Ripudiata da Carlo Magno, Ermengarda è stata relegata a Brescia, nel monastero di San Salvatore. La prima parte dell’atto quarto e il coro sono incentrati sull’inesorabile agonia della donna, vittima designata della ragion di Stato, che muore incolpevole, ricordando l’amore perduto dello sposo. Accudita dalle suore e confortata dalla presenza della sorella Ansberga, Ermengarda spira illuminata dalla luce della fede.
T4 - Sparsa le trecce morbide
T4
Sparsa le trecce morbide
Adelchi, coro dell’atto IV
Sparsa le trecce morbide
sull’affannoso petto,
lenta le palme, e rorida
di morte il bianco aspetto,
5 giace la pia, col tremolo
sguardo cercando il ciel.
Cessa il compianto: unanime
s’innalza una preghiera:
calata in su la gelida
10 fronte, una man leggiera
sulla pupilla cerula
stende l’estremo vel.
Sgombra, o gentil, dall’ansia
mente i terrestri ardori;
15 leva all’Eterno un candido
pensier d’offerta, e muori:
fuor della vita è il termine
del lungo tuo martir.
Tal della mesta, immobile
20 era quaggiuso il fato:
sempre un obblìo di chiedere
che le saria negato;
e al Dio de’ santi ascendere
santa del suo patir.
25 Ahi! nelle insonni tenebre,
pei claustri solitari,
tra il canto delle vergini,
ai supplicati altari,
sempre al pensier tornavano
30 gl’irrevocati dì;
quando ancor cara, improvida
d’un avvenir mal fido,
ebbra spirò le vivide
aure del Franco lido,
35 e tra le nuore Saliche
invidiata uscì:
quando da un poggio aereo,
il biondo crin gemmata,
vedea nel pian discorrere
40 la caccia affaccendata,
e sulle sciolte redini
chino il chiomato sir;
e dietro a lui la furia
de’ corridor fumanti;
45 e lo sbandarsi, e il rapido
redir dei veltri ansanti;
e dai tentati triboli
l’irto cinghiale uscir;
e la battuta polvere
50 rigar di sangue, colto
dal regio stral: la tenera
alle donzelle il volto
volgea repente, pallida
d’amabile terror.
55 Oh Mosa errante! oh tepidi
lavacri d’Aquisgrano!
Ove, deposta l’orrida
maglia, il guerrier sovrano
scendea del campo a tergere
60 il nobile sudor!
Come rugiada al cespite
dell’erba inaridita,
fresca negli arsi calami
fa rifluir la vita,
65 che verdi ancor risorgono
nel temperato albor;
tale al pensier, cui l’empia
virtù d’amor fatica,
discende il refrigerio
70 d’una parola amica,
e il cor diverte ai placidi
gaudii d’un altro amor.
Ma come il sol che reduce
l’erta infocata ascende,
75 e con la vampa assidua
l’immobil aura incende,
risorti appena i gracili
steli riarde al suol;
ratto così dal tenue
80 obblìo torna immortale
l’amor sopito, e l’anima
impaurita assale,
e le sviate immagini
richiama al noto duol.
85 Sgombra, o gentil, dall’ansia
mente i terrestri ardori;
leva all’Eterno un candido
pensier d’offerta, e muori:
nel suol che dee la tenera
90 tua spoglia ricoprir,
altre infelici dormono,
che il duol consunse; orbate
spose dal brando, e vergini
indarno fidanzate;
95 madri che i nati videro
trafitti impallidir.
Te dalla rea progenie
degli oppressor discesa,
cui fu prodezza il numero,
100 cui fu ragion l’offesa,
e dritto il sangue, e gloria
il non aver pietà,
te collocò la ▶ provida
sventura in fra gli oppressi:
105 muori compianta e placida;
scendi a dormir con essi:
alle incolpate ceneri
nessuno insulterà.
