La narrativa

La narrativa

Spinto dall’esigenza di raggiungere un pubblico più vasto, Pasolini affianca presto a quella in versi una produzione in prosa, di tipo sia narrativo sia saggistico. Dopo le prime prove – Atti impuri e Amado mio, due brevi racconti autobiografici editi postumi nel 1982, ma scritti già alla fine della guerra – sono proprio i romanzi a dargli fama e celebrità, nonché il primo periodo di benessere economico dopo anni molto travagliati.

Il sogno di una cosa

I giorni del lodo De Gasperi avrebbe dovuto intitolarsi un romanzo scritto da Pasolini tra il 1948 e il 1949. Uno dei suoi nuclei narrativi era costituito dai violenti scontri tra latifondisti e braccianti, con i primi ostinati a resistere al lodo De Gasperi (un decreto legge del 1947 che imponeva ai proprietari terrieri di assumere la manodopera disoccupata) e i secondi determinati invece a richiederne la piena attuazione.

Il romanzo si intitolerà invece Il sogno di una cosa e sarà pubblicato soltanto nel 1962. L’espressione deriva da una frase di Karl Marx, riportata in epigrafe al libro: «Il nostro motto dev’essere dunque: riforma della coscienza non per mezzo di dogmi, ma mediante l’analisi della coscienza non chiara a se stessa, o si presenti sotto forma religiosa o politica. Apparirà allora che il mondo ha da lungo tempo il sogno di una cosa…».

La trama e lo stile In realtà nel romanzo i fatti legati al lodo De Gasperi sono soltanto una parte (seppure collocata in posizione centrale) della materia narrativa, che vede come protagonisti tre ragazzi friulani, Nini, Eligio e Milio. Viste le difficoltà economiche in cui si trovano a vivere nella loro terra, Nini ed Eligio emigrano clandestinamente nella vicina Iugoslavia, in cerca di lavoro. Ma la loro situazione non migliora e, anzi, i due fanno la fame. Milio emigra poi in Svizzera, e il racconto di quest’altra esperienza è condotto in uno stile vicino al parlato, tanto che possiamo intravedere qui un’anticipazione di quelle che saranno le scelte linguistiche più caratteristiche dei romanzi romani.

Ragazzi di vita

Ragazzi di vita (1955) è il romanzo in cui Pasolini riversa la propria conoscenza del sottoproletariato romano, sviluppata a partire dal suo trasferimento nella capitale all’inizio del 1950.

Storia e società L’arco temporale coperto dalle vicende narrate è quello del dopoguerra a Roma «dal caos pieno di speranze dei primi giorni della liberazione alla reazione del ’50-51» (come scrive Pasolini nel 1954 in una lettera al suo editore, Livio Garzanti). Questa realtà storico-sociale è colta e rappresentata in presa diretta: da qui l’andamento quasi cinematografico del racconto.

Un romanzo corale È la storia di un gruppo di ragazzi di borgata, tra i quali emerge il personaggio del Riccetto, sul quale si concentra maggiormente l’attenzione del narratore. Stenteremmo però a definirlo il protagonista del romanzo, perché Ragazzi di vita è un’opera dominata da una sostanziale forza centrifuga, in virtù della quale contano soprattutto una coralità di personaggi e un insieme di episodi, capaci di definire, con la loro successione, un ambiente, un luogo, una realtà sociale, più che una vicenda unitaria con un inizio, uno svolgimento e una fine (struttura di fatto assente). Per questo potrebbe essere definito un romanzo a episodi, visto che un vero e proprio intreccio non c’è.

I «ragazzi di vita» sono giovani nati e vissuti in un ambiente sociale privo di certezze: non c’è la sicurezza del lavoro, ma neanche quella della casa e della famiglia. Gli adulti sono ostili, abbrutiti dalla fatica e dalle frustrazioni; il rapporto tra le generazioni è segnato da una sorda e rancorosa ostilità reciproca. In assenza del cerchio protettivo degli affetti, i ragazzi sono costretti a crescere in fretta, a imparare presto ad arrangiarsi, a vivere di espedienti.

