T9 - La scoperta dell’eros

T9

La scoperta dell’eros

Ernesto

Ernesto, protagonista del romanzo, lavora come impiegato in un magazzino di granaglie. Nel brano che segue, tratto dalle pagine iniziali dell’opera, egli intrattiene una conversazione con un operaio più anziano, che nel corso del racconto lo condurrà a un’inattesa esperienza sessuale. Le battute del dialogo sono in dialetto triestino.

«Cossa el gà? El sè stanco?».1
«No. Son rabiado».2
«Con chi?».
«Col paron. Con quel strozin.3 Un fiorin e mezo per caricar e scaricar due cari».4
5      «El gà ragion lei».
Questo dialogo (che riporto, come i seguenti, in dialetto; un dialetto un pò5
ammorbidito e con l’ortografia il più possibile italianizzata, nella speranza che il
lettore – se questo racconto avrà mai un lettore – possa tradurlo da sé) si svolgeva
a Trieste, negli ultimissimi anni dell’Ottocento. Gli interlocutori erano un uomo
10    – un bracciante avventizio6 – ed un ragazzo. L’uomo era seduto su un mucchio
di sacchi di farina, in un magazzino di Via …… Portava in testa un grande fazzoletto
rosso, che gli scendeva più giù delle spalle (questo per proteggere il collo
dallo strofinamento dei sacchi). Era un uomo giovane, sebbene apparisse – come
notava Ernesto – un pò stanco; ed il suo aspetto aveva qualcosa di lontanamente
15    zingaresco; ma di uno zingaresco molto attenuato, molto addomesticato. Ernesto
era un ragazzo di sedici anni, praticante di commercio in una ditta che comperava
farina dai grandi mulini dell’Ungheria, e la rivendeva ai fornai della città. Aveva
i capelli castani, riccioluti e leggeri, gli occhi color nocciola (come quelli di certi
cani barboni); camminava alquanto dinoccolato7, con la grazia dell’adolescenza,
20    che si crede sgraziata, e si teme ridicola. In quel momento stava in piedi, appoggiato
alla porta aperta del magazzino, attendendo il ritorno del carro, che doveva
arrivare presto, con l’ultimo carico della giornata, e guardava l’uomo come se lo
vedesse per la prima volta, sebbene, per necessità di lavoro ed anche, un poco, per
simpatia, lo conoscesse e gli parlasse da mesi. L’uomo teneva la testa fra le mani;
25    in attitudine – come pensava Ernesto – affaticata; o – come diceva lui – arrabbiata.
«El gà ragion lei», ripetè Ernesto, «el paron sè proprio un strozin; anca mi8 lo
odio (ma, a guardar bene il ragazzo, pareva improbabile che egli potesse davvero
odiare qualcuno) e quando el me manda in piaza a ciamar9 un omo, e che el me
disi quanto che el vol spender, me sento venir mal. La ciamo sempre lei; ma gò
30    vergogna de offrirghe cussì poco. Sè el lavor che fazo meno volentieri de tuti».10
L’uomo si sciolse dalla sua posa concentrata e guardò con tenerezza Ernesto.
«So», disse, «che el sè bon.11 Se un giorno la diventerà, come che mi ghe auguro,
paron, no la traterà certo chi che lavorerà per lei come me trata mi el suo paron
de adesso. Un fiorin e mezo per tre cari», riprese, «e due omini soli. El se la suga
35    (cava) con poco quel ladro: nol sa cossa che vol dir sfadigar, spezialmente adesso
che scominzia el caldo. Due fiorini per omo saria ancora poco. Se no la ghe fussi
lei, che ghe parlo cussì volentieri, no vederio l’ora che rivi el caro, per finir la giornada
e distirarme12 in t’un leto».
Era una giornata della primavera inoltrata, e la via era piena di sole. Ma, dentro
40    il magazzino, faceva fresco, un fresco umido, che odorava di farina.
«Perché nol se senta?»,13 disse – dopo un breve silenzio – l’uomo. «El se acomodi
qua (ed accennò un posto molto vicino al suo). Se la gà paura de sporcarse, ghe
distiro14 soto el mio sacheto (giacca)». E fece l’atto di prenderlo, perché, nell’attesa
del carro, si era già messo in maniche di camicia.
45    «No ghe sè bisogno», rispose Ernesto. «La farina no lassa sporco; basta una
spolverada e no se vedi più gnente. E pò ghe tegno poco15 che se vedi o no». Impedì
