Gli altri romanzi

Gli altri romanzi

Pirandello scrive altri sei romanzi, assai eterogenei per trama e ambientazione. Due di essi vengono composti prima del Fu Mattia Pascal, ma già contengono il tema, tipico dell’autore, del paradosso dell’esistenza; i restanti quattro vedono la luce dopo e presentano applicazioni sempre diverse della poetica umoristica.

L’esclusa

Il primo romanzo, scritto nel 1893 con il titolo Marta Ajala, viene pubblicato a puntate nel 1901 sul quotidiano romano “La Tribuna” e poi rivisto e stampato in volume nel 1927. L’influenza di Luigi Capuana è particolarmente evidente nella denuncia di un ambiente sociale avvelenato da convenzioni arcaiche e provinciali, che fa da sfondo alla figura della giovane protagonista, Marta, una donna intelligente e sensibile accusata ingiustamente di tradimento. Il meccanicismo deterministico che governa i fatti nel racconto naturalista, tuttavia, è qui già messo in dubbio: la causa motrice della narrazione, infatti, è qualcosa di irreale – una colpa inesistente – che ha però conseguenze reali. Al principio di causa-effetto si sostituiscono cioè la fatalità e l’assurdità del caso, l’amara constatazione che le azioni umane hanno esiti imprevedibili e che la menzogna vale più della verità. Fino alla conclusione spiazzante: Marta è perdonata proprio quando diviene davvero un’adultera.

Il turno

Il secondo breve romanzo, scritto nel 1895, viene pubblicato nel 1902. Pirandello abbandona del tutto l’ambientazione naturalista, concentrandosi ancor più sull’idea che sia il caso a dominare le vicende umane. Vi si narra la storia di un giovane pretendente che aspetta il suo “turno” per sposare la donna amata. Smantellando uno dei capisaldi del Naturalismo – l’impersonalità – Pirandello rende visibile la presenza del narratore, come ad avvertire il lettore che qualcuno sta inventando ciò che viene raccontato, e che questa è la “sua” visione delle cose, la “sua” verità. L’oggettività dei fatti è così negata in favore di una visione del reale irriducibilmente soggettiva.

I vecchi e i giovani

Uno sguardo amaro su un paese corrotto Pubblicato in parte nel 1909 e poi in modo completo nel 1913, I vecchi e i giovani rappresenta per certi versi un passo indietro nel percorso pirandelliano di rinnovamento del genere romanzesco. L’autore sceglie infatti la narrazione eterodiegetica, quella cioè in cui il narratore non è un personaggio della storia (un’opzione privilegiata anche nel romanzo successivo Suo marito), per tracciare un quadro storico delineato entro precise coordinate spazio-temporali. Nella Sicilia post-risorgimentale, sullo sfondo della rivolta popolare dei Fasci siciliani (1891-1894) e dello scandalo politico-finanziario della Banca Romana (uno dei più importanti istituti di credito del tempo, cardine dei fenomeni di corruzione che accompagnano il disordinato sviluppo edilizio della capitale fin dagli anni Ottanta dell’Ottocento), si svolgono le vicende della famiglia Laurentano e di una fitta serie di personaggi secondari.

Il conflitto generazionale, suggerito dal titolo, tra i vecchi protagonisti del Risorgimento e i giovani corrotti della nuova realtà unitaria viene filtrato da ricordi personali, che compongono una sorta di autobiografia pubblica da cui emerge una lucida analisi della crisi di fine secolo. L’impianto narrativo, che ricorda i Viceré di De Roberto e, più da lontano, il modello manzoniano, lascia parlare la Storia come se fosse essa stessa un personaggio carico di esperienze variamente distribuite tra la folla delle comparse. Si tratta dell’unico esempio di romanzo storico pirandelliano, dall’autore definito «amarissimo e popoloso romanzo, ov’è racchiuso il dramma della mia generazione».

