Le opere della maturità

Le opere della maturità

IL MONDO SALVATO DAI RAGAZZINI

Come abbiamo visto, gli anni Sessanta sono anni di grande trasformazione, nella società, nella cultura italiana, e anche nella letteratura: soprattutto i giovani, nel 1968, sono protagonisti di un movimento di protesta e di contestazione, che critica la tradizione e l’autorità. In quell’anno l’autrice pubblica Il mondo salvato dai ragazzini, una raccolta di testi piuttosto eccentrica e difficile da classificare entro le coordinate di un genere preciso, ma composta per lo più da poesie dedicate ai giovani.
I temi sono svariati: il dolore per la morte di un amico, l’esperienza dei paradisi artificiali e delle droghe, l’idea della poesia e dell’arte letteraria come soluzione alle tensioni disgreganti della realtà, la distinzione tra i «Felici Pochi» che riconoscono la realtà affidandosi alla bellezza del sogno e dell’immaginazione e gli «Infelici Molti», ossia i potenti, i cinici e tutti gli indifferenti che governano il mondo e che hanno perso l’ingenuità e la spontaneità.

LA STORIA

Iniziato nel 1971, nel 1974 esce La Storia, pubblicato da Einaudi in edizione economica per volontà della stessa Morante, affinché fosse accessibile a un vasto numero di lettori. Si tratta di un romanzo storico, ambientato tra il 1941 e il 1947, durante la Seconda guerra mondiale e l’inizio del dopoguerra. La struttura dell’opera è particolare: a ogni capitolo l’autrice antepone un resoconto degli avvenimenti storici che fanno da cornice ai fatti narrati.
L’ispirazione è legata a un fatto di cronaca: il ritrovamento, in un appartamento del quartiere romano di Testaccio, di una madre impazzita, del figlioletto morto e di una cagna furiosa. L’opera realizza l’intento della scrittrice di raccontare le brevi esistenze di coloro che vivono ai margini della Storia; tali sono i protagonisti del romanzo: Ida, una maestra di scuola elementare, ebrea per parte di madre, rimasta vedova; i suoi figli Antonio, detto Nino, e Giuseppe, detto Useppe; i cani Blitz e Bella.
La trama Un giorno del gennaio 1941, Ida viene seguita da un giovane soldato tedesco in partenza per l’Africa (dove poi morirà), che le usa violenza. Rimasta incinta, partorirà il piccolo Useppe nel Ghetto, assistita da un’ostetrica ebrea.
In seguito ai bombardamenti del quartiere di San Lorenzo, la famiglia è costretta a riparare in un capannone alla periferia di Roma dove, in un unico stanzone, vivrà fino alla fine della guerra. Qui, una notte, si presenta un giovane, Carlo Vivaldi, che instaura un legame d’amicizia con Nino. Egli rivela le sue idee anarchiche e la sua vera identità (è in realtà un ebreo di nome Davide Segre) solo dopo essere diventato un partigiano. Terminata la guerra, Ida e Useppe fanno ritorno in città: il bambino, di un’intelligenza e d’una vivacità fuori del comune, è però affetto da epilessia, malattia che lo porta alla morte a soli sei anni. Nel frattempo, anche Nino e Davide Segre muoiono, il primo vittima di un incidente stradale, il secondo, con ogni probabilità, in seguito a un’overdose di barbiturici. Ida sopravvive ai propri figli, ma è ormai lontana dal mondo e dalla vita.

Un romanzo controverso Il romanzo consegna al lettore una visione tragica e fatalistica della Storia: il fine dell’autrice, realizzato nella Storia con maggiore respiro che negli altri romanzi, è trovare le parole per raccontare l’orrore. Al tempo stesso, tuttavia, l’opera è anche una testimonianza della forza d’animo e del desiderio di felicità dei suoi protagonisti.
Le reazioni della critica sono però fredde, se non dichiaratamente ostili. Il dibattito che si sviluppa sui giornali e sulle riviste di sinistra stigmatizza la mancanza di impegno ideologico del libro; in particolare, si denuncia il suo pessimismo e la sfiducia nelle possibilità di cambiare il corso degli eventi. Lo scrittore Pier Paolo Pasolini, amico di Elsa Morante, le rimprovera lo stile manieristico nella costruzione dei personaggi e nelle scelte linguistiche (una riproduzione goffa e poco convincente del dialetto romanesco).

