Ma sulla porta ci aspettava l’Elvira.15 S’era messa il mantello e aspettava. Era
75 scura,16 nervosa. Mi corse incontro e più rossa del fuoco balbettò senza voce:
«Ci sono i tedeschi».
«Lo so già», volli dirle, ma un suo gesto di prendermi il braccio e tirarmi in disparte
senza nemmeno fare caso a Dino, mi spaventò. Non era rossa per pudore,
aveva gli occhi costernati.17
80 «Sono venuti due tedeschi», disse ansando, «hanno detto il suo nome… Sono
entrati… hanno visto la stanza…».
Fu più che una nausea, mi si disciolsero le gambe. Dissi qualcosa, non uscì la
voce.
«Un’ora fa», disse l’Elvira bassa e rauca, «non sapevo dov’era… non volevo che
85 l’aspettassero… Gli ho scritto su un foglio la scuola e la via. Ci sono andati… Ma
ritornano, ritornano…».
Oggi ancora mi chiedo perché quei tedeschi non mi aspettarono alla villa mandando
qualcuno a cercarmi a Torino. Devo a questo se sono ancora libero, se sono
quassù. Perché la salvezza sia toccata a me e non a Gallo e non a Tono, non a Cate,
90 non so. Forse perché devo soffrire dell’altro? Perché sono il più inutile e non merito
nulla, nemmeno un castigo? Perch’ero entrato quella volta in chiesa? L’esperienza
del pericolo rende vigliacchi ogni giorno di più. Rende sciocchi, e sono al punto
che esser vivo per caso, quando tanti migliori di me sono morti, non mi soddisfa
e non mi basta. A volte, dopo avere ascoltato l’inutile radio, guardando dal vetro le
95 vigne deserte penso che vivere per caso non è vivere. E mi chiedo se sono davvero
scampato.
Quel mattino non stetti a pensare. Un sapore di morte mi riempiva la bocca.
Saltai nel sentiero dietro i bossi;18 dissi all’Elvira sul cespuglio che desse i miei
soldi e il libretto di banca al ragazzo, io correvo ad aspettarlo nella conca delle
100 felci. Dissi a Dino di fare attenzione che non lo seguissero. Gli dissi di andare al
cancello e guardare.
Ai tedeschi, raccomandai all’Elvira, bisognava rispondere che sovente passavo
settimane a Torino e che lei non sapeva dove.
Dino gridò. Disse: «C’è un uomo».
105 Mi appiattii sulla ghiaia bagnata. Tornò l’Elvira e bisbigliò: «Non era niente. Un
carretto che passa».
Allora dissi «Siamo intesi», e mi salvai.
Arrivai tra le felci ch’ero tutto sudato. Non mi sedetti. Passeggiavo avanti e indietro
per sfogarmi. Fra gli alberi spogli s’apriva il grande cielo, leggero, mai visto
110 così. Compresi cos’è il cielo per i carcerati. Quel sapore di sangue che m’empiva la
bocca m’impediva di pensare.
Guardai l’orologio. Mi pentii di aver promesso di aspettare. Quell’attesa era
orribile. Tendevo l’orecchio se sentivo abbaiare dei cani, sapevo che i tedeschi
usano i cani poliziotti. «Purché Belbo non venga a cercarmi», dicevo, «sono capaci
115 di seguirlo».