T2 - Chi sono? (A. Palazzeschi)

T2

Aldo Palazzeschi

Chi sono?

  • Tratto da Poemi, 1909
  • Metro versi liberi, per lo più di misura breve o brevissima
L’autore

Aldo Palazzeschi (all’anagrafe Aldo Giurlani) nasce a Firenze nel 1885. Studente in ragioneria, presto si appassiona alla letteratura ed esordisce nel 1905 con la raccolta poetica I cavalli bianchi (1905), edita a cura di Cesare Blanc, che era in realtà il nome del suo gatto. Nel 1909 si avvicina al movimento futurista, interpretato originalmente nelle poesie dell’Incendiario (1910) e nel romanzo Il codice di Perelà (1911). Allo scoppio della Grande guerra è fra i pochissimi scrittori italiani ad attestarsi su posizioni pacifiste. In seguito ottiene grande successo con una serie di romanzi dalla struttura tradizionale, venati di ironia, fra i quali vanno ricordati almeno Sorelle Materassi (1934) e I fratelli Cuccoli (1948). Dal 1941 si trasferisce a Roma, dove vivrà per decenni, fatti salvi i lunghi soggiorni estivi a Venezia. Continua a scrivere sino in età avanzata, come dimostrano i romanzi Il doge (1967), Stefanino (1969), Storia di un’amicizia (1971) e le raccolte poetiche Cuor mio (1968) e Via delle cento stelle (1972). Muore a Roma nel 1974.

In pochi versi leggeri Palazzeschi schizza un autoritratto e si rappresenta nei panni di giocoliere, sospeso fra tristezza, ironia e stravaganza, ben lontano dalle pose severe dei poeti tradizionali.

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Audiolettura

Son forse un poeta?

No, certo.

Non scrive che una parola, ben strana,

la penna dell’anima mia:

5      “follia”.

Son dunque un pittore?

Neanche.

Non ha che un colore

la tavolozza dell’anima mia:

10    “malinconia”.

Un musico, allora?

Nemmeno.

Non c’è che una nota

nella tastiera dell’anima mia:

15    “nostalgia”.

Son dunque… che cosa?

Io metto una lente

davanti al mio cuore

per farlo vedere alla gente.

20    Chi sono?

Il saltimbanco dell’anima mia.


Aldo Palazzeschi, Tutte le poesie, a cura di A. Dei, Mondadori, Milano 2002

 >> pagina 95 

a TU per TU con il testo

Proviamo a cercare in internet le immagini associate alla parola “poeta”. Scorrendo i risultati che ci restitui­sce qualunque motore di ricerca, troviamo quasi solo uomini, tutti in atteggiamento pensoso, triste, malinconico, spesso davanti a penna e calamaio. Alcuni hanno in testa una corona d’alloro, simbolo nei secoli andati di gloria letteraria. Il presupposto è che la poesia abbia a che fare con il sacro, viva in una sfera separata, coltivata da uomini di eccezionale sensibilità. Palazzeschi spazza via allegramente queste idee in una manciata di versi, che suonano come uno sberleffo. Lui è forse un poeta? Sì, certo. Ma dobbiamo intenderci sulla parola che, in ambito popolare, da sempre è riservata a chi vive a modo proprio, senza troppo riguardo nei confronti delle regole. «Quello? Cosa vuoi, sarà un poeta», dicono le persone serie, accompagnando la frase con un’alzata di spalle e un mezzo sorriso di compatimento. Ma sotto sotto c’è sempre un po’ d’inquietudine, perché il saltimbanco, quando è intelligente, non fa soltanto ridere: proietta l’ombra del dubbio sulle nostre convinzioni, i nostri atteggiamenti, i nostri schemi mentali. Con le sue piroette, ci costringe a rimetterci in discussione.

Analisi

Palazzeschi inizia il componimento con una esplicita contraddizione: se da un lato scrive in versi, dall’altro rifiuta l’etichetta di poeta (vv. 1-2). Tale incoerenza si spiega tenendo conto della profonda crisi alla quale era andata incontro dalla metà dell’Ottocento la figura del poeta. Come afferma in un altro testo scritto negli stessi anni, E lasciatemi divertire, «i tempi sono cambiati, / gli uomini non domandano più nulla / dai poeti». In altre parole: la società sembra avere voltato le spalle ai poeti, i quali devono prendere atto della loro inutilità sociale.