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ARACOELI

Nel 1976 Elsa Morante comincia Aracoeli (che uscirà nel 1982), il suo quarto e ultimo romanzo, per la cui stesura si reca più volte in Andalusia. Protagonista e narratore dell’opera è Manuel, un omosessuale di quarantatré anni ossessionato dalla memoria dell’infanzia e dalla figura della madre spagnola, Aracoeli, andata in sposa giovanissima a un ufficiale dell’esercito italiano. La lingua materna delle nenie e delle canzoni infantili continua a risuonare nella mente del protagonista, che, ormai alle soglie della maturità, rimpiange la perdita della madre insieme a quella della propria giovinezza.
Se l’Isola di Arturo era un romanzo di formazione, qui ci troviamo di fronte a «una Bildung all’inverso» (Rosa): in un viaggio a ritroso nella memoria, Manuel si reca a El Almendral, villaggio d’origine della madre scomparsa, per tentare di ritrovare le tracce di lei bambina e dello zio di cui porta il nome. In modo ancora più intenso e drammatico rispetto ai romanzi precedenti, Aracoeli mette in primo piano la coppia madre-figlio, raccontando attraverso la giustapposizione dei piani temporali e l’uso calibrato del flash back lo splendore dell’infanzia e la discesa agli inferi rappresentata dall’età adulta.

T3

Il bombardamento di San Lorenzo

La Storia, cap. 3

Insieme a quelle di Ida e dei suoi figli, La Storia racconta le vicende corali della popolazione romana, costretta ad affrontare la tragedia delle persecuzioni razziali e della guerra. Nel brano che riportiamo è descritto uno degli episodi più terribili per Roma: il bombardamento del quartiere popolare di San Lorenzo, il 19 luglio 1943, che provocò più di tremila morti. L’operazione militare è voluta dagli alleati per fiaccare il morale della popolazione e accelerare la fine del regime (che effettivamente cadrà pochi giorni dopo, il 25 luglio), ma ciò che sta a cuore alla scrittrice non sono tanto le dinamiche della storia politica o militare, quanto i riflessi di quegli eventi sulle persone comuni, le più indifese.

