Gabriele d’Annunzio

I GRANDI TEMI

1 Il divo narcisista e il pubblico di massa

Una moderna autopromozione Gabriele d’Annunzio è il primo intellettuale, non solo in Italia, a intuire le potenzialità dei mezzi di comunicazione di massa e a percepire gli ingranaggi del sistema editoriale, cogliendo (e anzi spesso anticipando) le esigenze e le aspettative di un pubblico sempre più variegato. Egli costruisce per sé all’interno dell’industria culturale il ruolo di «sociologo empirico» (come lo ha definito il critico Ezio Raimondi), cioè di profondo conoscitore dei gusti e delle tendenze del mercato, e di abile persuasore, capace di insinuare presso i lettori emozioni, sentimenti e desideri grazie alla funzione seducente esercitata dal suo stile di vita e dalla sua parola. D’Annunzio lancia infatti ogni iniziativa con sfrenato esibizionismo e con uno spirito che oggi diremmo pubblicitario e imprenditoriale: combinando l’arte e la vita, attraverso scandali, gesti eclatanti e trasgressioni, egli promuove l’immagine del genio che si sente indifferente alla moralità comune e aspira a una «vita inimitabile», superiore a quella del «gregge» plebeo e piccolo-borghese.

Il poeta come arbitro del gusto D’Annunzio reagisce dunque alla perdita di identità subita dalla figura dell’intellettuale nella moderna società di massa, riproponendo una concezione tradizionale della poesia come valore assoluto, strumento di libertà e di conoscenza del mondo, e del poeta come esteta raffinato, mente superiore, vate acclamato. Egli trasforma il senso di disadattamento e alienazione percepito da altri letterati (si pensi a Baudelaire e Verlaine, ma anche, in una certa misura, a Pascoli) in un vantaggio, in disprezzo per l’esistenza comune, in culto di una bellezza mitica e accessibile a pochi eletti.

Al tempo stesso, tuttavia, mentre denuncia la massificazione dell’arte e proclama il suo disgusto per l’uguaglianza, la democrazia e i valori materialistici della società borghese, egli non si sottrae alle leggi e alle esigenze del mercato: la società “volgare” che tanto disdegna è, in fondo, il suo pubblico, quello da cui vuole essere riconosciuto, amato e adulato.

Un uomo sempre “in copertina” Di volta in volta, a seconda delle circostanze, d’Annunzio è il divo, l’amante, l’atleta, il tribuno, l’eroe, il comandante, e in ciascuna di queste vesti rappresenta la quintessenza dell’uomo che varca i propri limiti: una figura che sconfina nel fantastico, nella quale larghi strati dell’Italia umbertina, giolittiana, poi fascista, ameranno identificarsi anche cercando un risarcimento delle proprie frustrazioni e delusioni. Uomini e donne della piccola e media borghesia vedono la realtà attraverso la mediazione esemplare delle sue avventure, di amore e di guerra, vagheggiando lussi esclusivi e imprese leggendarie: è in questo impasto di estetismo, retorica imperialistica e sensualità che possiamo cogliere gli ingredienti di quel fenomeno di costume chiamato “dannunzianesimo”.

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A patti con il mercato Va però detto, al tempo stesso, che la percezione che d’Annunzio ha delle attese e dei gusti del pubblico e la capacità di tradurli in occasione di consenso personale non lo inducono a proporre, dal punto di vista letterario, soluzioni espressive superficiali o banali e un prodotto di basso consumo. Nell’opera dannunziana, infatti, non viene mai meno la ricerca del sublime non solo come scelta artistico-letteraria, ma anche quale strategia di seduzione dei lettori, ovviamente ammaliati dalla poliedricità del suo stile e del suo modello umano e culturale, aristocratico e insieme populista. Quando ci troviamo dinanzi alle sue opere, ricche di allusioni erudite, sottintesi mitologici, suggestioni e virtuosismi classicheggianti, abbiamo sempre la sensazione (e così doveva essere anche per il suo pubblico culturalmente più attento) che tutto questo repertorio di meraviglie sia escogitato per esaltare il suo talento e divulgare un’idea di bellezza da contemplare e adorare. Egli, in altre parole, «ci propone un’opera che dobbiamo ammirare perché in essa avviene un miracolo sempre straordinario, sia che l’autore esibisca la sua sapienza linguistica, sia magari che ci renda note le sue inarrivabili esperienze amatorie» (Giovannetti).

Un egocentrico vitalismo Questo elogio di sé stesso, questa tendenza (implicita o esplicita) ad autocelebrarsi è trasversale in tutta l’opera di d’Annunzio, anche in quella parte in cui egli presenta sé stesso nei panni più umili del nostalgico cantore degli affetti privati e di un’esistenza sobria e lontana dal lusso. Non accade mai che questo autore – in letteratura, così come nelle sue manifestazioni di pubblica e plateale vitalità – rinunci al proprio egocentrismo, alla celebrazione narcisistica delle proprie esperienze, all’entusiasmo delle proprie azioni, alla ricerca continua del piacere: ed è in questa tensione «inesausta» (un aggettivo tipicamente dannunziano) a godere dei «frutti terrestri» e a esaltare il proprio istinto vitale che risiede ancora oggi quel misto di fascinazione e avversione che facilmente egli suscita.

Classe di letteratura - volume 3A
Classe di letteratura - volume 3A
Dal secondo Ottocento al primo Novecento