all’uomo di distendere, come voleva, la giacca, e sedette, con un sorriso, accanto
a lui. Anche l’uomo sorrise. Non pareva più né stanco, né arrabbiato.
«Dopo», disse, «se el permeti, ghe neterò mi».16 Stettero un poco in silenzio,
50    guardandosi.
«La sè un bon ragazo», ripetè l’uomo, «e anca», aggiunse, «bel. Cussì bel che sè
un piazer guardarla».
«Mi bel?», rise Ernesto. «Nissun me lo gà mai dito».17
«Gnanca18 sua mama?».
55    «Ela meno de tuti. No me ricordo che la me gabi mai dado un baso,19 né fata
una careza. La diseva sempre, e la disi ancora, che i fioi20 no bisogna viziarli».
«E a lei ghe gavessi piasso che sua mama la basi?».21
«Sì, quando che iero putel.22 Adeso no me importa più. Ma vorio almeno che
la me disessi qualche volta una bona parola».
60    «E no la ghe la disi mai?».
«No, mai», rispose Ernesto; «o assai de raro».
«Che pecà», disse l’uomo, «che sia cussì povero e cussì mal vestido».
«Perché?», chiese Ernesto.
«Perché, se no, me piasessi tanto diventar suo amico; andar qualche domenica
65    a spasso insieme».
«Gnanca mi», disse Ernesto, «son rico. El sa cossa che guadagno?».
«No. Ma lei la gà i genitori che, lori, i sarà richi… Quanto el guadagna?».
«Trenta corone al mese. E devo darghene venti a mia mama. Sè vero che ela
la me vesti (Ernesto portava degli abiti comperati fatti;23 forse – sebbene non lo
70    dicesse volentieri – gli sarebbe piaciuto vestir bene, come, un tempo, certi suoi
compagni di scuola); ma a mi me resta poco».
«Ma intanto la fa pratica».
«No me piasi far l’impiegato», rispose Ernesto; «me piaseria far tuto altro».24
«Cossa, per esempio?».
75    Il ragazzo non rispose alla domanda.
«E come el spendi le diese25 corone che ghe resta? El va de le done?».26 (Queste
ultime parole furono dette come se l’uomo avesse temuto una risposta affermativa).
«No. A le done no ghe penso ancora. Gò deciso de no pensarghe prima de aver
diciaoto-dicianove ani compidi». (Forse aveva dimenticato che, due anni prima,
80    sua madre aveva dovuto licenziare una giovane serva, alla quale Ernesto dava continuamente
noia in cucina. D’allora la povera donna aveva assunto sempre, per
precauzione, delle domestiche vecchie, brutte, deformi: avrebbero formato una
vera collezione di mostri. Del resto, duravano poco: dopo uno o due mesi si licenziavano
o venivano licenziate). «E lei», domandò, «el sè sposado?».
85    L’uomo rise. «Mi no», disse; «son puto.27 No me interessa le babe (donne)».
«Quanti ani el gà?», domandò ancora Ernesto.
«Vintioto… Mostro de più; no sè vero?».
«No so», rispose Ernesto. «Mi ghe ne gò sedici, presto diciasette. Fra un mese».
«Nol vol dirme cossa che el fa de le diese corone che ghe avanza?», insistè l’uomo.
90    «El sè ben curioso», rise Ernesto. «Quele fazo presto a spenderle: un poco in paste,
un poco in teatro. Vado in teatro quasi ogni domenica dopopranzo. Me piasi
assai le tragedie. Lei nol va mai in teatro?».
«Cossa el vol che vado a far in teatro? Son un povero bastardo (trovatello); un
ignorante, che sa apena leger e scriver el suo nome».
95    […]
«Questo e altro ghe gò dito. El sè mato, ma no proprio cativo. Dopo el sciafo28
el me gà regalà un fiorin. Sè già tre ani che el me regala un fiorin ogni setimana;
sta domenica el me ne gà dadi due invece de uno. Forsi el iera pentido; e po, come
che ghe gò dito, el sè più mato che cativo».
100  «Quasi quasi», rise l’uomo, «ghe convegniria far una barufa29 ogni setimana».
«No me piasi le barufe. No per mi, ma per mia mama. La se fa venir ogni volta
mal. La ghe vol assai ben a suo fradel».
«Anca a lei la ghe vol ben; più de quanto che la credi. Come se fa a viverghe
vizin30 e a no volerghe ben?».
105  «Perché el me disi ste robe?».
L’uomo posò una mano sul dorso di quella che il ragazzo teneva distesa sul
sacco. Appariva turbato. «Pecà!», disse; e parve sorpreso e contento che il ragazzo
non avesse ritirato la mano.