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Audiolettura

Una di quelle mattine Ida, con due grosse sporte al braccio, tornava dalla spesa
tenendo per mano Useppe. Faceva un tempo sereno e caldissimo. Secondo un’abitudine
presa in quell’estate per i suoi giri dentro al quartiere, Ida era uscita,
come una popolana, col suo vestito di casa di cretonne1 stampato a colori, senza
5      cappello, le gambe nude per risparmiare le calze, e ai piedi delle scarpe di pezza
con alta suola di sughero. Useppe non portava altro addosso che una camiciolina
quadrettata stinta, dei calzoncini rimediati di cotone turchino, e due sandaletti di
misura eccessiva (perché acquistati col criterio della crescenza) che ai suoi passi
sbattevano sul selciato con un ciabattio. In mano, teneva la sua famosa pallina
10    Roma2 (la noce Lazio durante quella primavera fatalmente era andata perduta).
Uscivano dal viale alberato non lontano dallo Scalo Merci,3 dirigendosi in via
dei Volsci, quando non preavvisato da nessun allarme, si udì avanzare nel cielo
un clamore d’orchestra metallico e ronzante. Useppe levò gli occhi in alto, e disse:
«Lioplani».4 E in quel momento l’aria fischiò, mentre già in un tuono enorme tutti
15    i muri precipitavano alle loro spalle e il terreno saltava d’intorno a loro, sminuzzato
in una mitraglia di frammenti.
«Useppe! Useppeee!», urlò Ida, sbattuta in un ciclone nero e polveroso che
impediva la vista: «Mà,5 sto qui», le rispose, all’altezza del suo braccio, la vocina
di lui, quasi rassicurante. Essa lo prese in collo, e in un attimo le ribalenarono nel
20    cervello gli insegnamenti dell’UNPA (Unione Nazionale Protezione Antiaerea)
e del Capofabbricato:6 che, in caso di bombe, conviene stendersi al suolo. Ma
invece il suo corpo si mise a correre senza direzione. Aveva lasciato cadere una
delle sue sporte, mentre l’altra, dimenticata, le pendeva ancora al braccio, sotto al
culetto fiducioso di Useppe. Intanto, era incominciato il suono delle sirene. Essa,
25    nella sua corsa, sentì che scivolava verso il basso, come avesse i pattini, su un terreno
rimosso che pareva arato, e che fumava. Verso il fondo, essa cadde a sedere,
con Useppe stretto fra le braccia. Nella caduta, dalla sporta le si era riversato il suo
carico di ortaggi, fra i quali, sparsi ai suoi piedi, splendevano i colori dei peperoni,
verde, arancione e rosso vivo.
30    Con una mano, essa si aggrappò a una radice schiantata,7 ancora coperta di terriccio
in frantumi, che sporgeva presso di lei. E assestandosi meglio, rannicchiata
intorno a Useppe, prese a palparlo febbrilmente in tutto il corpo, per assicurarsi
ch’era incolume. Poi gli sistemò sulla testolina la sporta vuota come un elmo di
protezione.
35    Si trovavano in fondo a una specie di angusta trincea, protetta nell’alto, come
da un tetto, da un grosso tronco d’albero disteso. Si poteva udire in prossimità,
sopra di loro, la sua chioma caduta agitare il fogliame in un gran vento. Tutto
all’intorno, durava un fragore fischiante e rovinoso nel quale, fra scrosci, scoppiettii
vivaci e strani tintinnii, si sperdevano deboli e già da una distanza assurda voci
40    umane e nitriti di cavalli. Useppe, accucciato contro di lei, la guardava in faccia,
di sotto la sporta, non impaurito, ma piuttosto curioso e soprapensiero. «Non è
niente», essa gli disse, «non aver paura. Non è niente». Lui aveva perduto i sandaletti
ma teneva ancora la sua pallina stretta nel pugno. Agli schianti più forti, lo
sentiva appena appena tremare:
45    «Niente…», diceva poi, fra persuaso e interrogativo.
I suoi piedini nudi si bilanciavano quieti accosto8 a Ida, uno di qua e uno di là.
Per tutto il tempo che aspettarono in quel riparo, i suoi occhi e quelli di Ida rimasero,
intenti, a guardarsi. Lei non avrebbe saputo dire la durata di quel tempo. Il
suo orologetto da polso si era rotto; e ci sono delle circostanze in cui, per la mente,
50    calcolare una durata è impossibile.
Al cessato allarme, nell’affacciarsi fuori di là, si ritrovarono dentro una immensa
nube pulverulenta che nascondeva il sole, e faceva tossire col suo sapore di
catrame: attraverso questa nube, si vedevano fiamme e fumo nero dalla parte dello
Scalo Merci. Sull’altra parte del viale, le vie di sbocco erano montagne di macerie,
55    e Ida, avanzando a stento con Useppe in braccio, cercò un’uscita verso il piazzale
