde
sarei dannato a consumare in questo
30    natio borgo selvaggio, intra una gente
zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
argomento di riso e di trastullo,
son dottrina e saper; che m’odia e fugge,
per invidia non già, che non mi tiene
35    maggior di se, ma perché tale estima
ch’io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
a persona giammai non ne fo segno.
Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
senz’amor, senza vita; ed aspro a forza
40    tra lo stuol de’ malevoli divengo:
qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
e sprezzator degli uomini mi rendo,
per la greggia ch’ho appresso: e intanto vola
il caro tempo giovanil; più caro
45    che la fama e l’allor, più che la pura
luce del giorno, e lo spirar: ti perdo
senza un diletto, inutilmente, in questo
soggiorno disumano, intra gli affanni,
o dell’arida vita unico fiore.

50    Viene il vento recando il suon dell’ora
dalla torre del borgo. Era conforto
questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
quando fanciullo, nella buia stanza,
per assidui terrori io vigilava,
55    sospirando il mattin. Qui non è cosa
ch’io vegga o senta, onde un’immagin dentro
non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
Dolce per se; ma con dolor sottentra
il pensier del presente, un van desio
60    del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.
Quella loggia colà, volta agli estremi
raggi del dì; queste dipinte mura,
quei figurati armenti, e il Sol che nasce
su romita campagna, agli ozi miei
65    porser mille diletti allor che al fianco
m’era, parlando, il mio possente errore
sempre, ov’io fossi. In queste sale antiche,
al chiaror delle nevi, intorno a queste
ampie finestre sibilando il vento,
70    rimbombaro i sollazzi e le festose
mie voci al tempo che l’acerbo, indegno
mistero delle cose a noi si mostra
pien di dolcezza; indelibata, intera
il garzoncel, come inesperto amante,
75    la sua vita ingannevole vagheggia,
e celeste beltà fingendo ammira.
O speranze, speranze; ameni inganni
della mia prima età! sempre, parlando,
ritorno a voi; che per andar di tempo,
80    per variar d’affetti e di pensieri,
obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,
son la gloria e l’onor; diletti e beni
mero desio; non ha la vita un frutto,
inutile miseria. E sebben vóti
85    son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
il mio stato mortal, poco mi toglie
la fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta
a voi ripenso, o mie speranze antiche,
ed a quel caro immaginar mio primo;
90    indi riguardo il viver mio sì vile
e sì dolente, e che la morte è quello
che di cotanta speme oggi m’avanza;
sento serrarmi il cor, sento ch’al tutto
consolarmi non so del mio destino.
95    E quando pur questa invocata morte
sarammi allato, e sarà giunto il fine
della sventura mia; quando la terra
mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
fuggirà l’avvenir; di voi per certo
100 risovverrammi; e quell’imago ancora
sospirar mi farà, farammi acerbo
l’esser vissuto indarno, e la dolcezza
del dì fatal tempererà d’affanno.

E già nel primo giovanil  tumulto
105 di contenti, d’angosce e di desio,
morte chiamai più volte, e lungamente
mi sedetti colà su la fontana
pensoso di cessar dentro quell’acque
la speme e il dolor mio. Poscia, per cieco
110 malor, condotto della vita in forse,
piansi la bella giovanezza, e il fiore
de’ miei poveri dì, che sì per tempo
cadeva: e spesso all’ore tarde, assiso
sul conscio letto, dolorosamente
115 alla fioca lucerna poetando,
lamentai co’ silenzi e con la notte
il fuggitivo spirto, ed a me stesso
in sul languir cantai funereo canto.

Chi rimembrar vi può senza sospiri,
120 o primo entrar di giovinezza, o giorni
vezzosi, inenarrabili, allor quando
al rapito mortal primieramente
sorridon le donzelle; a gara intorno
ogni cosa sorride; invidia tace,
125 non desta ancora ovver benigna; e quasi
(inusitata maraviglia!) il mondo
la destra soccorrevole gli porge,
scusa gli errori suoi, festeggia il novo
suo venir nella vita, ed inchinando
130 mostra che per signor l’accolga e chiami?
Fugaci giorni! a somigliar d’un lampo
son dileguati. E qual mortale ignaro
di sventura esser può, se a lui già scorsa
quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
135 se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?

