Maschere nude: la produzione teatrale

Maschere nude: la produzione teatrale

La vita come il teatro La vocazione di Pirandello al teatro risale alla prima giovinezza, anche se dei primi tentativi falliti non ci rimane che il titolo: è come se l’autore siciliano avesse immaginato da subito il palcoscenico come il luogo adatto per concretizzare quel conflitto tra realtà e finzione, essere e apparire, persona e personaggio che è alla base della sua poetica.

La produzione drammatica si configura infatti come uno sbocco naturale dell’arte pirandelliana, che concepisce la vita alla stregua di una grande recita, in cui ognuno mette in scena un ruolo. Non a caso Pirandello organizza la raccolta delle sue opere teatrali sotto il titolo Maschere nude: un ossimoro per evidenziare come niente riesca a occultare il groviglio di menzogne che regola la vita collettiva, neanche, appunto, quelle maschere che ognuno porta sul volto per tentare – invano – di coprire l’inganno.

Le prime opere teatrali vanno in scena soltanto nel 1910, quando in un teatro romano vengono rappresentati due atti unici, La morsa e Lumìe di Sicilia. Da questo momento in poi l’attività drammaturgica di Pirandello diventa intensissima, attraversando diverse fasi stilistiche.

Gli esordi

Oltre il dramma borghese La verosimiglianza naturalistica delle situazioni sentimentali e tragiche messe in scena dal teatro allora in voga è fin dall’inizio messa in discussione da Pirandello. Dopo una prima esperienza regionale in dialetto siciliano, lo scrittore torna alla lingua italiana e mostra di voler spingere fino al paradosso e all’assurdo i temi consolidati del teatro borghese dell’epoca, portandoli allo scoperto e, così facendo, denunciandone la vacuità. Oltre ai due atti unici già citati, appartengono a questo periodo lavori come Pensaci, Giacomino! e Liolà (1916), Così è (se vi pare) (1917), ma anche La giara (1916) e La patente (1918), trasposizioni di già celebri novelle.

Così è (se vi pare) Commedia in tre atti scritta nel 1917, tratta dalla novella La signora Frola e il signor Ponza, suo genero, mette in scena la vicenda di una strana famiglia composta da tre persone che si trasferisce in un piccolo paese di provincia, scatenando un coro di chiacchiere e pettegolezzi. Il signor Ponza vive in un appartamento con la seconda moglie, mentre la madre della prima, la signora Frola, è relegata al piano sottostante e costretta a comunicare con la moglie del signor Ponza, che è convinta sia sua figlia, per mezzo di bigliettini calati in un paniere dalla finestra. O meglio, questa è la verità del signor Ponza, il quale, incalzato dalla curiosità dei vicini, afferma che la suocera è diventata pazza dopo la morte della figlia, e che pertanto egli cerca di farle credere che sia ancora viva, assecondandone l’illusione con la complicità della seconda moglie.

Ma ognuno ha la sua verità da raccontare. Molto diversa, infatti, è la versione della signora Frola, che senza dubbi sostiene che la moglie del signor Ponza è sua figlia e accusa il genero di essere un marito a tal punto geloso e possessivo da volere la donna tutta per sé, tenendola isolata dal resto del mondo. L’unica a poter far luce sulla questione è la signora Ponza, che verso la fine della rappresentazione fa la sua apparizione coperta da un velo, simbolo dell’impossibilità di raggiungere la verità: invece di una rivelazione definitiva, infatti, la donna dice semplicemente «Per me, io sono colei che mi si crede», lasciando lo spettatore nella completa incertezza sulla reale identità dei personaggi.

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Il teatro del grottesco (1917-1925)

Un ribaltamento sconvolgente Gli elementi caricaturali già presenti nei primi drammi diventano a poco a poco cifra stilistica inconfondibile del teatro pirandelliano: è l’approdo al teatro del grottesco, che, con Il piacere dell’onestà (1917) e Il giuoco delle parti (1918), ribalta i princìpi del teatro borghese in modo drastico e provocatorio, adottando soluzioni formali che infrangono le regole del Naturalismo, della verosimiglianza della storia e della finzione teatrale. Sulla scena affiora un mondo stravolto e deformato, in cui i personaggi sono privi di una psicologia coerente: scissi e contraddittori, ingabbiati anch’essi in forme assurde, come le vicende in cui si trovano ad agire. Anche il linguaggio smarrisce ogni compostezza razionale, diventando concitato e frammentato, specchio di una condizione esistenziale straniata e sospesa nel vuoto.

