1. Un connubio naturale

1. Un connubio naturale

La relazione tra poesia e musica è molto antica e affonda le sue origini nella notte dei tempi, vista l’affinità naturale tra le due forme d’espressione artistica. Entrambe obbediscono infatti al principio della regolata ricorrenza di determinati fenomeni sonori nel tempo. Mentre pittura, scultura e architettura si relazionano allo spazio e rappresentano elementi collocati in un ambiente preciso, musica e poesia dispongono i loro suoni in successione, con una certa durata temporale.

Come abbiamo visto, la poesia basa la propria struttura sul ritorno periodico di certe combinazioni foniche nelle rime, di un determinato numero di sillabe nei versi e, di conseguenza, sulla sequenza più o meno regolare degli accenti che, opportunamente distribuiti nei versi, conferiscono ritmo al componimento. Le parole, in poesia, contano non solo per il loro significato, ma anche per l’accento, il tono, la durata. La loro efficacia si misura anche in base alla sonorità, alla capacità di adattarsi agli schemi metrici e ritmici dettati dalle convenzioni, dal gusto e dalla cultura dell’epoca, né più né meno come accade per la composizione di un brano musicale: per queste ragioni possiamo dire che la poesia è di per sé musica verbale.

Possiamo apprezzare un testo poetico senza leggerlo ad alta voce, magari assimilandolo solo nella nostra silenziosa interiorità? Gli antichi Greci avrebbero risposto senz’altro di no. Non a caso, per designare l’insieme delle arti presiedute dalle Muse, essi usavano l’espressione mousiké téchne, che sottolineava la simbiosi – a loro giudizio essenziale e inevitabile – di parola, melodia e danza.

Del resto il nome stesso “lirica” richiama un rapporto profondo con la dimensione pubblica dell’esecuzione musicale e del canto. Benché infatti con questo termine oggi si intenda comunemente l’espressione più intima e privata del soggetto poetico, in origine il genere lirico prevedeva un’esecuzione recitata o un canto vero e proprio, accompagnato dai suoni di uno strumento musicale detto, appunto, “lira”.

Non si tratta certo di un’eccezione: nella terminologia del linguaggio poetico, le parole dal significato schiettamente musicale abbondano. I poemi epici dell’antichità erano composti di “canti”, come nel Medioevo la Divina Commedia e, più tardi, i poemi cavallereschi del Rinascimento; e le forme metriche più ricorrenti della nostra lirica si chiamano “sonetto”, “canzone”, “ballata”, “ode”.

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EmozionArti
Il canto del vento

Quante poesie e canzoni cercano di raccontare la voce del mare e del vento? Se provi a pensarci te ne verranno in mente di sicuro alcune. C’è un’opera a San Sebastián, nei Paesi Baschi, che lascia la parola alla loro voce: è il Pettine del vento dello scultore spagnolo Eduardo Chillida (1924-2002). La baia dove ha realizzato questo lavoro era uno dei suoi luoghi prediletti, nella sua città natale. Tre sculture in acciaio, ancorate alla roccia in modo tale che il nostro sguardo abbracci tutto il paesaggio, “pettinano” con i loro denti piegati il vento che entra nella baia. Nella pavimentazione della piccola piazza, realizzata dall’architetto Luis Peña Ganchegui, sono aperti dei fori attraverso i quali il vento “respira”, emette spruzzi d’acqua e “canta”.

2. Dalle origini al melodramma

Alle sue origini, prima dell’invenzione della scrittura, tutta la poesia era legata alla musica: lo dimostra la figura dell’aedo che, con il solo supporto della memoria e accompagnandosi con la lira, intonava di fronte al pubblico adunato nelle corti aristocratiche le gesta epiche narrate nei miti. L’aedo, il cui nome deriva dal verbo greco aeídein, cioè “cantare”, riuniva in sé le funzioni di poeta, di cantore e di musicista: avvalendosi delle formule metriche e ritmiche che aveva appreso dalla viva voce dei suoi predecessori, cantava le storie degli eroi durante riunioni solenni o banchetti.