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Suo marito

Pubblicato nel 1911 e poi ripreso per una riedizione rimasta incompiuta, il romanzo è ambientato a Roma e racconta la storia di una scrittrice, Silvia Roncella (dietro la quale molti hanno voluto riconoscere la figura di Grazia Deledda), che ribalta i tradizionali equilibri della famiglia borghese, relegando il devoto e mediocre marito alla gestione materiale dei propri impegni e successi editoriali. Sullo sfondo emerge la vita letteraria romana, delineata con intenzioni caricaturali come regno della maldicenza e della vacuità.

Quaderni di Serafino Gubbio operatore

Edito nel 1915 con il titolo Si gira…, il romanzo verrà poi rivisto e ripubblicato nel 1925 con il titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore. L’operatore cinematografico Serafino Gubbio racconta in prima persona, in un diario costituito da sette quaderni, la straniante esperienza vissuta dietro la macchina da presa. Ne risulta una testimonianza, problematica e disincantata, di un’aperta diffidenza verso i congegni omologanti della modernità, della quale Serafino-Pirandello dà un’interpretazione lucida e inquietante.

La critica alla civiltà delle macchine La vicenda narra dell’arrivo di Serafino a Roma e del suo lavoro all’interno di una troupe cinematografica che sta girando un film. Della troupe fa parte anche l’attore Aldo Nuti, che ha lasciato la fidanzata per seguire l’attrice russa Varia Nestoroff, “donna fatale” di cui si è innamorato. In quest’opera, che è stata definita dal critico Giacomo Debenedetti un «romanzo da fare» poiché gli eventi non sono ricostruiti, come accade di norma, a posteriori, il meccanismo narrativo pare seguire la fredda concatenazione degli ingranaggi di una macchina, sviluppando una serie di riprese fra loro separate e dunque prive di logica consequenziale. L’ultima di queste sequenze (il settimo dei quaderni di Serafino) contiene il tragico epilogo della vicenda: invece che uccidere la tigre portata sul set per girare la scena, Nuti spara alla Nestoroff, prima di essere a sua volta ucciso dall’animale. Serafino, incaricato delle riprese, non smette di filmare: condannato a girare la manovella della cinepresa come un automa alienato, continua a registrare fedelmente la tragica scena fuori copione, ma, per lo choc subito, rimane muto. Contro l’alienazione e la mercificazione della civiltà moderna, simboleggiata appunto dalla condizione esistenziale del protagonista, l’unica risposta possibile dello scrittore sembra essere il silenzio.

Uno, nessuno e centomila

Dopo una pausa decennale in cui Pirandello si dedica prevalentemente al teatro, nel 1926 esce il suo romanzo “testamentario” («c’è la sintesi completa di tutto ciò che ho fatto e che farò», dice l’autore), che conclude e insieme inaugura una forma narrativa ormai totalmente “frantumata”.

La banale scoperta di essere “nessuno” La vicenda prende avvio da un episodio di estrema banalità di cui è protagonista Vitangelo Moscarda: una mattina, mentre si guarda allo specchio, scopre, per un’osservazione della moglie, che il suo naso non è dritto, come egli aveva sempre creduto che fosse, ma pende leggermente a destra. Il fatto, di per sé privo di importanza, dà luogo a una vera e propria crisi d’identità del personaggio, che si rende conto di non essere “uno”, ma “centomila” – e quindi in definitiva “nessuno” – a seconda della prospettiva da cui lo osservano gli altri.

Da una semplice constatazione, in altre parole, scaturisce una crisi esistenziale che porta Vitangelo a compiere gesti folli, volti a cancellare ricordi, esperienze e persino il nome che lo identifica. Dopo aver liquidato i suoi beni ed essere stato abbandonato dalla moglie, egli finisce con il vivere in un ospizio, senza più un nome né un’identità definita. Considerato pazzo dagli altri, si sente in realtà finalmente felice: abbandonata la civiltà, con le sue forme e le sue convenzioni, si trova per la prima volta immerso nel fluire continuo della vita e nella natura.

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T8

Una mano che gira una manovella

Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Quaderno primo

Il passo che segue costituisce l’incipit del romanzo. Si tratta di una sorta di presentazione dell’ambiente del cinema e del mestiere dell’operatore, in cui sono evidenziati i temi fondamentali dell’opera, sviluppati poi più ampiamente nel corso della narrazione.