Muori; e la faccia esanime
110 si ricomponga in pace;
com’era allor che improvida
d’un avvenir fallace,
lievi pensier virginei
solo pingea. Così
115 dalle squarciate nuvole
si svolge il sol cadente,
e, dietro il monte, imporpora
il trepido occidente:
al pio colono augurio
120 di più sereno dì.
DENTRO IL TESTO
I contenuti tematici
Partendo dalla narrazione della vicenda storica, Manzoni s’inoltra nell’analisi dei sentimenti: da una parte l’ideale morale incarnato dalla virtù incontaminata dei principi Adelchi ed Ermengarda, dall’altra la realtà politica dominata dalla smania di potere del re longobardo Desiderio e del re franco Carlo Magno. Ermengarda appare come vittima incolpevole del potere politico e delle sue dinamiche, ma proprio il dolore che essa è costretta a subire la redime dalle colpe della sua gente, i Longobardi, che – prima dell’arrivo dei Franchi – hanno a lungo oppresso le popolazioni italiche.
Come spesso accade con le maggiori liriche manzoniane, anche questo testo, che rappresenta una pausa nello sviluppo narrativo della tragedia, può essere suddiviso in tre parti. La prima (vv. 1-24) è occupata dalla raffigurazione di Ermengarda morente, alla quale il poeta rivolge pietose parole di conforto: la terza strofa, attraverso l’apostrofe al personaggio (Sgombra, o gentil, dall’ansia / mente i terrestri ardori ecc., vv. 13-14 e ss.), segna il passaggio alla sezione più propriamente lirica del coro.
La seconda parte (vv. 25-60) illustra, dopo una strofa di raccordo e di commento (vv. 19-24), il dramma morale della donna, combattuta tra il desiderio di dimenticare il passato e il continuo ripresentarsi della memoria del suo amore per Carlo: le strofe dalla quinta alla nona (vv. 25-54) formano sintatticamente un unico periodo, costruito sull’affollarsi incalzante dei ricordi; le patetiche esclamazioni della decima strofa (vv. 55-60), in cui vengono rievocati i momenti di intimità dei bagni termali, segnano una più diretta immedesimazione del poeta con l’animo di Ermengarda.
Nella terza e ultima parte (vv. 85-120), dopo una lunga similitudine che occupa ben quattro strofe (vv. 61-84, Come rugiada al cespite dell’erba inaridita ecc.), attraverso la ripresa (ai vv. 85-88) delle parole già in precedenza rivolte dal poeta a Ermengarda (vv. 13-16) viene sviluppato il motivo della provida sventura (vv. 103-104): lei, discesa dalla rea progenie (v. 97) degli oppressori, ora purificata dalla sofferenza (santa del suo patir, come era stato anticipato al v. 24) può morire compianta e placida (v. 105), con il volto finalmente rasserenato.
Tuttavia, a garantire la coerenza e la compattezza del testo, sono presenti diversi legami tra le varie parti: per esempio, oltre alla ripetizione dello stesso gruppo di versi (vv. 13-16 e 85-88), ai vv. 31 e 111 Ermengarda viene definita improvida, aggettivo al quale fa da contrappunto provida (v. 103) riferito alla sventura; al v. 51 è indicata come la tenera, aggettivo ripreso ai vv. 89-90 nel sintagma la tenera / tua spoglia.
Le scelte stilistiche
In passato gli interpreti hanno a lungo dibattuto sull’identità della voce che parla nel coro. A parlare sono le suore del convento bresciano di San Salvatore che accudiscono Ermengarda? Oppure è il poeta in prima persona? Si tratta, in realtà, di un falso dilemma: se sul piano drammatico, quello dell’azione scenica in senso stretto, a parlare possono essere le monache, su un piano poetico più profondo non c’è dubbio che Manzoni sovrapponga la propria voce a quella delle donne, interloquendo intimamente con la sventurata Ermengarda. Il poeta esprime così i propri sentimenti di pietà e di compassione, innalzando il dramma terreno della donna a un livello trascendente, nell’ambito, cioè, di una riflessione sulla fede religiosa e sul significato che essa può conferire all’esito estremo di una vita umana tanto travagliata.