O Nerina! e di te forse non odo
questi luoghi parlar? caduta forse
dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
che qui sola di te la ricordanza
140 trovo, dolcezza mia? Più non ti vede
questa Terra natal: quella finestra,
ond’eri usata favellarmi, ed onde
mesto riluce delle stelle il raggio,
è deserta. Ove sei, che più non odo
145 la tua voce sonar, siccome un giorno,
quando soleva ogni lontano accento
del labbro tuo, ch’a me giungesse, il volto
scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri
150 il passar per la terra oggi è sortito,
e l’abitar questi odorati colli.
Ma rapida passasti; e come un sogno
fu la tua vita. Ivi danzando; in fronte
la gioia ti splendea, splendea negli occhi
155 quel confidente immaginar, quel lume
di gioventù, quando spegneali il fato,
e giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
l’antico amor. Se a feste anco talvolta,
se a radunanze io movo, infra me stesso
160 dico: o Nerina, a radunanze, a feste
tu non ti acconci più, tu più non movi.
Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
van gli amanti recando alle fanciulle,
dico: Nerina mia, per te non torna
165 primavera giammai, non torna amore.
Ogni giorno sereno, ogni fiorita
piaggia ch’io miro, ogni goder ch’io sento,
dico: Nerina or più non gode; i campi,
l’aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
170 sospiro mio: passasti: e fia compagna
d’ogni mio vago immaginar, di tutti
i miei teneri sensi, i tristi e cari
moti del cor, la rimembranza acerba.

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DENTRO IL TESTO

I contenuti tematici

Il componimento si articola in 7 strofe, in ciascuna delle quali l’autore si focalizza su un motivo particolare, annunciando al termine di essa quello della strofa successiva. I diversi concetti sono legati l’uno all’altro attraverso accostamenti non sempre basati su una struttura argomentativa serrata e stringente. Tuttavia cercheremo qui di seguito di ripercorrere i temi principali presentati di strofa in strofa.

• Il ritorno ai luoghi dell’infanzia (vv. 1-27): tornato a Recanati a partire dal novembre del 1828, Leopardi è colpito e commosso dalle immagini della casa paterna che lo riportano alla memoria dell’infanzia. La lirica si apre con un’invocazione alla costellazione dell’Orsa Maggiore che splende sul giardino del palazzo di famiglia. Il poeta ricorda come la vista delle stelle e degli altri elementi del paesaggio recanatese (il mare e i monti in lontananza) crearono in lui ragazzo infinite fantasticherie.

• La giovinezza sfiorita (vv. 28-49): quando era così giovane Leopardi non immaginava che sarebbe stato condannato a vivere in un luogo inospitale come Recanati, tra persone grette e ostili, e a condurre un’esistenza oscura. Ma ora la giovinezza fugge via, senza che egli l’abbia veramente assaporata.

• I ricordi della casa paterna (vv. 50-76): il poeta rievoca la propria fanciullezza attraverso ricordi che generano in lui un senso di nostalgia per un’età in cui il futuro gli appariva roseo e allettante.

• Le speranze ingannevoli (vv. 77-103): l’esperienza ha insegnato a Leopardi che tutto quanto sognava da fanciullo (gloria, onori, piaceri) è soltanto un’illusione, perché la vita è, in realtà, un semplice susseguirsi di dolori e delusioni senza scopo. Tuttavia quei sogni erano belli, tanto che ora egli ne sente la mancanza. Meglio, perciò, sarebbe morire, anche se teme che l’ultimo giorno di vita sarà amareggiato dal pensiero di non aver goduto le gioie dell’esistenza.