I
Studio la gente nelle sue più ordinarie occupazioni, se mi riesca di scoprire negli
altri quello che manca a me per ogni cosa ch’io faccia: la certezza che capiscano
ciò che fanno.
In prima, sì, mi sembra che molti l’abbiano, dal modo come tra loro si guardano
5      e si salutano, correndo di qua, di là, dietro alle loro faccende o ai loro capricci.
Ma poi, se mi fermo a guardarli un po’ addentro negli occhi con questi miei
occhi intenti e silenziosi, ecco che subito s’aombrano.1 Taluni anzi si smarriscono
in una perplessità così inquieta, che se per poco io seguitassi a scrutarli, m’ingiurierebbero
o m’aggredirebbero.
10    No, via, tranquilli. Mi basta questo: sapere, signori, che non è chiaro né certo
neanche a voi neppur quel poco che vi viene a mano a mano determinato dalle
consuetissime condizioni in cui vivete. C’è un oltre in tutto. Voi non volete o
non sapete vederlo. Ma appena appena quest’oltre baleni negli occhi d’un ozioso
come me, che si metta a osservarvi, ecco, vi smarrite, vi turbate o irritate.
15    Conosco anch’io il congegno esterno, vorrei dir meccanico della vita che fragorosamente
e vertiginosamente ci affaccenda senza requie. Oggi, così e così; questo
e quest’altro da fare; correre qua, con l’orologio alla mano, per essere in tempo
là. «No, caro, grazie: non posso!». «Ah sì, davvero? Beato te! Debbo scappare…».
«Alle undici, la colazione». «Il giornale, la borsa, l’ufficio, la scuola…». «Bel tempo,
20    peccato! Ma gli affari…». «Chi passa? Ah, un carro funebre… Un saluto, di
corsa, a chi se n’è andato». «La bottega, la fabbrica, il tribunale…».
Nessuno ha tempo o modo d’arrestarsi un momento a considerare, se quel
che vede fare agli altri, quel che lui stesso fa, sia veramente ciò che sopra tutto
gli convenga, ciò che gli possa dare quella certezza vera, nella quale solamente
25    potrebbe trovar riposo. Il riposo che ci è dato dopo tanto fragore e tanta vertigine
è gravato da tale stanchezza, intronato da tanto stordimento, che non ci è più
possibile raccoglierci un minuto a pensare. Con una mano ci teniamo la testa, con
l’altra facciamo un gesto da ubriachi.
«Svaghiamoci!».
30    Sì. Più faticosi e complicati del lavoro troviamo gli svaghi che ci si offrono;
sicché dal riposo non otteniamo altro che un accrescimento di stanchezza.
Guardo per via le donne, come vestono, come camminano, i cappelli che portano
in capo; gli uomini, le arie che hanno o che si dànno; ne ascolto i discorsi,
i propositi; e in certi momenti mi sembra così impossibile credere alla realtà di
35    quanto vedo e sento, che non potendo d’altra parte credere che tutti facciano per
ischerzo, mi domando se veramente tutto questo fragoroso e  vertiginoso meccanismo
della vita, che di giorno in giorno sempre più si còmplica e s’accèlera, non
abbia ridotto l’umanità in tale stato di follìa, che presto proromperà frenetica a
sconvolgere e a distruggere tutto. Sarebbe forse, in fin de’ conti, tanto di guadagnato.
40    Non per altro, badiamo: per fare una volta tanto punto e daccapo.
Qua da noi non siamo ancora arrivati ad assistere allo spettacolo, che dicono