 >> pagina 688

Le interpretazioni Ragazzi di vita è stato letto in vari modi, dando origine a interpretazioni tra loro discordanti. Una prima chiave di lettura è quella legata alla tradizione della narrativa picaresca: la provvisorietà materiale, l’instabilità morale, la capacità di improvvisare soluzioni ai problemi concreti che di volta in volta si presentano, la soggezione agli istinti primari della fame, del sonno, del sesso, la gioia di vivere all’aria aperta, per le strade, il gusto per una libertà scelta e rivendicata come la propria condizione naturale, la tendenza a trasgredire l’etica sociale e religiosa (con il furto, la truffa, la prostituzione) sono tutte caratteristiche che i ragazzi pasoliniani hanno in varia misura in comune con i picari del Siglo de Oro spagnolo.

Un’altra chiave di lettura è quella del romanzo di formazione: il Riccetto cresce, e crescendo matura, sebbene tale maturazione non sia vista con occhio positivo da Pasolini, che la interpreta come sinonimo di corruzione, di perdita di quell’innocenza infantile che rendeva speciale il personaggio. Si tratta dunque di una formazione che è piuttosto, per così dire, una deformazione. Quella di Riccetto peraltro è una maturazione tutta particolare. Non segue le tappe tradizionali della pedagogia borghese, con i suoi luoghi e le sue istituzioni: la famiglia, la scuola, la Chiesa. È invece una formazione che avviene tramite una sorta di “pedagogia della strada”, fatta della capacità di sfruttare le occasioni che si presentano, occasioni spesso criminali, visto che il lavoro non è contemplato tra le possibilità: lavorare significherebbe rinunciare irrimediabilmente alla propria libertà, sentita come il bene più prezioso, anzi forse proprio l’unico che si possiede.

Una terza chiave di lettura è quella del romanzo sociale. In effetti la rappresentazione delle borgate offre uno spaccato decisamente istruttivo delle realtà di povertà e di emarginazione su cui all’epoca le istituzioni e l’opinione pubblica preferivano tenere gli occhi chiusi. Il processo per oscenità che Pasolini dovette affrontare per questo libro era legato probabilmente anche al fastidio che una fascia della borghesia provava nel vedere raccontata apertamente una realtà di indigenza e degrado che era più comodo fingere di non vedere.

Lo stile Lo stile del romanzo si muove efficacemente fra italiano e dialetto, quest’ultimo utilizzato soprattutto (ma non solo) nei dialoghi. Non si tratta tanto dell’utilizzo di una lingua letterariamente documentata (il romanesco di poeti come Belli o Trilussa), quanto di quella tipica di una certa malavita di quartiere, un lessico gergale contaminato dai dialetti del Sud della recente migrazione interna. È, insomma, il “romanaccio”, il romanesco parlato nelle borgate: una lingua ridotta all’essenziale, fatta spesso di interiezioni e caratterizzata da un esteso ricorso al turpiloquio. Tale lingua non è solo documento umano, ma precisa scelta di poetica, già oltre il Neorealismo.

Una vita violenta

Coscienza di classe Più lineari sono la struttura e la trama del romanzo Una vita violenta (1959), storia della presa di coscienza di classe da parte di un ragazzo di borgata, Tommaso Puzzilli, che acquista consapevolezza politica passando attraverso la successiva adesione ad alcuni dei principali partiti degli anni Cinquanta: prima il Movimento sociale, poi la Democrazia cristiana e infine il Partito comunista. Sarà proprio in virtù dell’adesione agli ideali solidaristici del comunismo – sembra volerci dire l’autore tra le righe – che il ragazzo, già minato dalla tubercolosi, metterà a repentaglio la propria vita per salvare quella di una prostituta travolta dalla tracimazione del fiume Aniene.

