T2 - Un regno incantato

T2

Un regno incantato

L’isola di Arturo

Arturo, il narratore e protagonista, è nato a Procida, piccola isola nel Golfo di Napoli, dove ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza. Ora è cresciuto e rievoca, da adulto, lo scenario che ha fatto da sfondo alla sua giovinezza.

Le isole del nostro arcipelago,1 laggiù, sul mare napoletano, sono tutte belle.
Le loro terre sono per grande parte di origine vulcanica; e, specialmente in vicinanza
degli antichi crateri, vi nascono migliaia di fiori spontanei, di cui non rividi
mai più i simili sul continente.2 In primavera, le colline si coprono di ginestre:
5      riconosci il loro odore selvatico e carezzevole, appena ti avvicini ai nostri porti,
viaggiando sul mare nel mese di giugno.
Su per le colline verso la campagna, la mia isola ha straducce solitarie chiuse
fra muri antichi, oltre i quali si stendono frutteti e vigneti che sembrano giardini
imperiali. Ha varie spiagge dalla sabbia chiara e delicata, e altre rive più piccole,
10    coperte di ciottoli e conchiglie, e nascoste fra grandi scogliere. Fra quelle rocce torreggianti,3
che sovrastano l’acqua, fanno il nido i gabbiani e le tortore selvatiche,
di cui, specialmente al mattino presto, s’odono le voci, ora lamentose, ora allegre.
Là, nei giorni quieti, il mare è sereno e fresco, e si posa sulla riva come una rugiada.
Ah, io non chiederei d’essere un gabbiano, né un delfino; mi accontenterei
15    d’essere uno scòrfano,4 ch’è il pesce più brutto del mare, pur di ritrovarmi laggiù,
a scherzare in quell’acqua.
Intorno al porto, le vie sono tutte vicoli senza sole, fra le case rustiche, e antiche
di secoli, che appaiono severe e tristi, sebbene tinte di bei colori di conchiglia,
rosa o cinereo.5 Sui davanzali delle finestruole,6 strette quasi come feritoie,7
20    si vede qualche volta una pianta di garofano, coltivata in un barattolo di latta;
oppure una gabbietta che si direbbe adatta per un grillo, e rinchiude una tortora
catturata. Le botteghe sono fonde e oscure come tane di briganti. Nella caffetteria
del porto, c’è un fornello di carboni su cui la padrona fa bollire il caffè alla turca,8
dentro una cùccuma9 smaltata di turchino. La padrona è vedova da parecchi anni,
25    e porta sempre l’abito nero di lutto, lo scialle nero, gli orecchini neri. La fotografia
del defunto è sulla parete, a lato della cassa, cinta di festoni di foglie polverose.
L’oste, nella sua bottega, ch’è di faccia al monumento di Cristo Pescatore, alleva
un gufo, legato, per una catenella, a un’asse che sporge in alto dal muro. Il gufo
ha piume nere e grigie, delicate, un elegante ciuffetto in testa, palpebre azzurre, e
30    grandi occhi d’un color d’oro-rosso, cerchiati di nero; ha un’ala sempre sanguinante,
perché lui stesso continua a straziarsela10 col becco. Se tendi la mano a fargli un
lieve solletico sul petto, curva verso di te la testolina, con una espressione 
meravigliata.
Al calar della sera, incomincia a dibattersi, prova a staccarsi a volo,11 e ricade,
35    ritrovandosi qualche volta ▶ starnazzante a testa in giù, appeso alla sua catenella.
Nella chiesa del porto, la più antica dell’isola, vi sono delle sante di cera,12
alte meno di tre palmi,13 chiuse in teche di vetro. Hanno sottane di vero merletto,
ingiallite, mantiglie14 stinte di broccatello,15 capelli veri, e dai loro polsi pendono
minuscoli rosari di vere perle. Sulle loro piccole dita, di un pallore mortuario, le
40    unghie sono accennate da un segno filiforme, rosso.
Nel nostro porto non attraccano quasi mai quelle imbarcazioni eleganti, da
sport o da crociera, che popolano sempre in gran numero gli altri porti dell’arcipelago;
vi vedrai delle chiatte16 o dei barconi mercantili, oltre alle barche da pesca
degli isolani. Il piazzale del porto, in molte ore del giorno, appare quasi deserto;
45    sulla sinistra, presso la statua di Cristo Pescatore, una sola carrozzella da nolo17
aspetta l’arrivo del piroscafo di linea, che si ferma da noi pochi minuti, e sbarca
in tutto tre o quattro passeggeri, per lo più gente dell’isola. Mai, neppure nella
buona stagione, le nostre spiagge solitarie conoscono il chiasso dei bagnanti che,
da Napoli e da tutte le città, e da tutte le parti del mondo, vanno ad affollare le
50    altre spiagge dei dintorni. E se per caso uno straniero scende a Procida, si meraviglia
di non trovarvi quella vita promiscua e allegra, feste e conversazioni per le
strade, e canti, e suoni di chitarra e mandolini, per cui la regione di Napoli è conosciuta
su tutta la terra. I Procidani sono scontrosi, taciturni. Le porte sono tutte
chiuse, pochi si affacciano alle finestre, ogni famiglia vive fra le sue quattro mura,
55    senza mescolarsi alle altre famiglie. L’amicizia, da noi, non piace. E l’arrivo di un
forestiero non desta curiosità, ma piuttosto diffidenza. Se esso fa delle domande,
gli rispondono di malavoglia; perché la gente, nella mia isola, non ama d’essere
spiata nella propria segretezza.
Sono di razza piccola, bruni, con occhi neri allungati, come gli orientali. E si
60    direbbero tutti parenti fra di loro, tanto si rassomigliano. Le donne, secondo l’usanza
antica, vivono in clausura come le monache. Molte di loro portano ancora
i capelli lunghi attorcigliati, lo scialle sulla testa, le vesti lunghe, e, d’inverno, gli
zoccoli, sulle grosse calze di cotone nero; mentre che d’estate certune vanno a
piedi nudi. Quando passano a piedi nudi, rapide, senza rumore, e schivando gli
65    incontri, si direbbero delle gatte selvatiche o delle faine.
Esse non scendono mai alle spiagge; per le donne, è peccato bagnarsi nel mare,
e perfino vedere altri che si bagnano, è peccato.
Spesso, nei libri, le case delle antiche città feudali, raggruppate e sparse per la
valle e sui fianchi della collina, tutte in vista del castello che le domina dalla vetta
70    più alta, sono paragonate a un gregge intorno al pastore. Così, anche a Procida,
le case, da quelle numerose e fitte giù al porto, a quelle più rade su per le colline,
fino ai casali18 isolati della campagna, appaiono, da lontano, proprio simili a un
gregge sparso ai piedi del castello. Questo si leva sulla collina più alta, (la quale fra
le altre collinette, sembra una montagna); e, allargato da costruzioni sovrapposte
75    e aggiunte attraverso i secoli, ha acquistato la mole d’una cittadella19 gigantesca.
Alle navi che passano al largo, soprattutto la notte, non appare, di Procida, che
questa mole oscura, per cui la nostra isola sembra una fortezza in mezzo al mare.
Da circa duecento anni, il castello è adibito a penitenziario: uno dei più vasti,
credo, di tutta la nazione. Per molta gente, che vive lontano, il nome della mia
80    isola significa il nome d’un carcere.
Sul lato di ponente che guarda il mare, la mia casa è in vista del castello; ma
a una distanza di parecchie centinaia di metri in linea d’aria, al di là di numerosi
piccoli golfi da cui, la notte, si staccano le barche dei pescatori con le lampàre20 accese.
La lontananza non lascia distinguere le inferriate delle finestruole, né il viavai
85    dei secondini21 intorno alle mura; così che, soprattutto l’inverno, quando l’aria
è brumosa22 e le nubi in cammino gli passano davanti, il penitenziario potrebbe
sembrare un maniero abbandonato, come se ne trovano in tante città antiche.
Una rovina fantastica,23 abitata solo dai serpi, dai gufi e dalle rondini.