Antonio Gramsci ha definito queste opere «bombe a mano che scoppiano nei cervelli degli spettatori», sconvolgendo pensieri e sentimenti stereotipati. Fanno parte di questa fase anche drammi come Ma non è una cosa seria (1918), L’uomo, la bestia e la virtù (1919), Tutto per bene (1920), Come prima, meglio di prima (1920).

Il giuoco delle parti In questa commedia del 1918, tratta dalla novella Quando si è capito il giuoco, troviamo un marito, una moglie e l’amante: il tradizionale motivo del triangolo amoroso e del tradimento è però deformato e contorto, fino a renderne evidente l’assurdità. Leone Gala, dall’alto del suo atteggiamento intellettuale e da filosofo cinico, osserva distaccato il comportamento frivolo della moglie Silia e del suo amante Guido Venanzi, personaggio insignificante che vive all’ombra degli altri due. Recitando in modo consapevole la parte del marito tradito, Leone concede alla moglie di divertirsi con Guido, senza mostrare alcuna gelosia, e anzi favorendone la relazione. La moglie, stanca della razionalità indifferente del marito, chiede all’amante di ucciderlo, ma questi si rifiuta. Quando si presenta l’occasione di difendere l’onore di Silia in un duello, Leone accetta di farlo, in qualità di marito pro forma, ma tocca all’amante combattere realmente contro il celebre spadaccino Miglioriti, visto che di fatto è lui l’uomo di Silia. Ognuno insomma è costretto a recitare la propria parte fino in fondo e, mentre Guido Venanzi rimane ucciso nel duello, Leone, gustato l’amaro sapore di una vendetta cinica, si chiude in un cupo silenzio: la razionalità che svaluta i sentimenti non salva la vita né cancella la sofferenza umana.

Il tema del delitto d’onore – che, significativamente, avviene qui «per interposta persona» (Siciliano) – viene sfruttato da Pirandello per smontare il meccanismo del teatro borghese e insieme sancire l’impossibilità di arginare l’ondata delle passioni, che prevalgono sulla fredda ragione, costringendo i personaggi ad annientarsi l’un l’altro e ad accettare un comune destino di infelicità.

Il «teatro nel teatro»

Una vera e propria rivoluzione è segnata dalla prima storica rappresentazione di Sei personaggi in cerca d’autore, nel 1921, opera metateatrale che, insieme a Ciascuno a suo modo (1924) e Questa sera si recita a soggetto (1930), compone la cosiddetta trilogia del «tea­tro nel teatro». A questa fase può essere accostato anche l’Enrico IV (1922), dramma in cui la confusione tra vita e teatro si allarga fino a divenire caotica sovrapposizione tra normalità e follia.

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Sei personaggi in cerca d’autore La celebre commedia del 1921 non è divisa in atti e scene, ma presenta due interruzioni apparentemente casuali (in realtà perfettamente inserite nell’artificio del «teatro nel tea­tro»). Mentre una compagnia sta provando una commedia di Pirandello (Il giuoco delle parti) entrano in scena sei personaggi misteriosi: il Padre, la Madre, il Figlio, la Figliastra, il Giovinetto e la Bambina.

Abbandonati da un autore allo stadio larvale, essi aspirano alla compiutezza formale dell’arte e a ottenere corpo e voce: sono in cerca di qualcuno che scriva il loro dramma, ancora solo abbozzato, e di attori che li impersonino. La loro è una storia a tinte forti, tipica del teatro ottocentesco: la Madre, dopo aver partorito il Figlio, viene spinta dal Padre a formarsi una nuova famiglia con il suo segretario; nascono altri tre figli, la Figliastra, il Giovinetto e la Bambina. Dopo molti anni il Padre si trova in una casa di appuntamenti; proprio mentre sta per avere, inconsapevolmente, una relazione incestuosa con la Figliastra, viene fermato dalla Madre, sconvolta dal duplice orrore di trovare la figlia in quel luogo e in compagnia dell’ex marito. A questo punto la rappresentazione si interrompe per poi riprendere in un giardino, in cui la Madre scopre il corpo della Bambina affogata in una vasca e scorge il Giovinetto che, dopo aver assistito alla scena, si spara. Pur riluttante, il Capocomico della compagnia che sta provando lo spettacolo interrotto accetta di trarre una pièce da questa vicenda, ma equivoci e difficoltà d’ogni tipo ne ostacolano la messa in scena: il vero dramma dei personaggi diviene perciò quello di non riuscire a vedersi rappresentati “realisticamente” dagli attori, che provano a recitare la storia ma sono continuamente interrotti dai personaggi “veri”, insoddisfatti della performance. Alla fine, tutto rimane allo stadio potenziale di un dramma irrisolto: calato il sipario, ci si accorge dell’impossibilità di fare teatro.