 >> pagina 689

L’impasse ideologica Appare un po’ posticcia la conclusione del romanzo, incentrata su uno sprezzo del pericolo e su una generosità strettamente connessi alla nuova fede ideologica. La morte di Tommasino – che avviene in seguito all’aggravarsi delle sue condizioni di salute dopo che si è gettato nelle gelide acque dell’Aniene per salvare la donna che rischiava di annegare – sancisce la santificazione laica del personaggio: al rosso della bandiera comunista fa ora pendant il rosso del sangue che gli macchia la canottiera, simbolo del suo sacrificio. L’epilogo del romanzo sottolinea l’impasse ideologica di Pasolini: la salvezza del personaggio «è in questa morte “eroica”, non in un paziente futuro di lavoro e impegno politico» (Mannino).

Teorema

Teorema è un’opera duplice: il libro con questo titolo esce nel marzo del 1968 e contemporaneamente hanno inizio le riprese dell’omonimo film, poi presentato al Festival di Venezia di quell’anno. In realtà il romanzo è assai spoglio dal punto di vista stilistico, rappresentando una sorta di sceneggiatura in forma narrativa del lungometraggio.

La trama Il titolo ha a che fare con l’assunto di partenza (ipotesi) da cui discenderebbero necessariamente alcune specifiche conseguenze (tesi): se in una famiglia borghese irrompesse una visita inattesa e misteriosa, questa famiglia finirebbe per disintegrarsi. La famiglia alto-borghese (ma ideologicamente e psicologicamente piccolo-borghese) rappresenta la borghesia non come classe sociale storicamente determinata ma come condizione generale dello spirito: sinonimo, cioè, di bieca razionalità e di spento grigiore quotidiano, routine abitudinaria dei rapporti e vuoto formalismo dei comportamenti.

Nella fattispecie, l’avvento di un Ospite (scritto con l’iniziale maiuscola in quanto il nome comune sostituisce quello proprio del personaggio) in una famiglia milanese produce un autentico terremoto. Seducendo tutti quanti – madre, padre, due figli, oltre alla domestica – attraverso l’esperienza di una sessualità trasgressiva, mette in crisi le loro certezze e li spinge all’autodistruzione quando, all’improvviso come è arrivato, se ne va.

Petrolio

L’ultimo romanzo, uscito postumo nel 1992 in forma incompiuta, si intitola Petrolio. Sappiamo che l’autore lo ha composto tra il 1972 e il 1975 e che ci stava ancora lavorando al momento della morte. Qualcuno ha anche avanzato l’ipotesi che determinati contenuti del testo, compromettenti per certe persone, sarebbero stati all’origine della decisione di ambienti della politica, della finanza o della grande industria di assassinare Pasolini, eliminando così un testimone scomodo e pericoloso.

Un metaromanzo incompiuto Il libro si presenta nella forma di una bozza costituita da 133 «Appunti», articolati in due parti intrecciate tra loro: «Mistero» e «Progetto». È un testo che diventa spesso metaromanzo per la presenza di ripetute riflessioni dell’autore sul proprio fare letteratura, di note critiche e filologiche a piè di pagina, di appelli al lettore tra ironia e sarcasmo.

Petrolio, nelle intenzioni di Pasolini, avrebbe dovuto presentarsi come una sorta di edizione critica di un’opera frammentaria commentata dal suo stesso autore: cosa che effettivamente accadrà, anche se in forma incompiuta, perché Pasolini nel frattempo sarà morto.

 >> pagina 690 

L’assenza di una trama Protagonista del romanzo è Carlo Valletti, ingegnere della buona borghesia torinese, cattolico e insieme comunista, in carriera all’Eni (Ente nazionale idrocarburi): un dato, quest’ultimo, che rimanda a un personaggio storicamente esistito, Enrico Mattei, che aveva avviato le ricerche petrolifere nella Pianura Padana e che, da presidente dell’Eni (carica ricoperta dal 1953), aveva ricercato accordi diretti con i paesi del Medio Oriente produttori di petrolio e anche con l’Unione Sovietica. Nel 1962 Mattei era morto in un incidente aereo, di cui non è mai stata accertata la causa. Secondo alcuni si trattò di un attentato, le cui motivazioni andrebbero ricercate nella sua volontà di sottrarsi all’egemonia delle maggiori compagnie petrolifere statunitensi.