Anche durante il Medioevo l’interazione tra poesia e musica è costante. Tra il X e il XIII secolo incontriamo i cosiddetti “trovatori” e “trovieri”: i primi sono poeti in lingua d’oc della Francia meridionale, in particolare della Provenza; i secondi quelli in lingua d’oïl della Francia settentrionale. Gli uni e gli altri scrivono versi accompagnati da musica, spesso interpretati da “menestrelli”, figure di cantori e musici professionisti stipendiati dal raffinato pubblico delle corti.

L’influenza di questa tradizione culturale fu fortissima in tutta l’Europa: anche Dante e Petrarca, i padri della lirica in volgare italiano, ammirarono e imitarono le poesie dei trovatori, che esprimevano, con grande eleganza formale, le passioni dell’amore cavalleresco, la bellezza della natura, i valori della gentilezza del cuore e della nobiltà dell’animo.

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Al Cinquecento risale invece il successo di un altro genere di poesia per musica, il madrigale. Nato come componimento popolare di argomento per lo più pastorale, viene poi praticato da autori colti, che di solito lo strutturano in due-tre strofe brevi e un ritornello finale in due versi, e cantato senza accompagnamento musicale da più voci. Più tardi, a partire dalla metà del Cinquecento, il madrigale è invece accompagnato dalla musica, che dialoga con il testo non tanto sul piano del ritmo quanto su quello dei significati, valorizzando o rendendo con maggiore enfasi le sfumature emotive del testo.

Tra la fine del XVI secolo e l’inizio del XVII, nasce a Firenze un genere chiamato – con termine di derivazione greca – melodramma [#1]. Si tratta, come dice la parola, di teatro in musica: un dramma, scritto da un poeta (il librettista), che però non viene recitato da attori ma interpretato da cantanti. La locuzione che riassume questa nuova tendenza è “recitar cantando”: si esprime così la centralità della parola in spettacoli che, almeno fino alla fine dell’Ottocento, saranno assai amati sia dal pubblico aristocratico sia da quello popolare.

Diverse sono le tipologie di rappresentazione melodrammatica: l’opera messa in scena può essere buffa, comica o tragica; contenere numeri di balletto, proporre una vicenda nota e classica o fondarsi su un soggetto originale. Costante è tuttavia l’alternanza tra scene dove i personaggi interagiscono e parlano tra loro (i cosiddetti “recitativi”) e momenti in cui l’azione si ferma e uno dei personaggi sulla scena prende la parola per confessare in più o meno lunghi monologhi sentimenti, dubbi, gioie o dolori (questi pezzi solistici vengono chiamati “arie”).

Molte arie, isolate dalla vicenda, hanno acquistato grandissima notorietà presso i ceti più bassi e hanno rivaleggiato, per tutto l’Ottocento, con i canti popolari in dialetto, contribuendo alla diffusione della lingua italiana: così è accaduto, per esempio, ai capolavori dei grandi maestri del melodramma, da Gioacchino Rossini (1792-1868) a Vincenzo Bellini (1801-1835), da Giuseppe Verdi (1813-1901) a Giacomo Puccini (1858-1924).

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3. Poesia e musica nel Novecento

La tradizione della poesia per il canto, evolutasi nel corso del tempo, ha radicalmente modificato le sue forme e si è via via adeguata all’inarrestabile processo di crescita degli spettatori, divenuti, nell’ultimo secolo, un pubblico di massa. I contatti tra le diverse culture nazionali, la scoperta dell’importanza delle tradizioni popolari e folcloriche, la sempre maggiore influenza della cultura d’oltreoceano hanno così riconfigurato, nel Novecento, l’idea stessa di poesia per musica: l’egemonia del melodramma è tramontata e, oggi, è la canzone a incidere sulla nostra quotidianità.

Non è più possibile, infatti, immaginare la vita di tutti i giorni senza la colonna sonora della hit del momento, del tormentone di successo, dell’ultimo disco del cantante di moda, diffusi dai mezzi di comunicazione nelle nostre case, nei bar, nei supermercati, dappertutto. Come giudicare una tale produzione culturale destinata alle masse? È ancora possibile, come per decenni hanno fatto molti intellettuali, considerare la musica leggera un fenomeno sociale privo di qualità culturale, di contenuti impegnati e destinato al semplice intrattenimento?