 >> pagina 745 

DENTRO IL TESTO

I contenuti tematici

Come se si trovasse sulla cima di un’altura e osservasse il paesaggio che si spalanca sotto i suoi occhi, seguendo una prospettiva estremamente mobile, il lettore è accompagnato dalla voce narrante a esplorare l’isola. Da un primo sguardo, in lontananza, a tutte le isole del nostro arcipelago (r. 1) e alla loro flora, lussureggiante e profumata, la prospettiva si restringe alla sola Procida, di cui sorvoliamo le stradine di campagna oltre i cui muri si stendono frutteti e vigneti (r. 8), le spiagge dalla sabbia chiara e delicata (r. 9), le scogliere torreggianti (rr. 10-11) abitate da uccelli e da creature marine; esploriamo l’interno delle botteghe e della chiesa, e osserviamo l’abitato a volo d’uccello.
Come in un film, si alternano dettagli ravvicinati e visioni panoramiche: il garofano nel barattolo di latta (r. 20) da un lato e la mole oscura (r. 77) vista dalle navi che passano al largo (r. 76) dall’altro; la cùccuma smaltata di turchino (r. 24) della caffetteria e l’insieme delle case, da lontano, proprio simili a un gregge (rr. 72-73). Ne risulta così una rappresentazione insieme minuziosa e complessiva: nella memoria, Arturo ripercorre i luoghi della sua infanzia con la vivacità del bambino che è stato.