• L’infelicità giovanile e il rimpianto della giovinezza perduta (vv. 104-135): al ricordo della fanciullezza, segue quello dell’adolescenza con tutti i sentimenti contrastanti che caratterizzano questa età: gioie, angosce, speranze, desiderio e al tempo stesso paura di morire.

• Nerina, simbolo di un tempo che non torna (vv. 136-173): il poeta introduce la figura di Nerina, una ragazza recanatese morta in giovane età. Leopardi non può dimenticarla, tanto che ogniqualvolta gli capiti di vivere una situazione lieta (occasioni – confessa – in verità per lui sempre più rare) non riesce a non pensare che da tutto ciò Nerina è ormai esclusa per sempre.

Chi è Nerina? Il nome è quello di una ninfa amica di Silvia nell’Aminta di Tasso. Si tratta dunque di un nome fittizio, di ascendenza letteraria, sotto il quale per alcuni si nasconderebbe la stessa Teresa Fattorini di A Silvia, secondo altri una certa Maria Belardinelli, un’altra ragazza di Recanati, morta nel 1827 all’età di ventisette anni. In ogni caso il personaggio incarna il mito della fanciulla precocemente scomparsa, attraverso cui Leopardi intende emblematizzare la fine delle speranze giovanili. Le espressioni affettuose con cui il poeta le si rivolge (dolcezza mia, v. 140; mio dolce amor, v. 149; Nerina mia, v. 164) – espressioni per la verità piuttosto convenzionali (tanto da ricordare versi della produzione arcadica) – più che testimoniare un sentimento d’amore da parte di Leopardi nei confronti della ragazza sottolineano il suo attaccamento alle illusioni giovanili, ormai definitivamente tramontate, di cui essa assurge a simbolo: Nerina è detta infatti da Leopardi eterno / sospiro mio (vv. 169-170) proprio perché rappresenta la gioventù e la speranza di felicità.

È stato osservato dalla critica che questo canto rappresenta una sorta di summa dei “grandi idilli” o canti pisano-recanatesi, in cui Leopardi cerca di recuperare, attraverso la memoria, la capacità di immaginazione tipica della giovinezza. Centrale è dunque il motivo del ricordo, a cui si aggiunge quello della disillusione, giacché il recupero di una condizione speranzosa e sospesa nell’attesa di un futuro positivo quale era quella giovanile appare di fatto impossibile. Così nelle varie strofe si intrecciano tra loro, in un’alternanza di passato e presente, i temi dell’illusione e del disinganno, e ciascuno di essi acquista maggiore evidenza proprio dall’accostamento a quello opposto.

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È particolarmente significativa, in questa poesia, anche l’ambientazione a Recanati. Nei confronti del natio borgo selvaggio (v. 30) Leopardi manifesta sentimenti ambivalenti. Il paese natale da un lato rappresenta il luogo dell’infanzia, dei suoi dolci ricordi, del formarsi, dei pensieri immensi (v. 19) e dei dolci sogni (v. 20) ispirati dalla contemplazione della realtà naturale che circondava la casa paterna; dall’altro esso si configura come quella prigione dalla quale Leopardi a più riprese ha cercato di evadere (a partire dal fallito tentativo di fuga del 1819) e nella quale ora è stato costretto a rientrare dopo che è naufragata la possibilità di conquistare l’indipendenza economica attraverso il lavoro editoriale.

La contrapposizione è dunque tra la Recanati di ieri, bella e suggestiva nella prospettiva del ricordo, e la Recanati di oggi, in cui, cadute le illusioni, al poeta sembra di trascorrere gli anni abbandonato, occulto, / senz’amor, senza vita (vv. 38-39). Tale contrasto è impostato già nella dialettica che si instaura tra la prima strofa (in cui prevalgono predicati al passato: abitai, v. 5; vidi, v. 6; creommi, v. 8; ecc.) e la seconda (nella quale dominano verbi al presente: m’odia e fugge, v. 33; passo, v. 38; divengo, v. 40; ecc.), e poi pervade tutto il componimento.