Enrico IV Il dramma in tre atti del 1922 è considerato, insieme ai Sei personaggi, il vertice della drammaturgia di Pirandello. Durante una festa in maschera, un giovane gentiluomo, che indossa i panni di Enrico IV, imperatore del Sacro Romano Impero, viene disarcionato dal suo rivale in amore Tito Belcredi. Cadendo da cavallo batte la testa e sprofonda in una follia che lo terrà imprigionato per dodici anni: egli crede di essere davvero il personaggio storico che stava impersonando, e vive assecondato dai suoi servitori in un mondo irreale, fuori dal tempo. Quando all’improvviso rinsavisce, si rende conto di aver perso per sempre la giovinezza e di essere stato defraudato dell’amore della marchesa Matilde Spina, che ora è compagna di Belcredi. Il protagonista decide allora di continuare a recitare la parte a cui tutti ormai da anni lo credono inchiodato, immedesimandosi in una maschera che sostituisce la sua vera identità.

Passano così altri otto anni, quando un giorno Matilde, Belcredi e la figlia Frida, in compagnia di uno psichiatra, tentano di ricostruire la scena della famosa cavalcata nella speranza di dissipare le nebbie della follia del presunto Enrico IV (il cui vero nome non è mai dichiarato). Egli, però, volendo tornare a riappropriarsi di una vita dalla quale aveva scelto di escludersi, rivela la finzione e, spinto da una passione mai sopita per Matilde, abbraccia con slancio Frida, identica alla madre da giovane. Belcredi si avventa su di lui, disgustato dal gesto del suo vecchio rivale, ma Enrico IV estrae la spada e lo ferisce a morte. A questo punto non gli rimane che continuare la recita, tornando a fingersi pazzo, non fosse altro che per sfuggire a un processo e a una condanna per omicidio. La pazzia, però, non è più un gioco, né un’inconsapevole condizione di alienazione mentale, ma una dolorosa necessità.

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Dalla caduta nel “pirandellismo” E IL teatro dei «miti»

Dal metateatro al «mito» Sull’onda del successo mondiale che accompagna le rappresentazioni delle sue commedie, Pirandello successivamente quasi si adagia in una produzione meno originale, che ripete gli schemi drammaturgici del periodo precedente. La vita che ti diedi (1923), L’amica delle mogli (1926), Diana e la Tuda (1927), Quando si è qualcuno (1933) sono drammi in cui l’autore indulge a un facile “pirandellismo”, che si traduce nella stanca e insistente ripetizione degli stessi temi, di tecnicismi collaudati e di forme spesso cerebrali e artificiose.

Un sostanziale cambiamento di direzione è rappresentato, invece, dagli ultimi progetti teatrali, in cui Pirandello abbandona la riflessione metateatrale e prospetta una fuga totale nel mondo della fantasia e della poesia, approdando a grandi tematiche esistenziali e al «mito», termine che egli stesso usa per definire questi lavori. La nuova colonia (1928), Lazzaro (1929), I giganti della montagna (1930, incompiuto, rappresentato postumo nel 1937), insieme alla Favola del figlio cambiato (1930), musicata dal compositore Gian Francesco Malipiero, portano l’arte di Pirandello alle soglie del Surrealismo. Luoghi immaginari, eventi soprannaturali e simboli irrazionali campeggiano in queste opere, in cui viene meno ogni residuo elemento realistico e l’atmosfera si fa onirica e fantastica. Che si tratti della rappresentazione di un’utopia, cioè di un “mito sociale”, come è nella Nuova colonia; di una nuova fede, cioè di un “mito religioso”, come in Lazzaro; o di una riflessione sull’arte nella società moderna, minacciata dai “giganti” del potere nei Giganti della montagna, il realismo allucinato di marca pirandelliana si trasforma in allegoria e in suggestioni mistiche e trascendenti, evocate da un linguaggio lirico ed enigmatico.

Classe di letteratura - volume 3A
Classe di letteratura - volume 3A
Dal secondo Ottocento al primo Novecento