Come in tutti i testi lirici manzoniani di maggior impegno morale e religioso, anche qui il tono è alto e solenne. Per esempio, spesso gli aggettivi sono anteposti ai sostantivi e molte volte collocati in posizione rilevata (alla fine del verso) tramite gli enjambement, che peraltro dilatano in un ritmo solenne la cadenza ritmata dei settenari: ansia / mente (vv. 13-14); candido / pensier (vv. 15-16); immobile / [...] fato (vv. 19-20); insonni tenebre (v. 25); irrevocati dì (v. 30); vivide / aure (vv. 33-34); empia / virtù d’amor (vv. 67-68); placidi / gaudii (vv. 71-72); tenue / obblìo (vv. 79-80); provida / sventura (vv. 103-104); incolpate ceneri (v. 107). Ancora, in numerosi casi – attraverso l’artificio dell’inversione sintattica – il verbo è posto alla fine della frase (invidiata uscì, v. 36; trafitti impallidir, v. 96) e il complemento oggetto viene collocato prima del predicato (sempre un obblìo di chiedere, v. 21; il cor diverte, v. 71; l’anima / impaurita assale, vv. 81-82; le sviate immagini / richiama al noto duol, vv. 83-84; la tenera / tua spoglia ricoprir, vv. 89-90; lievi pensier virginei / solo pingea, vv. 113-114).
A impreziosire il dettato, al quale l’autore vuole evidentemente conferire movenze classicheggianti, sono da notare gli accusativi alla greca (già segnalati in nota) e i numerosi chiasmi nelle coppie aggettivo-sostantivo: trecce morbide [...] affannoso petto (vv. 1-2); insonni tenebre [...] claustri solitari (vv. 25-26); erba inaridita [...] arsi calami (vv. 62-63). Il lessico, poi, è ricco di latinismi: lenta (v. 3), aereo (v. 37), discorrere (v. 39), ansia come aggettivo (vv. 13 e 85), claustri (v. 26), redir (v. 46), tentati triboli (v. 47), orrida (v. 57), calami (v. 63), diverte (v. 71), rea progenie (v. 97), incolpate ceneri (v. 107).
VERSO LE COMPETENZE
COMPRENDERE
1 Perché al v. 36 Ermengarda viene detta invidiata?
2 Qual è l’altro amor di cui si parla al v. 72?
3 Quali sono le sviate immagini del v. 83?
4 Perché le vergini del v. 93 sono state indarno fidanzate (v. 94)?
ANALIZZARE
5 Il testo è articolato su tre piani temporali (passato, presente e futuro): evidenzia i tre momenti nelle diverse parti del testo.
6 Rintraccia nel coro ed elenca tutti gli aggettivi impiegati dal poeta in riferimento a Ermengarda. Quale immagine del personaggio ne scaturisce?
7 Individua nel testo almeno altri due esempi di chiasmo nelle coppie aggettivo-sostantivo oltre a quelli già segnalati nel nostro commento.
8 Quale figura retorica troviamo ai vv. 23-24 (e al Dio dei santi ascendere / santa del suo patir)?
a Un chiasmo.
b Un poliptoto.
c Una metonimia.
d Un parallelismo.
9 Al v. 91 il verbo dormono è utilizzato per
a metafora.
b eufemismo.
c sineddoche.
d similitudine.