In realtà a tali dati storici Pasolini allude soltanto, in quest’opera magmatica e fantasiosa, apocalittica e visionaria, di cui è impossibile riassumere la trama (perché, di fatto, una vera e propria trama è assente), che ha sullo sfondo complotti politici e affaristici, il mondo del petrolio (con le crisi dei mercati come quella dell’inverno del 1974-1975), i servizi segreti statunitensi e il potere mafioso, gli intrallazzi politici italiani e la situazione mediorientale, le due fasi della “strategia della tensione” (nella lettura pasoliniana, la prima organizzata dall’Msi per contrastare l’avanzata delle sinistre, la seconda organizzata dalle stesse forze di governo per ridimensionare il ruolo dello stesso Msi).

T2

La maturazione del Riccetto

Ragazzi di vita, capp. 1 e 8

Del primo romanzo romano di Pasolini riportiamo due passi: la conclusione del capitolo iniziale e l’epilogo dell’ultimo. Nel primo brano il Riccetto, ancora ragazzo, è sul Tevere, in una barca, a giocare con alcuni amici. Nel secondo, ormai cresciuto, si trova invece a essere spettatore, sulle rive dell’Aniene, di un evento tragico: un ragazzo, Genesio, tenta la traversata a nuoto, ma viene travolto dalla corrente, annegando sotto lo sguardo angosciato dei due fratellini, Mariuccio e Borgo Antico.

Il Riccetto continuava a starsene disteso, senza dar retta ai nuovi venuti,1 ammusato,2

sul fondo allagato della barca, con la testa appena fuori dal bordo: e continuava 

sempre a far finta di essere al largo, fuori dalla vista della terraferma. «Ecco

li pirata!» gridava con le mani a imbuto sulla sua vecchia faccia di ladro uno dei

5      trasteverini, in piedi in pizzo alla barca:3 gli altri continuavano scatenati a cantare.

A un tratto il Riccetto si voltò su un gomito, per osservare meglio qualcosa che

aveva attratto la sua attenzione, sul pelo dell’acqua, presso la riva, quasi sotto le

arcate di Ponte Sisto. Non riusciva a capir bene cosa fosse. L’acqua tremolava, in

quel punto, facendo tanti piccoli cerchi come se fosse sciacquata da una mano: e

10    difatti nel centro vi si scorgeva come un piccolo straccio nero.

«Ched’è»,4 disse allora rizzandosi in piedi il Riccetto. Tutti guardarono da quella

parte, nello specchio d’acqua quasi ferma, sotto l’ultima arcata. «È na rondine,

vaffan…», disse Marcello.5 Ce n’erano tante di rondinelle, che volavano rasente 

i muraglioni, sotto gli archi del ponte, sul fiume aperto, sfiorando l’acqua con il 

15    petto. La corrente aveva ritrascinato un poco la barca indietro, e si vide infatti c’era 

proprio una rondinella che stava affogando. Sbatteva le ali, zompava.6 Il Riccetto 

era in ginocchioni sull’orlo della barca, tutto proteso in avanti. «A stronzo, nun 

vedi che ce fai rovescià?», gli disse Agnolo. «An vedi», gridava il Riccetto, «affoga!». 

Quello dei trasteverini che remava restò coi remi alzati sull’acqua e la corrente 

20    spingeva piano la barca indietro verso il punto dove la rondine si stava sbattendo. 

Però dopo un po’ perdette la pazienza e ricominciò a remare. «Aòh, a moro», gli 

gridò il Riccetto puntandogli contro la mano, «chi t’ha detto de remà?». L’altro 

fece schioccare la lingua con disprezzo e il più grosso disse: «E che te frega». Il 

Riccetto guardò verso la rondine, che si agitava ancora, a scatti, facendo frullare di 

25    botto7 le ali. Poi senza dir niente si buttò in acqua e cominciò a nuotare verso di 

lei. Gli altri si misero a gridargli dietro e a ridere: ma quello dei remi continuava 

a remare contro corrente, dalla parte opposta. Il Riccetto s’allontanava, trascinato 

forte dall’acqua: lo videro che rimpiccioliva, che arrivava a bracciate fin vicino alla 

rondine, sullo specchio d’acqua stagnante, e che tentava ▶ d’acchiapparla. «A Riccettooo», 

