CRITICI A CONFRONTO - Giovanni Raboni e Alberto Casadei - L’io degli Ossi di seppia e gli oggetti del "male di vivere"

CRITICI A CONFRONTO

Giovanni Raboni e Alberto Casadei

L’io degli Ossi di seppia e gli oggetti del «male di vivere»

Nel suo libro d’esordio, ma anche nelle raccolte successive, Montale si allontana dal Simbolismo per tratteggiare il profilo di un io poetico spaesato, corroso dal dubbio, teso a interrogare instancabilmente le forme del reale, in cerca dell’autenticità nascosta dietro le apparenze.
Giovanni Raboni (1932-2004), importante poeta del secondo Novecento, specifica come Montale in tutta la sua opera esprima la negatività del vivere non in forme filosoficamente astratte o mediante una riflessione generale, bensì tramite la concretezza di ambienti, figure e cose quotidiane, eppure dal valore e dal significato profondissimi. Il critico Alberto Casadei (n. 1963) enfatizza invece l’importanza che ha avuto per Montale, soprattutto negli anni giovanili, la meditazione sulle opere di alcuni filosofi antipositivisti e spiritualisti, riletti però all’insegna di un pensiero più accentuatamente “negativo”.

Giovanni Raboni

A dominare in Montale o, meglio, nel suo mondo espressivo è sin dagli inizi – sin dalle più antiche poesie degli Ossi – una visione radicalmente negativa, una visione tutta interiore e tuttavia capace di proiettare anche al di fuori, sul mondo dei fenomeni e delle apparenze, i sintomi di uno strisciante male e di un’intima, struggente non-voglia di vivere.
Ma attenzione: alla presenza o, meglio, all’immanenza, all’invisibile incombere di questo «male di vivere» (l’espressione, ricordo, viene alla lettera dall’interno degli Ossi, dal primo verso di una poesia famosa, forse persino, verrebbe voglia di dire, troppo famosa: «Spesso il male di vivere ho incontrato...») si accompagna e si intreccia, nella dimensione concreta della macrometafora testuale1 e nelle sue infinite proiezioni e risonanze, una vasta, grandiosa, irresistibile ansia di nominare, di inventariare, di descrivere quello stesso mondo al quale pure si crede così poco, si dà così poca importanza, si accorda così scarsa fiducia. [...]
La negatività dell’universo si popola, dunque, di oggetti enigmaticamente quotidiani, di amuleti che condannano ma anche, a volte, strappano all’inesistenza chi li possiede o entra casualmente o fatalmente in contatto con essi, nonché di presenze salvifiche – angeli o donne angelicate o forse angeli-demoni, «angeli neri» – di cui pochi hanno il privilegio di cogliere la natura e che tracciano misteriose scie di luce nell’angusta, soffocante oscurità del creato. Ed ecco il pessimismo tramutarsi così in sospensione, in attesa, in uno stato non soltanto mentale di cronica, febbrile tensione, la rinuncia alla vita in una sorta di radar o calamita di segnali, in un grandioso, paradossale apparato d’avvistamento e di conquista. [...] Non accade così, d’altronde, anche nella (e con la) poesia di Leopardi?

(Giovanni Raboni, Prefazione a E. Montale, Poesie, Mondadori-Corriere della Sera, Milano 2004)

Alberto Casadei

Lo stile di Montale si lega a un costante “impegno” di tipo esistenziale, quello che egli riconoscerà sempre come l’unico necessario al poeta, il quale deve mirare a far emergere nei suoi testi una verità puntuale, i tratti specifici della condizione umana in sé considerata. Ecco allora che per l’autore degli Ossi non basta più, alla maniera dei vari poeti neoclassici, «fare versi antichi su pensieri nuovi», e nemmeno si tratta di rinnovare incessantemente, alla maniera delle avanguardie. Si deve invece evidenziare lo stato di corrosione in cui si trova il poeta-uomo che scrive dopo la fine di certezze di lunga durata, a cominciare da quelle religiose. Montale tenta di sopperire a questa crisi attraverso un’attenta meditazione riservata, soprattutto nel periodo giovanile, a pensatori o filosofi antipositivisti e aperti invece a forme di spiritualità, eventualmente ricollegabili ad aspetti del cristianesimo: di qui i possibili riscontri fra varie poesie degli Ossi e opere di Henri Bergson o Émile Boutroux,1 lette magari in traduzioni parziali o compendi.
Tuttavia, se la condizione da cui parla l’“io” degli Ossi è quella di coloro che riescono a dire solo «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo», è evidente che le certezze possono ormai essere valutate solo sul versante del negativo. I personali interessi di tipo esistenzialistico-spiritualista del giovane Montale non possono togliere valore a quanto i testi indicano, e cioè la necessità di cercare sì la «maglia rotta nella rete», l’«anello che non tiene», il «fatto che non era necessario», ma senza una speranza forte e comunque partendo da una ben più forte constatazione del manifestarsi ovunque del «male di vivere», espressione ricalcata sul francese mal de vivre per esprimere lo stato perenne di sofferenza esistenziale. Si potrebbe forse affermare che Montale ha accettato le riflessioni di Leopardi e di Schopenhauer e ha letto quelle di pensatori contingentisti o paraesistenzialisti.2 Ma la sua poesia non diventa filosofia, non mira alla sistematicità e non propone una possibile soluzione, se non per interposta persona, ossia mediante un “tu” che, anche quando identificabile, resta sempre in primo luogo l’espressione di sentimenti o esperienze che l’“io” non sa provare o compiere.

(Alberto Casadei, Montale, il Mulino, Bologna 2008)

PER SCRIVERNE
Facendo riferimento alle poesie di Ossi di seppia da te lette e alle indicazioni critiche qui sopra riportate, scrivi un testo che risponda alle seguenti domande:
• In che cosa consiste l’impegno esistenziale montaliano?
• Quale condizione umana tenta di rappresentare?
• Che tipo di visione caratterizza la poesia di Montale fin dagli inizi?
• Come si contrappongono interiorità e mondo esterno, secondo questa visione?
• Di quali oggetti è popolato l’universo montaliano?
• Qual è la loro funzione?

Classe di letteratura - volume 3B
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