La madre di Cecilia

La madre di Cecilia


di Alessandro Manzoni, da I promessi sposi

Guarito dalla peste, Renzo torna a Milano in cerca di Lucia e trova una città colpita dall’epidemia di peste e spopolata. Per le strade si rincorrono le urla e le risate dei monatti (le persone che caricano i cadaveri degli appestati sui carri e li trasportano fino alle fosse dove saranno sepolti). I sopravvissuti si barricano nelle case. La paura sembra avere ucciso la compassione. Eppure, nel generale degrado, ancora sopravvive un po’ di umanità.

Entrato nella strada, Renzo allungò il passo, cercando di non guardare quegli ingombri, se non quanto era necessario per scansarli; quando il suo sguardo incontrò un oggetto che ispirava una singolare pietà, una pietà che invogliava l’animo a contemplarlo; al punto che si fermò, quasi senza volerlo.


Scendeva dalla soglia di uno di quegli usci, e veniva verso il carro, una donna, il cui aspetto rivelava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non rovinata, da una grande sofferenza e da un languore [debolezza] mortale: quella bellezza delicata e nello stesso tempo maestosa che brilla nel sangue lombardo.


La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davano lacrime, ma portavano segno di averne sparse tante; c’era in quel dolore qualcosa di pacato e di profondo, che attestava [dimostrava] un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era solo il suo aspetto che, tra tante miserie, la rendeva così pietosa, e ravvivava per lei quel sentimento ormai stanco nei cuori.


Portava in braccio una bambina di forse nove anni, morta; ma tutta ben accomodata, coi capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. E non la teneva distesa, ma sorretta, a sedere su un braccio, col petto appoggiato al suo petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca come cera penzolava da una parte, con una certa inanimata pesantezza, e la testa posava sul braccio della madre, con un abbandono più forte del sonno. 

Dico “della madre” perché, se anche la somiglianza dei volti non lo avesse dimostrato, lo avrebbe detto chiaramente quello dei due volti che esprimeva ancora un sentimento.

Un turpe [volgare] monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, però con una specie di insolito rispetto, con un’esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, «no!» disse: «non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete». 

Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: «promettetemi di non levarle un filo [nulla] di dosso, né di lasciare che altri osi farlo, e di metterla sotto terra così».


Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso [rispettoso], più per il nuovo sentimento da cui era soggiogato [dominato] che per l’inaspettata ricompensa, si affaccendò a fare un po’ di posto sul carro per la morticina.


La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come su un letto, ce l’accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse le ultime parole: «addio, Cecilia! Riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restare sempre insieme. Prega intanto per noi; che io pregherò per te e per gli altri». Poi si voltò di nuovo verso il monatto e disse: «Voi, passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola».


Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, si affacciò alla finestra, tenendo in braccio un’altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie [funerali] della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi sparì dalla finestra.


E che altro poté fare, se non posare sul letto l’unica figlia che le rimaneva, e mettersi accanto a lei per morire insieme? Come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccio, al passare della falce che pareggia tutte le erbe del prato.


«O Signore!», esclamò Renzo: «Esauditela! Tiratela a voi, lei e la sua creaturina: hanno patito abbastanza! Hanno patito abbastanza!».

 >> pagina 80 
DENTRO IL TESTO

È la pagina più commovente del romanzo, più volte riscritta da Manzoni.

Il tono poetico del brano contrasta con il resto del capitolo che descrive la peste a Milano e in cui la città è rappresentata come un luogo infernale, dove i cadaveri vengono ammassati sui carri come sacchi «in un mercato di granaglie».

In questo contesto di desolazione, fa il suo ingresso la madre di Cecilia, immagine commovente del dolore materno. Manzoni conclude l’episodio con una visione universale della morte, tramite la similitudine classica della falce che, tagliando, pareggia tutta l’erba del prato.

VERIFICA

Rispondi alle domande


1. Il monatto si comporta con la madre di Cecilia:

  • come con tutti gli altri appestati.
  • diversamente dal solito.

Perché si comporta in quel modo?

 


2. Perché la madre dice al monatto di tornare più tardi?

 


3. La frase «Come il fiore rigoglioso cade insieme col fiorellino ancora in boccio al passare della falce» è una:

  • metafora.
  • similitudine.

I saperi fondamentali di letteratura - volume 2
I saperi fondamentali di letteratura - volume 2
Dal Seicento al primo Ottocento