30    gridava Marcello con quanto fiato aveva in gola, «perché nun la piji?». Il
Riccetto dovette sentirlo, perché si udì appena la sua voce che gridava: «Me pùncica!».8 
«Li mortacci tua»,9 gridò ridendo Marcello. Il Riccetto cercava di acchiappare
la rondine, che gli scappava sbattendo le ali e tutti e due 
ormai erano trascinati
verso il pilone dalla corrente che lì sotto si faceva forte e piena 
di mulinelli. «A

35     Riccetto», gridarono i compagni dalla barca, «e lassala perde!». Ma in quel momento 

il Riccetto s’era deciso ad acchiapparla e nuotava con una mano verso la 

riva. «Torniamo indietro, daje», disse Marcello a quello che remava. Girarono. Il

Riccetto li aspettava seduto sull’erba sporca della riva, con la rondine tra le mani. 

«E che l’hai sarvata a ffà», gli disse Marcello, «era così bello vedella che se moriva!». 

40    Il Riccetto non gli rispose subito. «È tutta fracica»,10 disse dopo un po’, «aspettamo 

che s’asciughi!». Ci volle poco perché s’asciugasse: dopo cinque minuti era là che
rivolava tra le compagne, sopra il Tevere, e il Riccetto ormai non la distingueva più
dalle altre.

***

Genesio allora s’alzò all’impiedi, si stirò un pochetto, come non usava fare mai, e

45    poi gridò: «Conto fino a tre e me butto». Stette fermo, in silenzio, a contare, poi

guardò fisso l’acqua con gli occhi che gli ardevano sotto l’onda nera11 ancora tutta

ben pettinata; infine si buttò dentro con una panciata. Arrivò nuotando alla svelta

fin quasi al centro, proprio nel punto sotto la fabbrica, dove il fiume faceva la curva

svoltando verso il ponte della Tiburtina. Ma lì la corrente era forte, e spingeva

50    indietro, verso la sponda della fabbrica: nell’andata Genesio era riuscito a passare

facile il correntino, ma adesso al ritorno era tutta un’altra cosa. Come nuotava lui,

alla cagnolina, gli serviva a stare a galla, non a venire avanti: la corrente, tenendolo

sempre nel mezzo, cominciò a spostarlo in giù verso il ponte.

«Daje, a Genè», gli gridavano i fratellini da sotto il trampolino, che non capivano

55    perché Genesio non venisse in avanti, «daje che se n’annamo!».12

Ma lui non riusciva a attraversare quella striscia che filava tutta piena di schiume,

di segatura e d’olio bruciato, come una corrente dentro la corrente gialla del fiume.

Ci restava nel mezzo, e anziché accostarsi alla riva, veniva trascinato sempre in giù

verso il ponte. Borgo Antico e Mariuccio col cane scapitollarono13 giù dalla gobba 

60    del trampolino, e cominciarono a correre svelti, a quattro zampe quando non 

potevano con due, cadendo e rialzandosi, lungo il fango nero della riva, andando 

dietro a Genesio che veniva portato sempre più velocemente verso il ponte. Così il 

Riccetto, mentre stava a fare il dritto con la ragazza che però continuava, confusa 

come un’ombra, a strofinare le lastre,14 se li vide passare tutti e tre sotto i piedi, i due 

65    piccoli che ruzzolavano gridando tra gli sterpi, spaventati, e Genesio in mezzo al

fiume, che non cessava di muovere le braccine svelto svelto nuotando a cane, senza 

venire avanti di un centimetro. Il Riccetto s’alzò, fece qualche passo ignudo come 

stava giù verso l’acqua, in mezzo ai pungiglioni e lì si fermò a guardare quello che 

stava succedendo sotto i suoi occhi. Subito non si capacitò, credeva che scherzassero; 