«Pecà de cossa?».
110  «De quel che ghe gò dito prima. Che no podemo esser amici, andar a spasso
insieme».
«Per la diferenza de età?».
«No».
«Perché la sè mal vestido? Ghe gò già dito che de ste robe no me importa gnente.
115  Anzi…».
L’uomo tacque a lungo. Pareva in conflitto con sé stesso: quasi volesse dire e
non dire qualcosa. Ernesto sentiva che la mano poggiata sulla sua tremava. Poi
– come chi arrischia il tutto per il tutto – disse all’improvviso, fissando bene il suo
interlocutore negli occhi, e con voce alterata: «Ma el sa cossa che vol dir per un
120  ragazo come lei diventar amico de un omo come mi? Perché, se nol lo sa ancora,
no son mi che voio insegnarghelo». Tacque di nuovo un momento; poi, visto che
il ragazzo era diventato rosso ed abbassava la testa, ma non ritirava la mano, aggiunse,
quasi aggressivo: «El lo sa?».
Ernesto sciolse dalla stretta, che si era fatta più forte, la mano divenuta un pò
125  molle e sudata, e la posò timidamente sulla gamba dell’uomo. Risalì adagio, fino
a sfiorargli appena, e come per caso, il sesso. Poi alzò la testa. Sorrise luminoso, e
guardò l’uomo arditamente in faccia.
Questi sentì uno sbigottimento invaderlo. La saliva gli si era seccata in bocca, e
il cuore gli batteva a fargli male. Ma non seppe dire altro che un «El gà capì?» che
130  pareva rivolto più a sé stesso che al ragazzo.
Ci fu un lungo silenzio, che Ernesto interruppe per il primo.
«Gò capì», disse, «ma… dove?».
«Come dove?», rispose, trasognato, l’uomo. Ernesto pareva più sciolto di lui.
«Per far le robe che no se devi far», – disse, «no bisogna restar soli?».
135  «Certo», rispose l’uomo.
«E lei dove el volessi che restemo soli?», domandò, sottovoce, Ernesto, che aveva
già perso un poco della sua baldanza.
«Stasera in campagna. Conosso un logo…».
«La sera no posso», disse il ragazzo.
140  «Perché? El va a dormir presto?».
«Magari podessi! Pico (casco) del sono. Invece me toca andar alle scole serali».
«E nol le pol saltar una sera?».
«No posso. Me compagna mia mama».
«La gà paura che nol vadi?».
145  «No credo; la sa che no ghe digo bugie. Ma la ciol31 el pretesto de compagnarme
per far un poco de moto. La vol che studio stenografia e tedesco; la disi sempre
che senza el tedesco no se pol far cariera… E po in campagna gaverio32 paura».
«Paura de mi?».
«No. No de lei».
150  «De cossa allora? Se la se vergogna de sti mii vestiti, posso meterme quei de le feste».
«Podaria33 passar qualchidun e véderne».
«No in quel logo che so mi».
«Gaverio paura lo stesso… Perché no qua, in sto magazin?».
«Ma ghe sè sempre gente. E a venir insieme fora de ora (Ernesto aveva le chiavi del
155  magazzino, e l’uomo lo sapeva) se daria sospeto. Per disgrazia, el paron sta proprio de
fazada.34 E sua moglie, che la sè più diavolo de lui, la sè sempre a la finestra».
«Nol pol cercar un pretesto? Far finta, per esempio, de aver dimenticà qualcossa?
Mi, quando che gò de finir un lavor de premura, vegno in ufficio el dopopranzo
prima che sia l’ora de averzer:35 a le due invece che a le tre. Anche per questo
160  el paron me lassa le ciave. Qualche volta resto solo più de un’ora; lei el poderia
sempre dir… Oh, ecco el caro!».
Nel quadrato della porta aperta si videro avanzare prima le teste, poi i corpi di
due robusti cavalli da tiro. Indi apparvero il carro ed il carrettiere a piedi, con le
redini e la frusta in mano. Prima ancora che i cavalli obbedissero all’ordine di fermarsi,
165  un altro uomo, grosso questi e grasso, che era andato a fare il carico, discese
con un salto dai sacchi sui quali stava seduto, come un turco, a gambe incrociate,
e chiamò, in termini d’avvinazzato, il compagno.
«Parleremo dopo», disse l’uomo al ragazzo, in fretta e con voce roca. Si rimise
in testa il fazzoletto, di cui si era liberato durante il dialogo con Ernesto, e s’avviò
170  alla fatica che l’aspettava. Sotto, le gambe gli tremavano un poco.