Le scelte stilistiche

Il lungo componimento è un esempio significativo di quella poetica del vago e dell’indefinito più volte teorizzata da Leopardi. Concentrandoci solo sulla prima strofa, lo vediamo già dalla prima parola del testo, vaghe: l’aggettivo, riferito alle stelle, significa “belle” per il loro splendore, ma prima ancora, letteralmente, “vaganti”, “erranti”, poiché esse apparentemente si muovono nella volta celeste. Tale indeterminatezza semantica prosegue anche in alcune espressioni come rana rimota alla campagna (v. 13), dove il senso di indefinita lontananza veicolato dall’aggettivo rimota è rinforzato dalla preposizione articolata alla: Leopardi non sceglie la più ovvia “nella”, e probabilmente non solo per ragioni metriche. Nella stessa direzione va il sintagma là nella selva (v. 17): il luogo specifico è il boschetto nei pressi del monte Tabor (l’«ermo colle» dell’Infinito), che era quasi la continuazione del giardino di casa Leopardi, ma l’espressione ha il sapore di una lontananza quasi leggendaria. Ancora: i pensieri del giovane Leopardi sono immensi (v. 19), il mare lontano (v. 21) e i monti azzurri (v. 21) sempre per la lontananza. Ai vv. 23-24 l’uso dell’aggettivo “arcano” (arcani mondi, arcana / felicità fingendo al viver mio) evidenzia la fusione tra paesaggio esterno e paesaggio interiore.

La riflessione leopardiana sulla caduta delle illusioni e l’espressione della sofferenza interiore che essa provoca vengono rese, sul piano formale, attraverso una serie di espedienti retorici. L’apostrofe iniziale (Vaghe stelle dell’Orsa), umanizzando la natura, chiama i suoi elementi (le stelle) a una partecipazione al dramma intimo del poeta. Quest’ultimo motivo viene fortemente enfatizzato più avanti dalle frasi esclamative (Quante immagini… a voi compagne!, vv. 7-9; O speranze, speranze… della mia prima età!, vv. 77-78; ecc.) e dalle interrogative retoriche (Chi rimembrar vi può… l’accolga e chiami?, vv. 119-130; E qual mortale… è spenta?, vv. 132-135 ecc.). La ripetizione della congiunzione e ai vv. 14-19 rende l’affollarsi dei ricordi nella mente del poeta. Nell’ultima strofa, e in particolare a partire dal v. 148, attraverso una serie di frasi molto brevi (Altro tempo. I giorni tuoi / furo, mio dolce amor. Passasti ecc.) Leopardi cerca di trasmettere l’idea dell’infittirsi dei sospiri provocati dalla rievocazione dolorosa del passato.

VERSO LE COMPETENZE

Comprendere

1 Qual è la ragione dell’infelicità del poeta?


2 Chi è Nerina? Perché l’autore parla di lei?

ANALIZZARE

3 Elenca le apostrofi introdotte dal poeta: chi sono i suoi ideali interlocutori?


4 Rintraccia nella lirica le espressioni con cui Leopardi si riferisce alle illusioni giovanili. Quale idea trasmettono della giovinezza?


5 Evidenzia i punti di passaggio tra passato e presente e viceversa. Perché il poeta tende a oscillare tra i due momenti temporali? Che cosa intende comunicare attraverso questa alternanza?


6 Trova nel testo altri esempi di espressioni vaghe e indefinite, oltre a quelli già segnalati.

INTERPRETARE

7 Quale effetto espressivo ottiene, ai vv. 23-24, la spezzatura, tramite enjambement, del sintagma arcana felicità?


8 A quale scopo il poeta al v. 135 ripete il vocabolo giovanezza?


9 Ai vv. 104-109 Leopardi ricorda di aver concepito in gioventù il pensiero del suicidio. Quali potrebbero essere le ragioni di tale proposito? Rispondi riflettendo sul testo, ma anche pensando a quanto hai appreso sulla biografia del poeta.