70    ma poi capì e si buttò di corsa giù per la scesa,15 scivolando, ma nel tempo stesso

vedeva che non c’era più niente da fare: gettarsi nel fiume lì sotto il ponte voleva 

proprio dire esser stanchi della vita, nessuno avrebbe potuto farcela. Si fermò pallido 

come un morto. Genesio ormai non resisteva più, povero ragazzino, e sbatteva 

in disordine le braccia, ma sempre senza chiedere aiuto. Ogni tanto affondava sotto 

75    il pelo della corrente e poi risortiva16 un poco più in basso; finalmente quand’era 

già quasi vicino al ponte, dove la corrente si rompeva e schiumeggiava sugli scogli, 

andò sotto per l’ultima volta, senza un grido, e si vide solo ancora un poco affiorare 

la sua testina nera.

Il Riccetto, con le mani che gli tremavano, s’infilò in fretta i calzoni, che teneva

80    sotto il braccio, senza più guardare verso la finestrella della fabbrica, e stette 

ancora un po’ lì fermo, senza sapere che fare. Si sentivano da sotto il ponte Borgo 

Antico e Mariuccio che urlavano e piangevano, Mariuccio sempre stringendosi 

contro il petto la canottiera e i calzoncini di Genesio; e già cominciavano a salire 

aiutandosi con le mani su per la scarpata.

85    «Tajamo,17 è mejo», disse tra sé il Riccetto 

che quasi piangeva anche lui, incamminandosi

in fretta lungo il sentiero, verso la Tiburtina; 

andava quasi di corsa, per arrivare sul ponte 

prima dei due ragazzini. «Io je vojo bene ar 

90    Riccetto, sa!»,18 pensava. S’arrampicò scivolando, 

e aggrappandosi ai monconi dei cespugli 

su per lo scoscendimento coperto di polvere e 

di sterpi bruciati, fu in cima, e senza guardarsi

indietro, imboccò il ponte.

 >> pagina 693

DENTRO IL TESTO

I contenuti tematici

Nel primo episodio il Riccetto si butta dalla barca, a proprio rischio e pericolo (la corrente del fiume potrebbe portarlo via), per salvare una rondinella finita in acqua. Questo comportamento potrebbe essere ritenuto piuttosto inverosimile da un punto di vista sociologico: la preoccupazione del Riccetto per le sorti della povera rondinella risulta in effetti alquanto improbabile, data la rappresentazione d’insieme del personaggio.

Lo psicanalista e saggista Aldo Carotenuto ha offerto però una suggestiva interpretazione dell’episodio: «Tutto ciò che vola e che appartiene all’aria esprime, nella simbologia psicologica, un elemento spirituale, qualcosa che è capace di elevarsi da terra, dalla superficie delle cose. Tuffandosi in acqua e salvando la rondine, Riccetto compie un gesto che lo eleva dalla squallida condizione in cui ordinariamente si trova»

Tra il primo e il secondo brano sono passati sei anni. Il Riccetto, che prima aveva quattordici anni, ora ne ha venti: da ragazzo che era, è diventato uomo, ha un lavoro, è inserito nella società. Se nel primo brano egli è pronto a rischiare la vita per aiutare un animaletto, nel secondo, di fronte all’annegamento di Genesio, non è certo indifferente, anzi è addolorato (quasi piangeva anche lui, r. 86); probabilmente ha anche preso in considerazione, almeno per un momento, l’ipotesi di buttarsi e di tentare il tutto per tutto al fine di salvare il povero Genesio, ma poi prevalgono l’istinto di autoconservazione, il calcolo, una certa prudenza: Io je vojo bene ar Riccetto, sa! (rr. 89-90). Nelle ultime righe del testo, oltre a non aver prestato soccorso, il Riccetto si allontana veloce dal luogo in cui Genesio è affogato. Perché lo fa? Nel corso delle vicende raccontate nel romanzo è stato per un certo tempo in carcere: nella sua situazione – avrà pensato – è sempre meglio non avere a che fare con le forze dell’ordine, neppure in qualità di testimone di una morte accidentale.
Quello della morte di ragazzi e giovani uomini è un motivo affrontato da Pasolini sempre all’insegna di una sobria commozione, dai toni quasi elegiaci. Da un punto di vista narratologico, aggiungiamo che se i «ragazzi di vita» sono i protagonisti del romanzo, la morte potrebbe essere vista come la loro vera antagonista. A proposito della ricorrenza ossessiva di questo motivo si potrebbe sottolineare come esso si leghi, per così dire, all’incapacità di Pasolini di seguire i suoi personaggi oltre la soglia dell’età adulta. O, meglio, al suo disinteresse nei confronti del mondo adulto, che gli appare tanto corrotto quanto quello dell’infanzia e dell’adolescenza gli appare puro. In altre parole, facendo morire i suoi giovani personaggi, è come se li salvasse dalla degenerazione a cui, crescendo, sarebbero inevitabilmente destinati. Perché la maturazione equivale alla perdita di caratteristiche positive come la spontaneità e la generosità, sostituite da una più adulta e borghese morale dell’egoismo e dell’autoconservazione.

