Povero come un gatto del Colosseo,
vivevo in una borgata tutta calce
e polverone, lontano dalla città
e dalla campagna, stretto ogni giorno
5 in un autobus rantolante:
e ogni andata, ogni ritorno
era un calvario di sudore e di ansie.
Lunghe camminate in una calda caligine,
lunghi crepuscoli davanti alle carte
10 ammucchiate sul tavolo, tra strade di fango,
muriccioli, casette bagnate di calce
e senza infissi, con tende per porte…
Passavano l’olivaio, lo straccivendolo,
venendo da qualche altra borgata,
15 con l’impolverata merce che pareva
frutto di furto, e una faccia crudele
di giovani invecchiati tra i vizi
di chi ha una madre dura e affamata.
Rinnovato dal mondo nuovo,
20 libero – una vampa, un fiato
che non so dire, alla realtà
che umile e sporca, confusa e immensa,
brulicava nella meridionale periferia,
dava un senso di serena pietà.
25 Un’anima in me, che non era solo mia,
una piccola anima in quel mondo sconfinato,
cresceva, nutrita dall’allegria
di chi amava, anche se non riamato.
E tutto si illuminava, a questo amore.
30 Forse, ancora di ragazzo, eroicamente,
e però maturato dall’esperienza
che nasceva ai piedi della storia.
Ero al centro del mondo, in quel mondo
di borgate tristi, beduine,
35 di gialle praterie sfregate
da un vento sempre senza pace,
venisse dal caldo mare di Fiumicino,
o dall’agro, dove si perdeva
la città fra i tuguri; in quel mondo
40 che poteva soltanto dominare,
quadrato spettro giallognolo
nella giallognola foschia,
bucato da mille file uguali
di finestre sbarrate, il Penitenziario
45 tra vecchi campi e sopiti casali.
Le cartacce e la polvere che cieco
il venticello trascinava qua e là,
le povere voci senza eco