Come reagire a questa nuova condizione? Alcuni letterati indulgono nei loro scritti al vittimismo, altri invece alla provocazione dissacrante. Palazzeschi sperimenta entrambe le soluzioni: Chi sono? è un testo che fa da ponte fra queste due diverse istanze. Da un lato si rinvengono forti tracce dell’influenza esercitata dai Crepuscolari, che amavano dipingersi come giovani mesti e sofferenti: ecco dunque che l’io lirico sente nel suo cuore malinconia (v. 10) e nostalgia (v. 15). Dall’altro lato emerge la sua propensione al grottesco, rintracciabile nel riferimento alla follia (v. 5) e nell’autodefinizione di saltimbanco con la quale la poesia si chiude.

I contenuti irriverenti del componimento poggiano su una struttura calibrata con attenzione e rigore. I primi quindici versi si possono dividere in tre gruppi di cinque versi, che si rispondono con perfetta simmetria. Ogni gruppo è costruito a partire da un botta e risposta, nel quale il poeta imposta una sorta di dialogo con se stesso, sigillato dalla stessa rima in -ia. A una domanda segue una risposta negativa, accompagnata da un chiarimento. Ne deriva un andamento da filastrocca, ritmato dall’espressione anima mia (vv. 4, 9, 14, 21). Il lettore non assiste a un sofferto scavo nell’interiorità, ma a un ragionamento lineare, che pure chiama in causa condizioni e sentimenti cupi, quali sono la follia (v. 5), la malinconia (v. 10) e la nostalgia (v. 15): termini valorizzati dalle virgolette, dal fatto che da soli occupano un intero verso e dalla pausa indotta dai due punti che li precedono. Gli ultimi sei versi variano questo schema, proponendo finalmente una risposta di segno positivo alla domanda su chi sia davvero l’io lirico.

 >> pagina 96 

Né poeta, né pittore, né musicista ma saltimbanco, dunque. Chi scrive sostiene di eccellere in una disciplina meno nobile: l’arte circense dei saltimbanchi. Follia, malinconia e nostalgia convergono a creare il sottofondo inquieto dal quale esplode alla fine il grottesco, con la chiara intenzione di scandalizzare e fare a pezzi le convenzioni di una letteratura sentita come terribilmente invecchiata. La poesia diventa un atto giocoso, dal quale può scaturire anche il riso: che è poi ciò che ci distingue dalle bestie, come Palazzeschi scriverà qualche anno più tardi in un saggio paradossale, Il controdolore, nel quale esorta a sghignazzare nelle situazioni in cui abitualmente si piange, funerali compresi.

I versi non sono altro che una lente collocata davanti al cuore, per farlo vedere alla gente (v. 19): una forma di esibizionismo, con la quale ci si mette a nudo. Ma restare inerme a subire un esame non è nella natura del saltimbanco, che afferma e smentisce, dice e si contraddice, mosso da un impulso irresistibile e da un istintivo desiderio di vivere. Non si può scordare del resto che il termine “saltimbanco” è passato nel tempo a indicare anche chi è un ciarlatano, un impostore. E allora come fidarsi di lui? È impossibile, perché – come ci suggerisce Palazzeschi – la poesia è un dolcissimo inganno, un’illusione che seduce in primo luogo chi la scrive.

Laboratorio sul testo

COMPRENDERE

1. A ciascuna delle professioni indicate come termine di paragone da Palazzeschi sono associati i relativi “strumenti del mestiere”, astratti e concreti, e un preciso stato d’animo. Indica tali corrispondenze nella tabella sottostante.


Professione Strumento astratto Strumento concreto Stato d’animo
       
       
       

ANALIZZARE E INTERPRETARE

2. Palazzeschi dichiara di non essere un poeta (vv. 1-2), eppure sta scrivendo proprio una poesia. Come spieghi questa contraddizione?


3. Quale sua particolare caratteristica o propensione vuol mettere in luce Palazzeschi, definendosi un saltimbanco?

  • A La libera creatività. 
    B Il buonumore. 
  • C Il rimpianto. 
  • D La tristezza. 