Le scelte stilistiche

Alla rappresentazione della morte si connette spesso in Ragazzi di vita una tonalità patetica, tesa a suscitare commozione nel lettore. Sono queste le parti del romanzo meno apprezzate da alcuni critici, che le hanno giudicate strappalacrime. Se soprattutto nel secondo brano è innegabile che Pasolini calchi il pedale del pathos (per esempio attraverso l’insistito ricorso ai diminutivi, con valore vezzeggiativo, riferiti alla persona di Genesio: braccine, r. 66; ragazzino, r. 73; testina, r. 78; calzoncini, r. 83), tuttavia un simile giudizio negativo è assai discutibile: più che cercare effetti melodrammatici fini a sé stessi, l’autore non fa altro – qui come in tante pagine del libro – che manifestare profonda simpatia e intima adesione nei confronti del mondo e dei personaggi rappresentati.

Quanto all’aspetto specificamente linguistico, bisogna notare come Pasolini incroci e spesso sovrapponga due universi linguistici, che sono anche due universi psicologici e due punti di vista assai diversi e lontani tra loro: quello dell’autore (raffinato, dotato di una notevole cultura e di una spiccata consapevolezza letteraria) e quello dei personaggi (semplici, incolti, che tendono a esprimersi in maniera rozza ed elementare). In tal modo l’italiano si mescola a un dialetto romanesco fatto di espressioni volgari che spesso sfociano nel turpiloquio (vaffan…, r. 13; A stronzo, r. 17; E che te frega, r. 23; Li mortacci tua, r. 32).
 >> pagina 694

VERSO LE COMPETENZE

Comprendere

1 Riassumi i due brani in circa 5 righe ciascuno.

Analizzare

2 Individua nei due brani alcune frasi chiaramente legate al punto di vista e al modo di esprimersi dell’autore.

Interpretare

A tuo parere, perché nel secondo brano è assente il turpiloquio, che invece abbonda nel primo?

sviluppare il lessico

4 Pasolini sceglie consapevolmente di adottare uno stile e una lingua che riflettano la realtà sociale che descrive. Per questo, oltre a parole ed espressioni in romanesco, nel brano sono presenti tratti linguistici tipici del parlato colloquiale. Riscrivi le espressioni che seguono in un registro linguistico medio-standard.

  • Continuava a starsene disteso 
    ...................................................................................................
  • Senza dar retta ai nuovi venuti
    ...................................................................................................
  • il Riccetto si voltò su un gomito
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  • disse allora rizzandosi in piedi il Riccetto
    ...................................................................................................
  • «E che te frega»
    ...................................................................................................
  • Gli altri si misero a gridargli dietro e a ridere
    ...................................................................................................
  • lo videro che rimpiccioliva
    ...................................................................................................
  • tentava di acchiapparla
    ...................................................................................................

scrivere per...

esporre

5 Traccia in un testo espositivo di circa 20 righe due distinti ritratti psicologici del Riccetto nel primo e nel secondo brano, evidenziando soprattutto analogie e differenze tra i due momenti.

Classe di letteratura - volume 3B
Classe di letteratura - volume 3B
Dalla Prima guerra mondiale a oggi