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scrivere per...

confrontare

10 Confronta il personaggio di Nerina con quello di Silvia in un testo espositivo di circa 20 righe: quali analogie e quali differenze riscontri?

argomentare

11 È stato notato da alcuni studiosi che i monti azzurri del v. 21 hanno una funzione analoga a quella della siepe dell’Infinito ( T9, p. 68). Sei d’accordo con questa interpretazione? Dopo aver condotto un confronto tra i due canti e il loro contenuti generali, argomenta la tua risposta in un testo di circa 20 righe.

T14

Canto notturno di un pastore errante dell’Asia

Canti, 23

Scritto tra l’ottobre del 1829 e l’aprile del 1830, è l’ultimo canto pisano-recanatese a essere composto (benché sia collocato nei Canti prima della Quiete dopo la tempesta e del Sabato del villaggio, scritti in precedenza) e approfondisce la meditazione leopardiana sull’essenza della vita umana, facendo parlare in prima persona il personaggio fittizio di un pastore nomade.


METRO Canzone libera di 6 strofe di diversa misura, formate da endecasillabi e settenari liberamente rimati.

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
5      Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
10    la vita del pastore.
Sorge in sul primo albore;
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera:
15    altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
20    il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con gravissimo fascio in su le spalle,
per montagna e per valle,
25    per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
al vento, alla tempesta, e quando avvampa
l’ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anela,
varca torrenti e stagni,
30    cade, risorge, e più e più s’affretta,
senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
colà dove la via
e dove il tanto affaticar fu volto:
35    abisso orrido, immenso,
ov’ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
è la vita mortale.

Nasce l’uomo a fatica,
40    ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
per prima cosa; e in sul principio stesso
la madre e il genitore
il prende a consolar dell’esser nato.
45    Poi che crescendo viene,
l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
con atti e con parole
studiasi fargli core,
e consolarlo dell’umano stato:
50    altro ufficio più grato
non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
perché reggere in vita
chi poi di quella consolar convenga?
55    Se la vita è sventura
perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
è lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
60    e forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
che sì pensosa sei, tu forse intendi,
questo viver terreno,
il patir nostro, il sospirar, che sia;
65    che sia questo morir, questo supremo
scolorar del sembiante,
e perir dalla terra, e venir meno
ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
70    il perché delle cose, e vedi il frutto
del mattin, della sera,
del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
rida la primavera,
75    a chi giovi l’ardore, e che procacci
il verno co’ suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
che son celate al semplice pastore.
Spesso quand’io ti miro
80    star così muta in sul deserto piano,
che, in suo giro lontano, al ciel confina;
ovver con la mia greggia
seguirmi viaggiando a mano a mano;
e quando miro in cielo arder le stelle;
85    dico fra me pensando:
a che tante facelle?
Che fa l’aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensa? ed io che sono?
90    Così meco ragiono: e della stanza
smisurata e superba,
e dell’innumerabile famiglia;
poi di tanto adoprar, di tanti moti
d’ogni celeste, ogni terrena cosa,
95    girando senza posa,
per tornar sempre là donde son mosse;
uso alcuno, alcun frutto
indovinar non so. Ma tu per certo,
giovinetta immortal, conosci il tutto.
100 Questo io conosco e sento,
che degli eterni giri,
che dell’esser mio frale,
qualche bene o contento
avrà fors’altri; a me la vita è male.
105 O greggia mia che posi, oh te beata,
che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d’affanno
quasi libera vai;
110 ch’ogni stento, ogni danno,
ogni estremo timor subito scordi;
ma più perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
tu se’ queta e contenta;
115 e gran parte dell’anno
senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,
e un fastidio m’ingombra
la mente, ed uno spron quasi mi punge
120 sì che, sedendo, più che mai son lunge
da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
e non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
125 non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
dimmi: perché giacendo
130 a bell’agio, ozioso,
s’appaga ogni animale;
me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?
Forse s’avess’io l’ale
da volar su le nubi,
135 e noverar le stelle ad una ad una,
o come il tuono errar di giogo in giogo,
più felice sarei, dolce mia greggia,
più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
140 mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dì natale.