4. Perché, secondo te, i versi 5, 10 e 15 sono formati da una sola parola?


5. Quale ti sembra la più corretta interpretazione dei versi che chiudono il componimento (vv. 17 e sgg.)?

  • A Il poeta intende raccontare se stesso in maniera schietta e sincera, ma non riesce a trovare il coraggio di farlo. 
    B Il poeta vuole esibire la sua padronanza della tecnica poetica, che paragona all’abilità di un saltimbanco nel circo. 
  • C Il poeta vuole mostrare gli aspetti più profondi della sua anima, ma allo stesso tempo fa capire al lettore che questa sua sincerità non è credibile. 
  • D Il poeta vorrebbe tenere nascosti i suoi sentimenti e lasciare al lettore la libertà di interpretarli nella maniera più opportuna. 


6. La ripetizione di dell’anima mia (vv. 4, 9, 14 e 21) è

  • A un’anafora. 
    B un’epifora. 
  • C un’anastrofe. 
  • D una personificazione. 

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COMPETENZE LINGUISTICHE

7. Lessico. I nomi composti. Saltimbanco è un nome composto, formato da un verbo e da un nome. Cerca sul dizionario questi altri nomi composti e trascrivine i significati sul tuo quaderno.


• passaparola • tagliacarte • prendisole • guastafeste • lustrascarpe

PRODURRE

8. Scrivere per esprimere.  La poesia di Palazzeschi assomiglia, per l’andamento metrico-ritmico e per la ricorrenza della stessa espressione (dell’anima mia) alla fine di ogni gruppo di versi, a una vera e propria filastrocca. Prova a scrivere un testo simile, magari da scandire come se fosse un rap, composto da almeno tre brevi strofe che si concludano tutte con l’espressione “il perché non lo so”.

LETTERATURA E NON SOLO: SPUNTI DI RICERCA INTERDISCIPLINARE

STORIA

Chi erano i saltimbanchi? In che modo vivevano e come venivano considerati dalla società? Fai una ricerca su questo argomento.

SPUNTI PER DISCUTERE IN CLASSE

Pensi anche tu, come la società del tempo di Palazzeschi, che l’uomo moderno non abbia più bisogno della poesia? E se così fosse, a quali altre forme artistiche affideresti il compito di esprimere – e di far provare – emozioni?

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Se ti è piaciuto…

Artisti e pagliacci

A partire dal secondo Ottocento scrittori e artisti sentono con forza crescente il richiamo esercitato da uno spettacolo esotico e popolare al tempo stesso quale è il circo. Clown, acrobati, giocolieri, domatori, fenomeni da baraccone divengono un soggetto amatissimo dai pittori, specie in Francia. Alcuni, come Edgar Degas (1834-1917) e Henri de Toulouse-Lautrec (1864-1901), ritraggono i momenti clou degli spettacoli; altri, come Marc Chagall (1887-1985) e Pablo Picasso (1881-1973), si concentrano sull’umanità dei performer, gettando lo sguardo dietro le quinte.

I saltimbanchi devono impegnarsi allo spasimo per divertire il pubblico; ma la loro è una dura vita di nomadi, a un passo dalla povertà. Questo contrasto tocca la massima intensità nella figura dei pagliacci. Il maestro che li ha contemplati con maggior partecipazione, riconoscendo in loro una perfetta metafora dell’artista, se non addirittura dell’uomo moderno sospeso tra farsa e tragedia, è il belga Georges Rouault (1871-1958).

In campo musicale, l’artista che in Italia meglio ha incarnato questo spirito è il milanese Enzo Jan­nacci (1935-2013), che con le sue canzoni stralunate ha saputo sorprendere, com­muovere e divertire il pubblico. Non a caso molte di esse sono state scritte in collaborazione con Dario Fo (1926-2016), che a teatro per decenni ha nobilitato il ruolo del giullare.

Anche il cinema ha manifestato un forte interesse per la figura del clown, spesso interpretata in chiave patetica, come avviene nei film del grande regista Federico Fellini (1920-1993).

Più di recente il lato inquietante dei clown è diventato un ingrediente consueto nelle pellicole horror. Punto di partenza di questo filone è il romanzo It di Stephen King (n. 1947), dal quale sono stati ricavati una miniserie televisiva (1990) e un film (2017) diretto da Andrés Muschietti.

L’emozione della lettura - edizione gialla - volume B
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Poesia e teatro