INTERPRETARE
10 Come possiamo spiegare l’immagine finale del coro (quella del sole che al tramonto squarcia le nuvole)? Quale può essere il suo valore simbolico?
sviluppare il lessico
11 Individua nel testo almeno cinque esempi di participio con valore verbale e trasformali nella corrispondente subordinata. Segui l’esempio.
supplicati altari (v. 28) ➞ altari dove sono state innalzate preghiere di supplica
scrivere per...
argomentare
12 Ha scritto Riccardo Bacchelli: «La morte d’Ermengarda, drammaticamente un episodio, anzi un fuor d’opera, fa sbiadire il regio furore di Desiderio contro papa Adriano, la missione imperiale e sacra di Carlo, l’eroismo di Adelchi, grande, ma più elegiaco che drammatico». Commenta questo giudizio critico e spiega in che senso esso può essere più o meno condiviso.
T5
La morte di Adelchi
Adelchi, atto V, scene 8-10
A causa del tradimento dei duchi longobardi, Pavia, capitale del regno, è caduta e il re Desiderio è stato fatto prigioniero. Suo figlio, il principe Adelchi, dopo la battaglia alle Chiuse si è rifugiato a Verona. Dopo aver pensato inizialmente di suicidarsi, prende la decisione di raggiungere Bisanzio, capitale dell’Impero romano d’Oriente, per chiedere aiuto all’imperatore. Ma nel tentativo di sottrarsi alla prigionia, Adelchi si incontra con una schiera di Franchi, cade ed è ferito a morte. Portato nella tenda di re Carlo, ritrova il padre Desiderio, che assiste addolorato e impotente agli ultimi momenti di vita del figlio.
Metro Endecasillabi sciolti.
deh! nol pianger; mel credi. Allor che a questa
345 ora tu stesso appresserai, giocondi
si schiereranno al tuo pensier dinanzi
gli anni in cui re non sarai stato, in cui
né una lagrima pur notata in cielo
fia contro te, né il nome tuo saravvi
350 con l’imprecar de’ tribolati asceso.
Godi che re non sei; godi che chiusa
all’oprar t’è ogni via: loco a gentile,
ad innocente opra non v’è: non resta
che far torto, o patirlo. Una feroce
355 forza il mondo possiede, e fa nomarsi
dritto: la man degli avi insanguinata
seminò l’ingiustizia; i padri l’hanno
coltivata col sangue; e omai la terra
altra messe non dà. Reggere iniqui
360 dolce non è; tu l’hai provato: e fosse;
non dee finir così? Questo felice,
cui la mia morte fa più fermo il soglio,
cui tutto arride, tutto plaude e serve,
questo è un uom che morrà.
DESIDERIO
Ma ch’io ti perdo,
figlio, di ciò chi mi consola?
ADELCHI
365 Il Dio
che di tutto consola.
(si volge a Carlo)
E tu superbo
nemico mio...
CARLO
Con questo nome, Adelchi,
più non chiamarmi; il fui: ma con le tombe
empia e villana è nimistà; né tale,
credilo, in cor cape di Carlo.
ADELCHI
370 E amico
il mio parlar sarà, supplice, e schivo
d’ogni ricordo ad ambo amaro, e a questo
per cui ti prego, e la morente mano
ripongo nella tua. Che tanta preda
375 tu lasci in libertà... questo io non chiedo...
ché vano, il veggo, il mio pregar saria,
vano il pregar d’ogni mortale. Immoto
è il senno tuo; né a questo segno arriva
il tuo perdon. Quel che negar non puoi
380 senza esser crudo, io ti domando. Mite,
quant’esser può, scevra d’insulto sia
la prigionia di questo antico, e quale
la imploreresti al padre tuo, se il cielo
al dolor di lasciarlo in forza altrui
385 ti destinava. Il venerabil capo
d’ogni oltraggio difendi: i forti contro
i caduti, son molti; e la crudele
vista ei non deve sopportar d’alcuno
che vassallo il tradì.
CARLO
Porta all’avello
390 questa lieta certezza: Adelchi, il cielo
testimonio mi sia; la tua preghiera
è parola di Carlo.
ADELCHI
Il tuo nemico
prega per te, morendo.