frequente in America, di uomini che a mezzo d’una qualche faccenda, fra il tumulto
della vita, traboccano giù,2 fulminati. Ma forse, Dio ajutando, ci arriveremo
presto. So che tante cose si preparano. Ah, si lavora! E io – modestamente – sono
45    uno degli impiegati a questi lavori per lo svago.
Sono operatore. Ma veramente, essere operatore, nel mondo in cui vivo e di
cui vivo, non vuol mica dire operare.
Io non opero nulla.
Ecco qua. Colloco sul treppiedi a gambe rientranti la mia macchinetta. Uno
50    o due apparatori,3 secondo le mie indicazioni, tracciano sul tappeto o su la piattaforma
con una lunga pertica e un lapis turchino i limiti entro i quali gli attori
debbono muoversi per tenere in fuoco la scena.
Questo si chiama segnare il campo.
Lo segnano gli altri; non io: io non faccio altro che prestare i miei occhi alla
55    macchinetta perché possa indicare fin dove arriva a prendere.
Apparecchiata la scena, il direttore4 vi dispone gli attori e suggerisce loro l’azione
da svolgere.
Io domando al direttore:
«Quanti metri?».
60    Il direttore, secondo la lunghezza della scena, mi dice approssimativamente il
numero dei metri di pellicola che abbisognano, poi grida agli attori:
«Attenti, si gira!».
E io mi metto a girar la manovella.
Potrei farmi l’illusione che, girando la manovella, faccia muover io quegli
65    attori, press’a poco come un sonatore d’organetto fa la sonata girando il manubrio.
Ma non mi faccio né questa né altra illusione, e séguito a girare finché la scena
non è compiuta; poi guardo nella macchinetta e annunzio al direttore:
«Diciotto metri», oppure: «trentacinque».
E tutto è qui.
70    Un signore, venuto a curiosare, una volta mi domandò:
«Scusi, non si è trovato ancor modo di far girare la macchinetta da sé?».
Vedo ancora la faccia di questo signore: gracile, pallida, con radi capelli biondi;
occhi cilestri,5 arguti; barbetta a punta, gialliccia, sotto la quale si nascondeva
un sorrisetto, che voleva parer timido e cortese, ma era malizioso. Perché con
75    quella domanda voleva dirmi:
«Siete proprio necessario voi? Che cosa siete voi? Una mano che gira la manovella.
Non si potrebbe fare a meno di questa mano? Non potreste esser soppresso,
sostituito da un qualche meccanismo?».
Sorrisi e risposi:
80    «Forse col tempo, signore. A dir vero, la qualità precipua che si richiede in uno
che faccia la mia professione è l’impassibilità di fronte all’azione che si svolge davanti
alla macchina. Un meccanismo, per questo riguardo, sarebbe senza dubbio
più adatto e da preferire a un uomo. Ma la difficoltà più grave, per ora, è questa:
trovare un meccanismo, che possa regolare il movimento secondo l’azione che si
85    svolge davanti alla macchina. Giacché io, caro signore, non giro sempre allo stesso
modo la manovella, ma ora più presto ora più piano, secondo il bisogno. Non
dubito però, che col tempo – sissignore – si arriverà a sopprimermi. La macchinetta
– anche questa macchinetta, come tante altre macchinette – girerà da sé. Ma
che cosa poi farà l’uomo quando tutte le macchinette gireranno da sé, questo, caro
90    signore, resta ancora da vedere».