Ripensando alla sua isola, Arturo mescola, nell’immaginazione, percezioni reali e trasfigurazione fantastica. I frutteti, le botteghe, le casette dell’isola diventano, nella sua accesa fantasia, ora giardini imperiali (rr. 8-9), ora tane di briganti (r. 22), ora le case delle antiche città feudali (r. 68). Gli stessi abitanti, gli scontrosi procidani ben noti a chi parla, si trasformano nel ricordo in una stirpe esotica, dagli occhi neri allungati, come gli orientali (r. 59).
Sembra dunque che l’Arturo adulto abbia conservato pressoché intatta la sbrigliata fantasia della sua fanciullezza: la realtà, infatti, gli appare come una fiaba, o un mito, o un’antica leggenda. Il culmine della trasformazione riguarda il castello: l’edificio, immenso e senza tempo, domina il villaggio. Arturo lo rivede, attraverso il mare notturno fiabescamente punteggiato di lampàre (r. 83), da una lontananza che non permette di distinguerne i particolari, che pure egli conosce. Per questa lontananza, soprattutto nelle nebbie dell’inverno, la rocca si tramuta in una sorta di gotico maniero abbandonato (r. 87), una rovina fantastica (r. 88) dalla potente e misteriosa suggestione.

 >> pagina 746 

Arturo ricorre con insistenza a un aggettivo: i crateri spenti dei vulcani, dai quali è sorto l’arcipelago, sono antichi (r. 3), come antichi (r. 8) sono i muri delle strade e le case del villaggio, addirittura antiche di secoli (rr. 17-18). E poi la chiesa, la più antica dell’isola (r. 36), e il castello, dalla mole cresciuta attraverso i secoli (r. 75). E come l’abitato ricorda le antiche città feudali (r. 68), così le donne di Procida, dedite alla casa, seguono l’usanza antica (rr. 60-61) nelle superstizioni, negli abiti e nelle acconciature.
In che epoca siamo? È difficile capirlo: nell’isola, infatti, è come se il tempo si fosse fermato. La tecnologia è arretrata (c’è la carrozzella, r. 45; c’è il fornello di carboni, r. 23), la società è ancora costituita da contadini e pescatori. E c’è l’oste, c’è la vedova della caffetteria: figure senza tempo di un mondo arcaico, diffidente e chiuso, lontano dalle rotte del turismo, che portano i bagnanti (r. 48) e la vita promiscua e allegra (r. 51) della modernità su altre spiagge. Estranea ai traffici e al progresso, l’isola diventa, per Arturo, qualcosa di assoluto, il simbolo fatato dell’origine.

Le scelte stilistiche

Arturo vuole coinvolgere tutti i sensi del lettore. I bei colori di conchiglia, rosa o cinereo (rr. 18-19) delle casette stimolano la vista; le voci, ora lamentose, ora allegre (r. 12) delle tortore sollecitano l’udito; l’olfatto è colpito dall’odore selvatico e carezzevole (r. 5) delle ginestre; il tatto percepisce la sabbia delicata (r. 9) delle spiagge.
Ma la lingua che Elsa Morante fa utilizzare al narratore si accende, soprattutto, di forti emozioni. Vediamo, con i diminutivi e i vezzeggiativi, la tenerezza del ricordo: le straducce (r. 7), le finestruole (r. 19). Frequenti similitudini vogliono spiegare l’eccezionale paesaggio dell’isola, dove il mare si posa come una rugiada (rr. 13-14), dove le finestre sono strette come feritoie (r. 19), dove le donne stanno rinchiuse come le monache (r. 61). La pungente nostalgia di quel luogo perduto, infine, stringe il cuore di Arturo fino all’esclamazione: Ah, io non chiederei d’essere un gabbiano, né un delfino (r. 14), dice il narratore, che sarebbe felice di essere il pesce più brutto del mare, pur di nuotare ancora, spensieratamente, nelle acque chiare dell’isola natìa.

VERSO LE COMPETENZE

COMPRENDERE

1 Riassumi il brano in circa 5 righe.

ANALIZZARE

2 Quali oggetti vengono menzionati nella descrizione dell’isola e dei suoi abitanti? Quale idea della vita sull’isola trasmettono?

3 Individua nel testo i numerosi paragoni, sia sotto forma di similitudine sia espressi secondo altre modalità espressive. Quale tono contribuiscono a conferire alla descrizione?

INTERPRETARE

4 Che cosa distingue i procidani dagli altri abitanti della zona di Napoli? Questa loro caratteristica è presentata come positiva o negativa?

SCRIVERE PER...

DESCRIVERE
5 Riscrivi la descrizione dell’isola di Procida, ribaltandola completamente e quindi offrendone una rappresentazione opposta. Fai attenzione all’uso dei contrari (massimo 20 righe).

Classe di letteratura - volume 3B
Classe di letteratura - volume 3B
Dalla Prima guerra mondiale a oggi