fra gli alberi massacrati e anneriti. Il primo oggetto riconoscibile che incontrarono
fu, ai loro piedi, un cavallo morto, con la testa adorna di un pennacchio nero, fra
corone di fiori sfrante.9 E in quel punto, un liquido dolce e tiepido bagnò il braccio
di Ida. Soltanto allora, Useppe avvilito si mise a piangere: perché già da tempo
60    aveva smesso di essere così piccolo da pisciarsi addosso.
Nello spazio attorno al cavallo, si scorgevano altre corone, altri fiori, ali di gesso,
teste e membra di statue mutilate. Davanti alle botteghe funebri, rotte e svuotate,
di là intorno, il terreno era tutto coperto di vetri. Dal prossimo cimitero, veniva un
odore molle, zuccheroso e stantio; e se ne intravedevano, al di là delle muraglie
65    sbrecciate, i cipressi neri e contorti. Intanto, altra gente era riapparsa, crescendo in
una folla che si aggirava come su un altro pianeta. Certuni erano sporchi di sangue.
Si sentivano delle urla e dei nomi, oppure: «anche là brucia!», «dov’è l’ambulanza?!». 
Però anche questi suoni echeggiavano rauchi e stravaganti, come in una corte
di sordomuti. La vocina di Useppe ripeteva a Ida una domanda incomprensibile,
70    in cui le pareva di riconoscere la parola casa: «Mà, quando torniamo a casa?». La
sporta gli calava giù sugli occhietti, e lui fremeva adesso, in una impazienza feroce.
Pareva fissato in una preoccupazione che non voleva enunciare, neanche a se stesso:
«mà?… casa?…», seguitava ostinata la sua vocina. Ma era difficile riconoscere le
strade familiari. Finalmente, di là da un casamento semidistrutto, da cui pendevano
75    i travi e le persiane divelte, fra il solito polverone di rovina, Ida ravvisò, intatto,
il casamento con l’osteria, dove andavano a rifugiarsi le notti degli allarmi. Qui
Useppe prese a dibattersi con tanta frenesia che riuscì a svincolarsi dalle sue braccia
e a scendere in terra. E correndo coi suoi piedini nudi verso una nube più densa di
polverone, incominciò a gridare:
80    «Bii! Biii! Biiii!!».10
Il loro caseggiato era distrutto. Ne rimaneva solo una quinta,11 spalancata sul
vuoto. Cercando con gli occhi in alto, al posto del loro appartamento, si scorgeva,
fra la nuvolaglia del fumo, un pezzo di pianerottolo, sotto a due cassoni dell’acqua
rimasti in piedi. Dabbasso delle figure urlanti o ammutolite si aggiravano fra
85    i lastroni di cemento, i mobili sconquassati, i cumuli di rottami e di immondezze.
Nessun lamento ne saliva, là sotto dovevano essere tutti morti. Ma certune di quelle
figure, sotto l’azione di un meccanismo idiota, andavano frugando o raspando
con le unghie fra quei cumuli, alla ricerca di qualcuno o qualcosa da recuperare. E
in mezzo a tutto questo, la vocina di Useppe continuava a chiamare:
90    «Biii! Biiii! Biiiii!».
Blitz era perduto, insieme col letto matrimoniale e il lettino e il divanoletto e la
cassapanca, e i libri ▶ squinternati di Ninnuzzu,12 e il suo ritratto a ingrandimento,
e le pentole di cucina, e il tessilsacco13 coi cappotti riadattati e le maglie d’inverno,
e le dieci buste di latte in polvere, e i sei chili di pasta, e quanto restava dell’ultimo
95    stipendio del mese, riposto in un cassetto della credenza.
«Andiamo via! andiamo via!», disse Ida, tentando di sollevare Useppe fra le
braccia. Ma lui resisteva e si dibatteva, sviluppando una violenza inverosimile,
e ripeteva il suo grido: «Biii!» con una pretesa sempre più urgente e perentoria.14
Forse reputava che, incitato a questo modo, per forza Blitz dovesse rispuntare scodinzolando
100  di dietro qualche cantone, da un momento all’altro,
E trascinato via di peso, non cessava di ripetere quell’unica e buffa sillaba,
con voce convulsa per i singulti. «Andiamo, andiamo via», reiterava Ida. Ma veramente
non sapeva più dove andare. L’unico asilo che le si presentò fu l’osteria,
dove già si trovava raccolta parecchia gente, così che non c’era posto da sedersi.
105  Però una donna anziana, vedendola entrare col bambino in braccio, e riconoscendoli,
all’aspetto, per sinistrati,15 invitò i propri vicini a restringersi, e le fece
posto accanto a sé su una panca.
Ida affannava,16 lacera, con le gambe graffiate, e imbrattata fin sulla faccia di un
nerume unticcio, nel quale si distinguevano le ditate minuscole lasciatele da Useppe
110  nell’appendersi al suo collo. Appena la vide accomodata alla meglio sulla panca,