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ANALISI ATTIVA

I contenuti tematici

Nello Zibaldone Leopardi narra di aver letto nel settembre del 1826 sulla rivista scientifica francese “Journal des Savants” il resoconto di un viaggiatore russo nelle steppe dell’Asia centrale, nel quale si raccontava che i pastori kirghisi abitanti in quelle regioni «trascorrono la notte seduti su un sasso a contemplare la luna, e a improvvisare parole molto tristi su arie che non lo sono meno». Da qui derivò con ogni probabilità lo spunto per il componimento, che segna il passaggio dai canti incentrati sul ricordo (come A Silvia) a quelli che si svolgono direttamente attorno a un nucleo di meditazione filosofica, affrontando il tema di un’infelicità esistenziale vista ormai come legge universale.

La tragedia di questa condizione si abbatte così a prescindere dalle sovrastrutture della civiltà e della cultura, essendo incombente sul destino di tutti gli uomini. Per questo il poeta sceglie di affidare il proprio pensiero a un pastore, cioè a un alter ego immerso in un tempo indefinibile, in uno spazio desertico e sterminato, figura estranea ai meccanismi del progresso, testimone di un dolore eterno, cosmico e senza eccezioni, connaturato all’esistenza in quanto tale: anche l’illusione di un armonico e primitivo stato di natura lontano dalla corruzione dei tempi moderni si rivela ormai come un’irrealizzabile utopia.

1. Individua nel testo i riferimenti alla vita nomade del pastore.


2. Quale finale desiderio di felicità viene espresso dal pastore?

Dando la propria voce a un pastore nomade dell’Asia, il poeta rivolge alla luna ansiose domande sul senso della vita umana e sul mistero dell’universo, interrogativi che gli individui si pongono da sempre. L’interrogazione presenta da subito una contraddizione rivelatrice: il dimmi del v. 1, replicato nei vv. 16 e 18, si scontra infatti con il primo attributo conferito alla luna, silenziosa (v. 2); ciò tuttavia non induce al silenzio il pastore, che presuppone nella reticente interlocutrice un sapere a lui ignoto; anzi, tale convinzione si accentua nel corso del canto, in un climax che parte in forma dubitativa per poi giungere a una assoluta certezza: tu forse intendi, v. 62; E tu certo comprendi, v. 69; Tu sai, tu certo, v. 73; Mille cose sai tu, mille discopri, v. 77; Ma tu per certo, / giovinetta immortal, conosci il tutto, vv. 98-99.

Successivamente (vv. 105-132) il pastore si rivolge con la stessa supplica (dimmi, v. 129) al gregge, che ritiene più felice dell’uomo, poiché inconsapevole e dunque libero dal tedio che opprime gli esseri umani raziocinanti quando vengono meno le sensazioni, tanto piacevoli quanto dolorose, e l’animo si ritrova come svuotato dinanzi alla vanità e all’insignificanza dell’esistenza. Infine, nell’ultima strofa, egli immagina una felicità che potrebbe essere possibile se solo la sua condizione fosse diversa (come, per esempio, quella di un astro o di un tuono, che spaziano nel cielo). Ma subito dopo la constatazione della realtà lo porta a concludere che, con ogni probabilità, la vita è funesta per ogni essere, sia esso un individuo o un animale.