Scena nona
arvino*, carlo, desiderio, adelchi
ARVINO
Impazienti,
395 invitto re, chiedon guerrieri e duchi
d’esser ammessi.
ADELCHI
Carlo!
CARLO
Alcun non osi
avvicinarsi a questa tenda. Adelchi
è signor qui. Solo d’Adelchi il padre,
e il pio ministro del perdon divino
han qui l’accesso.
(parte con Arvino)
Scena decima
desiderio, adelchi
DESIDERIO
Ahi, mio diletto!
ADELCHI
O padre,
fugge la luce da quest’occhi.
DESIDERIO
400 Adelchi,
no, non lasciarmi!
ADELCHI
O Re de’ re tradito
da un tuo Fedel, dagli altri abbandonato!...
vengo alla pace tua: l’anima stanca
accogli.
DESIDERIO
Ei t’ode: oh ciel! tu manchi! ed io...
405 in servitude a piangerti rimango.
DENTRO IL TESTO
I contenuti tematici
Siamo alle battute finali della tragedia. Adelchi, ormai vicino alla morte, sente tutto il peso delle conseguenze del proprio agire politico-militare (Molti sul campo / cadder così per la mia mano, vv. 323-324) e contempla come dall’alto le vicende terrene, avendo finalmente compreso che ogni fatto umano è dominato dal volere di Dio: non è stato Desiderio – dice – a volere la guerra contro Carlo, bensì il Signor d’entrambi (v. 329), Colui che è infinitamente superiore a ogni potestà di questo mondo.
La visione della Storia espressa da Adelchi nel suo primo monologo è cupa e pessimistica: loco a gentile, / ad innocente opra non v’è: non resta / che far torto, o patirlo (vv. 352-354). Per questo, Desiderio si deve rallegrare di aver perso il potere: Godi che re non sei, godi che chiusa / all’oprar t’è ogni via (vv. 351-352). Se non è possibile agire correttamente, meglio allora non poter agire affatto. Poiché il potere si basa sull’ingiustizia e sulla violenza, la sconfitta è provvidenziale in quanto essa libera il potente dalla responsabilità delle sue azioni: così, la perdita del potere corrisponde al recupero dell’innocenza morale.
All’altezza cronologica della composizione della tragedia, la religione non è ancora vista da Manzoni come impulso a un’azione nella società (come sarà poi nei Promessi sposi), bensì quasi una sorta di privilegio spirituale, tutto individuale e interiore, di alcune anime elette. I personaggi dell’Adelchi sono divisi tra i campioni della forza, della politica e della ragion di stato da una parte e, dall’altra, gli spiriti toccati dalla Grazia. Tra queste due tipologie umane non può esservi né confronto né scontro, poiché esse parlano linguaggi diversi: la pace a cui aspira Desiderio (la fida / ora di pace dei vv. 333-334) è la tranquillità terrena, mentre la pace a cui allude Adelchi (Ora per me di pace, / credilo, o padre, è giunta, vv. 334-335) è la pace ultraterrena, quella che si consegue soltanto nella piena comunione con Dio.
Il cristianesimo manzoniano qui è inattivo, impotente, sconsolato, ancora lontano da quello combattivo e militante, per le gioie del Cielo ma anche per l’affermazione della giustizia sulla Terra, incarnato, nei Promessi sposi, da personaggi come fra’ Cristoforo, il cardinal Federigo o anche la stessa Lucia. Manca ancora, insomma, quella fede nel valore dell’agire, quella fiducia nella possibilità degli uomini di collaborare al disegno provvidenziale, quella speranza di un riscatto che costituiranno la sostanza morale più profonda del romanzo, con il suo riconoscimento positivo dell’agire terreno: la Storia, allora, non sarà più considerata il regno irredimibile del male, bensì svelerà la possibilità di riconoscervi un preciso significato.