II
Soddisfo, scrivendo, a un bisogno di sfogo, prepotente. Scarico la mia professionale
impassibilità e mi vendico, anche; e con me vendico tanti, condannati come
me a non esser altro, che una mano che gira una manovella.
Questo doveva avvenire, e questo è finalmente avvenuto!
95    L’uomo che prima, poeta, deificava i suoi sentimenti e li adorava, buttati via
i sentimenti, ingombro non solo inutile ma anche dannoso, e divenuto saggio e
industre,6 s’è messo a fabbricar di ferro, d’acciajo le sue nuove divinità ed è diventato
servo e schiavo di esse.
Viva la Macchina che meccanizza la vita!
100  Vi resta ancora, o signori, un po’ d’anima, un po’ di cuore e di mente? Date,
date qua alle macchine voraci, che aspettano! Vedrete e sentirete, che prodotto di
deliziose stupidità ne sapranno cavare.
Per la loro fame, nella fretta incalzante di saziarle, che pasto potete estrarre da
voi ogni giorno, ogni ora, ogni minuto?
105  È per forza il trionfo della stupidità, dopo tanto ingegno e tanto studio spesi
per la creazione di questi mostri, che dovevano rimanere strumenti e sono divenuti
invece, per forza, i nostri padroni.
La macchina è fatta per agire, per muoversi, ha bisogno di ingojarsi la nostra
anima, di divorar la nostra vita. E come volete che ce le ridiano, l’anima e la vita,
110  in produzione centuplicata e continua, le macchine? Ecco qua: in pezzetti e bocconcini,
tutti d’uno stampo, stupidi e precisi, da farne, a metterli sù, uno su l’altro,
una piramide che potrebbe arrivare alle stelle. Ma che stelle, no, signori! Non ci
credete. Neppure all’altezza d’un palo telegrafico. Un soffio li abbatte e li ròtola
giù, e tal altro ingombro, non più dentro ma fuori, ce ne fa, che – Dio, vedete
115  quante scatole, scatolette, scatolone, scatoline? – non sappiamo più dove mettere i
piedi, come muovere un passo. Ecco le produzioni dell’anima nostra, le scatolette
della nostra vita!
Che volete farci? Io sono qua. Servo la mia macchinetta, in quanto la giro
perché possa mangiare. Ma l’anima, a me, non mi serve. Mi serve la mano; cioè
120  serve alla macchina. L’anima in pasto, in pasto la vita, dovete dargliela voi signori,
alla macchinetta ch’io giro. Mi divertirò a vedere, se permettete, il prodotto che ne
verrà fuori. Un bel prodotto e un bel divertimento, ve lo dico io.
Già i miei occhi, e anche le mie orecchie, per la lunga abitudine, cominciano
a vedere e a sentir tutto sotto la specie di questa rapida tremula ticchettante riproduzione
125  meccanica.
Non dico di no: l’apparenza è lieve e vivace. Si va, si vola. E il vento della
corsa dà un’ansia vigile ilare acuta, e si porta via tutti i pensieri. Avanti! Avanti
perché non s’abbia tempo né modo d’avvertire il peso della tristezza, l’avvilimento
della vergogna, che restano dentro, in fondo. Fuori, è un balenìo continuo, uno
130  sbarbàglio7 incessante: tutto guizza e scompare.
Che cos’è? Niente, è passato! Era forse una cosa triste; ma niente, ora è passata.
C’è una molestia, però, che non passa. La sentite? Un calabrone che ronza
sempre, cupo, fosco, brusco, sotto sotto, sempre. Che è? Il ronzìo dei pali telegrafici?
lo striscìo continuo della carrucola lungo il filo dei tram elettrici? il fremito
135  incalzante di tante macchine, vicine, lontane? quello del motore dell’automobile?
quello dell’apparecchio cinematografico?
Il bàttito del cuore non s’avverte, non s’avverte il pulsar delle arterie. Guaj, se
s’avvertisse! Ma questo ronzìo, questo ticchettìo perpetuo, sì, e dice che non è naturale
tutta questa furia turbinosa, tutto questo guizzare e scomparire d’immagini; ma
140  che c’è sotto un meccanismo, il quale pare lo insegua, stridendo precipitosamente.
Si spezzerà?
Ah, non bisogna fissarci l’udito. Darebbe una smania di punto in punto crescente,
un’esasperazione a lungo insopportabile; farebbe impazzire.
In nulla, più in nulla, in mezzo a questo tramenìo8 vertiginoso, che investe e
145  travolge, bisognerebbe fissarsi. Cogliere, attimo per attimo, questo rapido passaggio
d’aspetti e di casi, e via, fino al punto che il ronzìo per ciascuno di noi non cesserà.
 >> pagina 769