 >> pagina 233 

DENTRO IL TESTO

I contenuti tematici

In questo brano il narratore racconta il primo approccio dell’uomo (come lo chiama, senza indicarne mai il nome, in tutto il romanzo) al giovane Ernesto, figura che ha diversi tratti in comune con Saba stesso, a partire dal difficile rapporto con la madre e dall’assenza del padre. L’uomo, attratto da Ernesto, gli rivolge dei complimenti (La sè un bon ragazo […] anca […] bel. Cussì bel che sè un piazer guardarla, rr. 51-52; Come se fa a viverghe vizin e a no volerghe ben, rr. 103-104), ma è anche preoccupato di non dichiarare troppo apertamente il proprio interesse nei suoi confronti per i diffusi pregiudizi verso gli omosessuali (Appariva turbato, r. 107; con voce alterata, r. 119). Per parte sua, Ernesto appare dapprima imbarazzato (il ragazzo era diventato rosso ed abbassava la testa, r. 122); poi, superata l’esitazione, mostra spavalderia e audacia (Sorrise luminoso, e guardò l’uomo arditamente in faccia, rr. 126-127), tanto da suggerire all’altro il modo migliore per incontrarsi da soli.

Negli anni in cui viene scritta quest’opera l’omosessualità è oggetto di forte disapprovazione sociale, al punto che l’autore non ha la certezza che il libro venga pubblicato (se questo racconto avrà mai un lettore, r. 8). In una lettera, egli si riferisce a Ernesto con queste parole: «Quello che ho scritto è così bello, così incantevolmente bello». La frase è stata così commentata dallo scrittore Alberto Moravia: «In queste parole noi pensiamo che bisogna leggere piuttosto l’esaltazione di chi è riuscito a vincere sé stesso e a debellare con la verità un antico tabù, che l’autocompiacimento ingenuo di un artista. Se la frase viene modificata così “quello che ho scritto è così vero, così coraggiosamente vero” le parole di Saba diventano oltre che più commoventi anche più significative. Diventano, cioè, una chiave per capire il libro».

Le scelte stilistiche

Ambientato a Trieste, Ernesto è fortemente radicato nei luoghi e nell’epoca in cui si svolgono le vicende, e restituisce un ritratto realistico del mondo del lavoro e delle inquietudini politico-sociali che attraversano la città in quegli anni. Il ricorso al dialetto, soprattutto nei dialoghi, è coerente con un intento di resa fedele dell’atmosfera, sebbene non abbia soltanto una funzione realistica. Il realismo di Saba, infatti, non è di tipo mimetico o veristico; lo mostra la caratterizzazione di Ernesto, che per l’innocenza, la disponibilità e la libertà di cui dà prova – caratteristiche che risultano improbabili «in una città come Trieste alla fine dell’Ottocento e in un clima culturale fondamentalmente sessuofobico» (Gnerre) – rimane sostanzialmente fuori dalla Storia e dalla società.
Il dialetto è inoltre lo strumento grazie al quale Saba è riuscito a trattare argomenti considerati scabrosi e a superare il secolare tabù relativo alla rappresentazione letteraria dell’omosessualità. Esso assume quindi, in questo romanzo, un profondo valore liberatorio.

VERSO LE COMPETENZE

COMPRENDERE

1 Come sono descritti fisicamente i protagonisti?

2 Quale aspetto tipico dell’adolescenza viene sottolineato nella descrizione del ragazzo?

3 Di che cosa si rammarica l’uomo? perché?

ANALIZZARE

4 Da quali atteggiamenti si intuiscono l’emozione e l’agitazione dell’uomo?

5 Individua i commenti del narratore a proposito del protagonista. In quali emerge una certa ironia?

INTERPRETARE

6 Da che cosa ti sembra che Ernesto sia spinto verso l’uomo? Motiva la tua risposta.

DIBATTITO IN CLASSE

7 Il romanzo Ernesto narra la storia di un’esperienza omosessuale e probabilmente anche per questo Saba si rifiutò di pubblicarlo. Ritieni che ancora oggi testi che tocchino quest’argomento siano da considerare scabrosi e scandalosi? Che cosa è cambiato, da allora? Discutine in classe.

Classe di letteratura - volume 3B
Classe di letteratura - volume 3B
Dalla Prima guerra mondiale a oggi