Le scelte stilistiche
Nelle ultime scene della tragedia, lo stile è particolarmente solenne, come si conviene alla conclusione di una vicenda tanto drammatica: alla conclusione Manzoni attribuisce infatti la funzione di proporre in maniera chiara il messaggio che intende trasmettere. Diversi sono però i timbri delle voci che si alternano sulla scena. L’eloquio di Adelchi – il cui ruolo è anche qui, più che mai, quello del protagonista – si distingue per il tono accorato e sentenzioso, caratterizzato da frasi brevi ed essenziali (Gran segreto è la vita, e nol comprende / che l’ora estrema, vv. 342-343; Una feroce / forza il mondo possiede, e fa nomarsi / dritto, vv. 354-356). Le esclamazioni di Desiderio (Ahi lasso! ahi guerra atroce! / Io crudel che la volli; io che t’uccido!, vv. 327-328; Oh desiato da quest’occhi, oh quanto / lunge da te soffersi!, vv. 330-331 ecc.) attingono invece alla sfera del patetico, esprimendo il disperato dolore di un padre di fronte alla morte del figlio. Appare invece retoricamente e freddamente impostata la voce di Carlo (la tua preghiera / è parola di Carlo, vv. 391-392; Adelchi / è signor qui, vv. 396-397), il quale si presenta come il pio condottiero «sempre un poco convenzionale e accademico nella sua pietà» (Gianni): la pietà in lui non è mai disgiunta dalla ragion di stato, che la bilancia e ne limita la portata.
VERSO LE COMPETENZE
COMPRENDERE
1 Aiutandoti con le note, fai la parafrasi del primo monologo di Adelchi (vv. 338-364) e poi sintetizza in poche righe la sua concezione del potere.
2 Perché al v. 328 Desiderio accusa sé stesso di essere colpevole della morte del figlio?
3 Per quale ragione Adelchi afferma che con la propria morte il soglio di Carlo sarà più fermo (v. 362)?
4 Che cosa chiede Adelchi a Carlo?
ANALIZZARE
5 Individua nel testo altri esempi del tono patetico di Desiderio (oltre a quelli già segnalati nel commento).
6 Quale figura retorica riconosci ai vv. 356-359 (la man degli avi [...] altra messe non dà)? Spiegane il significato.
INTERPRETARE
7 Quali potrebbero essere i ricordi penosi sia per Adelchi sia per Carlo, a cui il primo allude ai vv. 370-372 (E amico [...] ad ambo amaro)?
8 Nel narrare la morte di Adelchi, Manzoni non si è attenuto alla verità storica. Infatti, nella realtà, Adelchi riuscì a raggiungere Bisanzio e morì vari anni più tardi nel tentativo, al comando di truppe greche, di muovere guerra ai Franchi in Italia. Perché, a tuo avviso, questa discrepanza nel racconto manzoniano?
scrivere per...
confrontare
9 Metti a confronto la morte di Adelchi con quella di Ermengarda, evidenziando analogie e differenze tra questi due momenti della tragedia in un testo di circa 30 righe.
argomentare
10 Adelchi – con l’animo teso a nobili imprese, ma condannato a compierne di inique – può essere visto come un tipico eroe romantico, nel dramma (che egli incarna) di una frattura insanabile tra ideale e reale, tra aspirazioni e concretezza della vita. Argomenta questa tesi in un testo di circa 40 righe.
Le odi civili
L’impegno politico-patriottico Sensibile sin dall’adolescenza ai problemi della Storia, Manzoni attinge dalla tradizione illuministica l’esigenza di rinnovamento della società italiana. Inizialmente non immune, come la maggioranza dei giovani della sua generazione, al fascino della Rivoluzione francese, egli abbandona progressivamente le suggestioni del giacobinismo; poi la sua conversione religiosa e quella letteraria alle teorie romantiche lo spingono a concepire la Storia come il terreno in cui la Provvidenza agisce al fianco dell’uomo per riscattarlo dalla tirannide e dall’assenza di libertà.