DENTRO IL TESTO

I contenuti tematici

Il gesto di annotare su alcuni quaderni le sue considerazioni sulla realtà rappresenta, per l’operatore cinematografico Serafino Gubbio, il tentativo di sfuggire all’alienazione di un lavoro puramente meccanico. L’incipit del romanzo (Studio la gente nelle sue più ordinarie occupazioni, r. 1) rivela subito una caratteristica fondamentale dell’opera: la presenza di un narratore dotato di una vocazione filosofica. Non ci si deve pertanto aspettare un racconto coerente e compiuto, ma un saggio-studio in cui le vicende narrate sono condizionate dalla voce narrante. Questo personaggio, che appare persino privo di una precisa fisionomia, diviene quasi puro pensiero, proprio in conseguenza del fatto che la sua fisicità è stata ridotta ad appendice pseudovivente di una macchina da presa, a “protesi” umana di un congegno meccanico.

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Abituato, per la sua professione, a tenere sotto controllo passioni e sentimenti (l’operatore non deve partecipare all’azione, ma solo registrarla fedelmente), Serafino sceglie come narratore di indossare consapevolmente la «maschera dell’impassibilità», non per denunciare la corruzione e i difetti di una specifica realtà – come avrebbe fatto uno scrittore naturalista o verista – ma per rivelare che uno «studio senza passione» è forse l’unica vera salvezza rimasta all’individuo alienato della modernità; solo in questo modo, infatti, egli può recidere ogni legame con la falsa realtà in cui è immerso.

Il suo sguardo è freddo e distaccato, ma non ha più le prerogative del classico narratore esterno e onnisciente, anzi è voce interna per eccellenza, e la sua conoscenza degli uomini e delle cose non gli è data a priori, per statuto narrativo, ma è una conquista della sua osservazione disincantata e della sua riflessione filosofica. Egli spia da dietro le quinte, nell’anonimato della macchina da presa, la strana mescolanza di verità e finzione che travolge gli attori (le cui vicende si sovrappongono a quelle rappresentate nel film), scopre risvolti inediti nelle esistenze che gli scorrono davanti, comprendendo sentimenti e dinamiche relazionali invisibili agli occhi degli attori stessi. Proprio perché si rifiuta di partecipare emotivamente alla vita falsa che è costretto a registrare, egli può guardarsi intorno inosservato e dipingere così ritratti grotteschi di quello che vede.

Chi aziona la manovella della macchina da presa può arrivare persino a credere, per un istante, di avere un qualche potere sugli attori (Potrei farmi l’illusione che, girando la manovella, faccia muover io quegli attori, rr. 64-65). Ma si tratta di un’illusione: Serafino è solo un occhio che scruta e una mano che gira una manovella (r. 93). Il suo ruolo non è indispensabile; anzi, ciò che rende umani (la ragione, i sentimenti) è ostacolo all’efficienza del suo gesto imperturbabile. Per essere impassibile, insomma, egli deve ridursi a parte meccanica di un apparecchio. Del resto è solo questione di tempo: presto, in un futuro totalmente meccanizzato, si troverà un modo per azionare la manovella automaticamente (La macchinetta – anche questa macchinetta, come tante altre macchinette – girerà da sé. Ma che cosa poi farà l’uomo quando tutte le macchinette gireranno da sé, questo, caro signore, resta ancora da vedere, rr. 87-90).
Serafino non è dunque altro che un piccolo ingranaggio che contribuisce a far funzionare la neonata industria cinematografica; dall’interno egli è in grado di osservare e giudicare questo primo esempio di intrattenimento in serie, volto a distrarre (Svaghiamoci!, r. 29) e a distendere gli animi affaticati dal ritmo convulso della vita moderna. Tuttavia, il riposo che l’individuo trova nelle sale cinematografiche è fittizio, essendo gravato da tale stanchezza, intronato da tanto stordimento (rr. 25-26) da non riuscire più a godere di un minuto di raccoglimento per pensare. Invece di essere un antidoto al fragoroso e vertiginoso meccanismo della vita (rr. 36-37), l’industria dello svago porta in trionfo la stupidità di personaggi finti nella loro rifulgente bellezza patinata e l’assurdità di vicende senza peso e senza significato. L’anima e la vita, ridotte in pezzetti e bocconcini, tutti d’uno stampo, stupidi e precisi (rr. 110-111), vengono letteralmente divorate dalla cinepresa, imprigionate nel balenìo scintillante dello schermo, in un riflesso inafferrabile e immateriale come un sogno che non lascia memoria.
L’unico mezzo per sopravvivere all’alienazione è dunque costituito dall’atto della scrittura, che è anche una forma di vendetta per tutti coloro che sono incatenati a una macchina (Serafino è un intellettuale autodidatta che, per vivere, si adatta a fare l’operatore): Soddisfo, scrivendo, a un bisogno di sfogo, prepotente. Scarico la mia professionale impassibilità e mi vendico (rr. 91-92). La parcellizzazione del lavoro e dunque dell’individuo – nella catena di montaggio serve solo una mano, non una persona – viene denunciata e insieme riscattata: il gesto di scrivere, infatti, come un rito catartico, si compie attraverso quella stessa mano che ogni giorno è costretta a girare una manovella.
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Le scelte stilistiche