la donna le domandò sollecita: «Siete di queste parti?» E all’annuire silenzioso
di Ida, le fece sapere: «Io no; vengo da Mandela».17 Si trovava qui a Roma di passaggio,
come ogni lunedì, per vendere i suoi prodotti: «Sono una rurale», precisò.
Qui all’osteria doveva aspettare un suo nipote, il quale, come ogni lunedì, l’aveva
115  accompagnata per aiutarla e al momento dell’attacco aereo si trovava in giro per la
città, chi sa dove. Correva voce che per questo bombardamento ci s’erano impiegati
diecimila apparecchi,18 e che l’intera città di Roma era distrutta:19 anche il Vaticano,
anche Palazzo Reale, anche Piazza Vittorio e Campo dei Fiori. Tutto a fuoco.
«Chi sa dove si trova a quest’ora mio nipote? chi sa se ancora funziona il treno
120  per Mandela?».
Era una donna sui settant’anni, ma ancora in salute, alta e grossa, con la carnagione
rosata e due buccole20 nere agli orecchi. Teneva sui ginocchi una canestra
vuota con dentro un cércine21 sciolto; e pareva disposta ad aspettare il nipote, là
seduta con la canestra, magari per altri trecento anni, come il bramano22 della
125  leggenda indù.
Vedendo la disperazione di Useppe che ancora andava chiamando il suo Bi
con voce sempre più smorzata e fioca, tentò di divertirlo facendogli dondolare
innanzi una crocetta di madreperla che portava al collo, appesa a un cordoncino:
«Bi bi bi pupé!23 Che dici, eh, che dici?».
130  Ida le spiegò a bassa voce in un balbettio che Blitz era il nome del cane, rimasto
fra le macerie della loro casa.
«Ah, cristiani e bestie, crepare è tutta una sorte», osservò l’altra, muovendo
appena la testa con placida rassegnazione. Poi rivolta a Useppe, piena di gravità
matriarcale e senza smorfie, lo confortò col discorso seguente:
135  «Non piangere pupé, che il cane tuo s’è messo le ali, è diventato una palombella,
e è volato in cielo».
Nel dirgli questo, essa mimò, con le due palme alzate, il bàttito di due ali.
Useppe, che credeva a tutto, sospese il pianto, per seguire con interesse il piccolo 
movimento di quelle mani, che frattanto
140  erano ridiscese sulla canestra, e là stavano,
in riposo, con le loro cento rughe annerite
dal terriccio.
«L’ali? pecché l’ali?».
«Perché è diventato una palombella24
145  bianca».
«Palommella bianca», assentì Useppe,
esaminando attentamente la donna con gli
occhi lagrimosi25 che già principavano a sorridere,
«e che fa, là, mò?».
150  «Vola, con tante altre palombelle».
«Quante?».
«Tante! tante!».
«Quante??».
«Trecentomila».
155  «Tentomila sono tante?».
«Eh! più d’un quintale!!».
«Sono tante! Sono tante! eh! Ma là, che fanno?».
«Volano, se la spassano. Beh».
«E le dòndini26 pure, ci stanno? E pure i vavalli, ci stanno?».
160  «Ci stanno».
«Pure i vavalli?».
«Pure i cavalli».
«E loro pure, ci volano?».
«E come, se ci volano!».
165  Useppe le volse un sorrisetto. Era tutto coperto di polvere nerastra e di sudore,
da parere uno spazzacamino. I ciuffetti neri dei suoi capelli, tanto erano impastati,
gli stavano dritti sulla testa. La donna, all’osservare che i suoi piedini facevano
sangue da qualche graffio, autorevolmente chiamò un soldato entrato a cercare
dell’acqua, e lo incaricò di medicarglieli. E lui subì la rapida medicazione senza
170  neanche badarci, tanto era distratto dalla fortunata carriera di Blitz.
Quando il soldato finì di medicarlo, lui distrattamente gli fece addio con la
mano. I suoi due pugnetti adesso erano vuoti: anche la pallina Roma s’era persa. Di
lì a poco, nel suo abbigliamento lurido e calzoncini bagnati, Useppe dormiva. La
vecchia di Mandela, da quel punto in poi, tacque.
175  Nella cantina, era incominciato un andirivieni di gente: il locale puzzava di folla
e delle zaffate che venivano dall’esterno. Ma, al contrario che nelle notti degli
allarmi, non c’era confusione, né urti, né vocìo. La maggior parte dei presenti si
guardavano in faccia inebetiti senza dire nulla. Molti avevano i vestiti a pezzi e bruciacchiati,
certuni sanguinavano. Da qualche parte di fuori, fra un rumorio sterminato
180  e incoerente ogni tanto pareva di distinguere dei rantoli, oppure si levava d’un
tratto qualche urlo feroce, come da una foresta in fiamme. Cominciavano a circolare
le ambulanze, i carri dei pompieri, le truppe a piedi armate di badili e di picconi.
Qualcuno aveva visto giungere anche un camion pieno di bare.