Tuttavia Manzoni consacra la propria vita agli studi e non partecipa mai in prima persona agli eventi politici della sua epoca. Ciò non significa, però, che sia distratto o indifferente rispetto alle grandi questioni che dividono la società dell’Ottocento: è anzi, con le armi della letteratura, uno dei fondamentali ispiratori del Risorgimento.
Per tutta la vita, in effetti, Manzoni sostiene con decisione e coerenza l’ideale dell’Unità d’Italia, sin dai tempi in cui questo non era ancora diventato patrimonio largamente condiviso: il suo incitamento al riscatto nazionale è unito sempre alla riflessione etica, all’interno di una prospettiva cristiana, che nella liberazione dei popoli coglie una superiore volontà divina. La prima occasione per esprimere i propri sentimenti patriottici gli è offerta dalla caduta di Napoleone, da cui scaturisce la canzone Aprile 1814. Poco più tardi, nel 1815, l’appello di Gioacchino Murat agli italiani lo induce a scrivere Il proclama di Rimini, lasciato incompiuto al momento della vittoria degli austriaci.
MARZO 1821
Un appello di patriottismo Di maggiore interesse è Marzo 1821, un’ode anch’essa composta in un frangente drammatico, in occasione dei moti carbonari che di lì a poco saranno repressi con violenza. Manzoni immagina che l’esercito piemontese di Carlo Alberto abbia oltrepassato il Ticino, e auspica che mai più il fiume costituisca il confine con la Lombardia soggetta all’Impero austriaco.
Il testo è disseminato di apostrofi minacciose agli stranieri e di esortazioni agli abitanti dell’Italia: «O compagni sul letto di morte / o fratelli su libero suol». L’idea di patria si compendia in una formula divenuta celeberrima: «una d’arme, di lingua, d’altare, / di memorie, di sangue e di cor». L’autore individua cioè l’unità ideale della nazione nella comunanza degli eserciti, della lingua parlata, della religione professata, delle memorie storiche, dell’etnia e dei sentimenti profondi di un popolo. Questi versi diventarono una bandiera del patriottismo risorgimentale nel 1848, quando – dopo le Cinque Giornate di Milano – l’ode, fino ad allora rimasta prudentemente chiusa in un cassetto della scrivania del poeta, poté finalmente andare in stampa.
Il cinque maggio
Scritta di getto nell’estate del 1821, alla notizia della morte di Napoleone, l’ode riassume la vicenda terrena dell’imperatore in versi divenuti proverbiali, sin dal celeberrimo attacco: «Ei fu». Orazione funebre, coro di una tragedia non scritta, inno sacro per il più laico degli eroi moderni, Il cinque maggio è il primo componimento in cui Manzoni scrive di Napoleone, che era stato già ritratto in vita da grandi poeti italiani tra cui Monti, Foscolo, Porta.
La Grazia che riscatta Ci troviamo dinanzi a un eroe colto non nel cuore delle sue imprese fulminanti, ma nel momento della sconfitta, che assume tratti provvidenziali. Dalla nascita modesta alle glorie raccolte in tutto il mondo, la parabola di un’esistenza eccezionale si conclude con l’oltraggio dell’esilio, che tuttavia consente a Napoleone di riconoscere la miseria dell’effimera esistenza umana. «Fu vera gloria?» è la domanda che il poeta pone a proposito delle sue imprese politiche e militari: ai suoi occhi la sentenza che pronunceranno i posteri conta infinitamente meno del giudizio di Dio.
La morte di un grande protagonista della Storia costituisce così l’occasione per meditare sul valore da attribuire alla gloria mondana: l’autore esalta in tal modo l’intervento della Grazia, che giunge a confortare con la sua presenza la solitudine di un’anima transitata dalle luci del trionfo all’ombra della prigionia.
Classe di letteratura - volume 2
Dal Seicento al primo Ottocento