L’uso del tempo presente, fin dall’inizio del romanzo, non indica alcuna contemporaneità fra storia e racconto, ma inscrive la dimensione del testo nella fredda impassibilità di un lavoro scientifico o teorico, in un presente quasi atemporale proprio della riflessione filosofica.

La prosa pirandelliana è comunque, come sempre, molto vicina alla realtà delle cose: dialoghi immaginari, monologhi, confessioni e riflessioni spezzano il discorso, scandendo un ritmo vario e incalzante, che rispecchia da vicino il pensiero tormentato della voce narrante.

A rendere lo stile ancora più concreto e vicino al reale contribuiscono gli inserti specifici del lessico cinematografico. L’attenzione minuziosa agli aspetti gergali dell’ambiente in cui si svolge la vicenda dà al lettore la sensazione di essere condotto per mano alla scoperta di un mondo nuovo. Il treppiedi a gambe rientranti su cui si colloca la macchina da presa, gli apparatori, il tappeto, la piattaforma, il lapis turchino con cui si segna il campo (rr. 49-53); e poi ancora le indicazioni tecniche sulla quantità di pellicola necessaria per girare una scena, la funzione del direttore e molti altri particolari costituiscono la materia prima di un romanzo che si può leggere anche come uno spaccato storico sul cinema nel 1915. L’intento di Pirandello, forse, è stato anche quello di dare testimonianza delle caratteristiche di un’arte ancora alle prime armi, cogliendola all’origine di un percorso che giunge fino ai nostri giorni.

VERSO LE COMPETENZE

Comprendere

1 Quali sono le conseguenze, secondo il protagonista, di una vita che di giorno in giorno sempre più si còmplica e s’accèlera (r. 37)?


2 In quali termini Serafino Gubbio parla della reificazione e della produzione in serie, quando si chiede: E come volete che ce le ridiano, l’anima e la vita, in produzione centuplicata e continua, le macchine? (rr. 109-110).

ANALIZZARE

3 All’inizio del brano Serafino Gubbio parla del congegno esterno, vorrei dir meccanico della vita che fragorosamente e vertiginosamente ci affaccenda senza requie (rr. 15-16). Come si manifesta, nelle righe successive, questa frenesia della vita moderna?


4 Trova ed evidenzia il passo in cui vengono denunciate apertamente la stupidità delle macchine e la loro trasformazione da “strumenti” a “padroni” dell’uomo.


5 Cerca nel testo la frase in cui Pirandello usa la metafora del ronzio del calabrone per riferirsi al rumore che accompagna la quotidianità nel mondo moderno.

INTERPRETARE

6 Perché, nell’alienazione della civiltà moderna, gli svaghi sembrano a volte Più faticosi e complicati del lavoro (r. 30)?


7 Per quale ragione Serafino Gubbio afferma che nella sua mansione di operatore non è rimasto nulla dell’originario significato del verbo operare?

scrivere per...

argomentare

8 Qual è l’atteggiamento di Serafino Gubbio – e, dietro di lui, di Pirandello – nei confronti della civiltà delle macchine che si afferma all’inizio del Novecento? Prova a spiegarlo in un testo argomentativo di 30 righe a partire da un commento alla seguente frase: La macchinetta – anche questa macchinetta, come tante altre macchinette – girerà da sé. Ma che cosa poi farà l’uomo quando tutte le macchinette gireranno da sé, questo, caro signore, resta ancora da vedere (rr. 87-90).

Classe di letteratura - volume 3A
Classe di letteratura - volume 3A
Dal secondo Ottocento al primo Novecento