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ANALISI ATTIVA

I contenuti tematici

La mattina del 19 luglio 1943, nel pieno della Seconda guerra mondiale, gli Alleati angloamericani bombardano Roma. Il quartiere di San Lorenzo, strategico per la presenza dello scalo ferroviario, viene pressoché completamente raso al suolo. Più della cronaca e della Storia, la letteratura restituisce il vivo senso degli eventi: il lettore, in base al racconto del narratore onnisciente, viene proiettato, insieme a Ida e Useppe, nel mezzo della tragedia. Possiamo così sentire anche noi i disperati e soffocati richiami dei sopravvissuti, come in una corte di sordomuti (rr. 68-69); vediamo, sconvolte e sgomente, figure urlanti o ammutolite (r. 84) che, prive di senno per il terrore e l’angoscia, sotto l’azione di un meccanismo idiota, andavano frugando o raspando con le unghie fra quei cumuli (rr. 87-88). Né il papa né il re sono riusciti a proteggere la Città eterna: in pochi istanti, la pioggia di bombe ha trasformato il ridente quartiere in un cimitero a cielo aperto dove, nel crollo delle case e delle tombe, nessuna differenza sussiste più tra i vivi e i morti.

1. Da che cosa è annunciato il bombardamento?

2. Dove riescono a trovare rifugio Ida e Useppe?

Lo sguardo del narratore si concentra sul tenero Useppe, del quale vengono registrate affettuosamente le reazioni di fronte ai tragici, e per lui incomprensibili, accadimenti. Al festoso stupore per la comparsa dei Lioplani (r. 14), segue l’infantile serenità del bimbo che avverte, pur nel disastro, la presenza protettiva della madre: a lei, ben consapevole e atterrita dal pericolo, Useppe risponde con vocina quasi rassicurante (r. 19); egli sta buono, accucciato contro il corpo materno, senza mostrare paura o preoccupazione, continuando a tenere in mano la sua pallina.
Al cessato allarme (r. 51), però, una misteriosa consapevolezza si insinua nel suo cuore: la vista del cavallo morto, nei pressi del cimitero, rompe qualcosa in lui, che non riesce più a trattenersi e bagna il braccio della madre. È un crescendo di angoscia: l’oscuro presentimento della morte si affaccia alla coscienza del bambino che, davanti alle macerie della propria casa, nello straziante richiamo al cagnolino tanto amato, dà sfogo alla propria profonda disperazione.

3. Come si comporta Useppe durante il bombardamento?

4. Ricostruisci il crescendo di dolore e angoscia di Useppe, assegnando un numero progressivo ai passi del testo.
  •    La vocina di Useppe ripeteva a Ida una domanda incomprensibile, in cui le pareva di riconoscere la parola casa: «Mà, quando torniamo a casa?».
  •    E correndo coi suoi piedini nudi verso una nube più densa di polverone, incominciò a gridare:«Bii! Biii! Biiii!».
  •    E in quel punto, un liquido dolce e tiepido bagnò il braccio di Ida.
  •    Useppe prese a dibattersi con tanta frenesia che riuscì a svincolarsi dalle sue braccia e a scendere in terra.
  •    E trascinato via di peso, non cessava di ripetere quell’unica e buffa sillaba, con voce convulsa per i singulti.
  •    E in mezzo a tutto questo, la vocina di Useppe continuava a chiamare: «Biii! Biiii! Biiiii!».
  •    Lui fremeva adesso, in una impazienza feroce. Pareva fissato in una preoccupazione che non voleva enunciare, neanche a se stesso: «mà?… casa?…», seguitava ostinata la sua vocina.
  •    Ma lui resisteva e si dibatteva, sviluppando una violenza inverosimile, e ripeteva il suo grido: «Biii!» con una pretesa sempre più urgente e perentoria.