3. Quali sono le domande esistenziali che il pastore rivolge alla luna?


4. Quali sono le somiglianze e le differenze che il pastore individua tra la sua vita e quella della luna?


5. Qual è l’atteggiamento del pastore verso la sua greggia?

Le scelte stilistiche

La pretesa del pastore di comunicare con la luna, interpellandola sui grandi quesiti che turbano il suo animo, si rivela ingenua, in quanto irrealizzabile. Quello che, nella sua innocenza, vorrebbe essere un dialogo non è che un monologo, uno sconsolato interrogarsi su sé stesso, situazione di cui peraltro lo stesso pastore sembra a un certo punto prendere coscienza (dico fra me pensando, v. 85; Così meco ragiono, v. 90). Tuttavia il suo canto rimane semplice, quasi monotono sia nel linguaggio sia nella sintassi: per suscitare la reazione della luna, la sollecita in modo infantile ripetendo le domande nel vano tentativo di comprendere (si notino le anafore di Che fai?, due volte al v. 1, e dimmi, ai vv. 1, 16 e 18) e omaggiandola con epiteti diversi (Vergine, v. 37; Intatta, v. 57; solinga, eterna peregrina, v. 61; giovinetta immortal, v. 99). A dispetto della drammaticità dei contenuti, anche la rima in -ale che chiude ogni strofa conferisce al testo l’inflessione di una cantilena.

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6. È possibile affermare che la luna abbia alcune caratteristiche tipiche di una divinità? Quali e perché?


7. Individua, in una strofa a tua scelta, rime, assonanze ed enjambement e rifletti sul ritmo complessivo del componimento.

Per esprimere il carattere assoluto della sofferenza esistenziale, Leopardi insiste in tutto il componimento sulla rappresentazione del cammino come metafora di un disperato tentativo di sfuggire alla natura. Al pastore errante (nell’aggettivo si fondono l’idea del suo nomadismo e l’errore del suo pensiero: O forse erra dal vero, v. 139) si aggiunge l’immagine allegorica del vecchierel bianco (v. 21), destinato a chiudere il proprio faticoso e frenetico viaggio nell’abisso orrido (v. 35) del nulla. Né d’altra parte un movimento fittizio, creato dall’immaginazione, è in grado di produrre un esito diverso da quello stabilito: se anche il pastore, e con lui tutta l’umanità, potesse volare come un uccello sulle nubi o dilagare come un tuono da una cima all’altra dei monti, non potrebbe comunque sottrarsi alla condanna decretata dalla natura e fissata dal poeta con un’ultima, lapidaria e inequivocabile sentenza: È funesto a chi nasce il dì natale (v. 143).

8. Individua nel testo i punti in cui vi sono riferimenti al viaggio della luna e a quello del pastore.


9. Spiega il significato della similitudine che si instaura nella seconda strofa: in particolare, che cos’è l’abisso orrido, immenso (v. 35)?


10. Scrivere per confrontare Il motivo del viaggio collega questo canto al Dialogo della Natura e di un Islandese ( T20, p. 140). Confronta il passo delle Operette morali con questo canto in un testo argomentativo di circa 20 righe.


11. Scrivere per raccontare Leopardi esprime in questo componimento il tedio e il profondo disagio interiore che esso determina. Hai mai provato direttamente questa sensazione oppure conosci qualcuno che ne soffre e che te ne ha parlato? Anche se non hai sperimentato direttamente tale stato d’animo, quale ritieni possa essere un modo per liberarsi dalla cappa di malessere che esso provoca? Motiva la tua risposta in un testo di circa 30 righe.

La luna e i pastori

Due pastori, un uomo e, su un mulo, una donna, spingono un gregge di pecore al crepuscolo, mentre il cielo è già rischiarato da una falce di luna. L’autore di questo poetico disegno a pastello è il francese Jean-François Millet (1814-1875), uno dei primi artisti a raffigurare contadini e lavoratori con una nobile dignità fino ad allora sconosciuta, in modo umano e partecipe della loro fatica, con un’attenzione alla vita dei campi e alle sue differenti attività in ogni momento della giornata e in ogni stagione dell’anno. I suoi dipinti però non sono realistici: spesso gli schemi compositivi denunciano matrici classiche o il riferimento a soggetti religiosi. In questo caso, la luce che s’irradia dalla luna diventa quasi mistica e i due pastori assomigliano a Maria e Giuseppe mentre fuggono dal re Erode verso l’Egitto.

Classe di letteratura - Giacomo Leopardi
Classe di letteratura - Giacomo Leopardi