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Ida appare, dopo il bombardamento, esausta e come svuotata: ha protetto istintivamente il figlio ma ora, di fronte alla perdita dei suoi miseri averi, veramente non sapeva più dove andare (rr. 102-103). Nel disorientamento, le sue reazioni sono ridotte, quasi ovattate: non capisce la semplice domanda del figlio (Useppe ripeteva a Ida una domanda incomprensibile, r. 69), o non gli sa rispondere, come isolata nell’automatismo con cui ripete andiamo, andiamo via (r. 102). Senza parlare, replica con un annuire silenzioso (r. 111) o in un balbettio (r. 130) all’anziana di Mandela che, impietosita, le offre un posto nel rifugio dell’osteria.
Al muto sbigottimento di Ida, che non sa trovare parole per consolare Useppe, il narratore contrappone la calma eloquenza della vecchia contadina: custode autorevole di una saggezza antica, che vede serenamente la morte come una sorte (r. 132) comune a tutti, la vecchia di Mandela racconta, con gravità matriarcale e senza smorfie (rr. 133-134), la fiabesca metamorfosi di Blitz in bianca palombella (rr. 135-136). Le parole e i gesti della donna, seguiti da un incantato Useppe, riconducono quell’evento tragico alle eterne trasformazioni della vita: nell’atmosfera improvvisamente arcaica e solenne, come di un rito o di una buona magia, la morte si presenta al bambino sorridente come una meravigliosa trasfigurazione della vita.

5. Che cosa ha fatto Ida per proteggere il figlio durante il bombardamento (più risposte possibili)?

Le scelte stilistiche

Lo stile narrativo del brano è caratterizzato dalla precisione delle descrizioni e dalla ricchezza dei dettagli. Ida viene rappresentata in modo oggettivo dallo sguardo esterno del narratore onnisciente*: lei, maestra elementare che prima della guerra non avrebbe mai rinunciato al decoro dell’abbigliamento, ora, nelle circostanze eccezionali del conflitto, scende in strada con i vestiti di casa, senza calze e con scarpe di pezza. Anche se l’autrice non rinuncia a introdurre nella narrazione alcuni elementi lirici, come il discorso insieme consolatorio e fantasioso che la vecchia rurale rivolge al piccolo Useppe, e simbolici, come la contrapposizione tra i colori della morte (il nero della terra smossa e il grigio del fumo) e quelli della vita (verde, arancione e rosso vivo, r. 29, vale a dire i colori della quotidianità), con La Storia Elsa Morante si allontana dalla dimensione favolistica e memoriale delle opere precedenti, optando invece per un romanzo di saldo impianto realista, basato su un’osservazione attenta del contesto storico e sociale e che si adegua ai modi e alle strutture tipici della narrativa ottocentesca.

6. Quali effetti determina la scelta dell’autrice di affidare la narrazione a una voce onnisciente?

Il narratore esprime il proprio affetto per Useppe attraverso l’uso sovrabbondante di diminutivi e vezzeggiativi. L’empatia per il piccolo giunge alla trascrizione diretta del suo linguaggio, in cui la pronuncia infantile (Lioplani, r. 14; dòndini, r. 159; vavalli, r. 159) si mescola al romanesco e all’italiano regionale (, r. 18; , r. 149; ci stanno, r. 159), con effetti di comicità e di pathos al tempo stesso. Accanto alla lingua felice dell’infanzia, però, abbiamo anche le parole adulte, che dicono, senza meraviglia, il duro valore economico delle cose. Ecco allora che, di fronte al caseggiato crollato, il narratore assume il punto di vista di Ida, elencando, minuziosamente, i poveri beni perduti: le suppellettili (il divanoletto e la cassapancarr. 91-92), gli abiti (i cappotti riadattati e le maglie d’inverno, r. 93), il cibo e i denari (le dieci buste di latte in polvere, e i sei chili di pasta, e quanto restava dell’ultimo stipendio del mese, rr. 94-95). In questo preciso e asciutto elenco di piccole cose, il lettore sente lo sconforto dell’attonita Ida, e tutta la tragedia dei sinistrati (r. 106), gli umili e i poveri, donne e bambini, vecchie e soldati, ai quali va l’addolorata compassione di chi narra.

7. Individua, nel testo, tutti i diminutivi e i vezzeggiativi riferiti a Useppe.

8. SCRIVERE PER ESPORRE Traccia un ritratto di Ida a partire dalle informazioni ricavabili dal brano in un testo descrittivo di circa 10 righe.

9. SCRIVERE PER CONFRONTARE Confronta la descrizione del bombardamento di San Lorenzo di Elsa Morante con quella del bombardamento di Adrianopoli di Filippo Tommaso Marinetti ( T2, p. 98), evidenziando le differenze sia sul piano stilistico, sia per quanto attiene alla visione ideologica dei due autori nei confronti della guerra. Scrivi un testo argomentativo di circa 30 righe.

Classe di letteratura - volume 3B
Classe di letteratura - volume 3B
Dalla Prima guerra mondiale a oggi