Le canzoni non sono “solo canzonette” di facile consumo, evidentemente, come dimostra l’attività, lungo la seconda metà del Novecento fino a oggi, di importanti cantautori, al tempo stesso poeti, musicisti e interpreti di brani entrati nell’immaginario collettivo globale. Stili, forme e contenuti sono i più disparati: al tema sempreverde del sentimento amoroso si affiancano riflessioni esistenziali, questioni sociali e politiche, voci di protesta giovanile.

Le esperienze più interessanti e innovative [#2] si sviluppano in particolare nei paesi anglosassoni e in Francia. Nel primo caso, autori come l’americano Bob Dylan (n. 1941; T1, p. 277) e l’inglese John Lennon (1940-1980; T3, p. 288), sia pure con caratteri e indirizzi musicali diversi, propongono al pubblico testi caratterizzati dal­l’impegno civile [#3], che anticipano o promuovono le rivendicazioni della contestazione studentesca del Sessantotto e degli anni successivi.

In Francia, si afferma invece una vera e propria scuola di cantautori, i cosiddetti chansonniers, che accompagnano con melodie suggestive testi ricchi di echi poetici e di atmosfere malinconiche, segnate dall’inquietudine e dal disagio: i nomi più celebri sono quelli di Édith Piaf (1915-1963), Georges Brassens (1921-1981), Jacques Brel (1929-1978).

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A questi modelli si ispira la canzone d’autore italiana che matura a Genova negli anni Sessanta. È difficile individuare un comune orizzonte ideologico che unisca esperienze di artisti quali Umberto Bindi (1932-2002), Bruno Lauzi (1937-2006), Luigi Tenco (1938-1967), Gino Paoli (n. 1934) e Fabrizio De André (1940-1999; T2, p. 283): comuni a questi interpreti sono tuttavia l’amore per la propria città, cantata spesso con dolente realismo, l’inclinazione a raccontare passioni infelici, un certo anticonformismo legato alla polemica denuncia della morale piccolo-borghese.

Anche Milano, Bologna e Roma hanno ospitato esperienze di grande interesse. Sono legati al capoluogo lombardo cantautori come Enzo Jannacci (1935-2013) e Giorgio Gaber (1939-2003), caratterizzati da accentuata teatralità e spirito irriverente [#4]; Bologna è invece la patria italiana della canzone politicamente impegnata con artisti come Francesco Guccini (n. 1940) e Claudio Lolli (n. 1950); nella capitale, infine, si segnala, tra gli altri, Francesco De Gregori (n. 1951), nelle cui canzoni è facile cogliere l’ispirazione di Bob Dylan. Influenze e interessi diversi animano invece la ricerca di due artisti siciliani, Franco Battiato (n. 1945) e Carmen Consoli (n. 1974).

Un cenno a parte merita l’astigiano Paolo Conte (n. 1937), colto cantore della vita di provincia e di un mondo di ieri, sospeso tra miti, passioni e abitudini di un Novecento sempre più lontano. La sua lezione è tra le fonti principali di uno dei migliori cantautori italiani della propria generazione, Vinicio Capossela (n. 1965): nella sua produzione si incontrano suggestioni e culture differenti, amalgamate da un originale talento nel raccontare storie, sentimenti e immagini di vita quotidiana ( T4, p. 292).

Va notato, infine, come negli ultimi vent’anni alcuni protagonisti della scena rap abbiano provato a innestare elementi della canzone d’autore italiana in un genere di derivazione americana: da questo punto di vista i risultati più interessanti si trovano nei lavori di Frankie Hi-nrg mc (Francesco Di Gesù, n. 1969) e di Caparezza (Michele Salvemini, n. 1973).

Verifica delle conoscenze

1. Quali elementi accomunano poesia e musica?

2. Che cosa s’intende per mousiké téchne?

3. Chi erano gli aedi?

4. Chi erano i trovatori e i trovieri?

5. Riassumi le caratteristiche principali del melodramma.

6. Perché non è possibile sminuire la portata culturale della tradizione musicale del Novecento?

7. Chi sono i cosiddetti chansonniers?

8. In quale città si colloca l’esperienza principale della musica d’autore italiana?

L’emozione della lettura - edizione gialla - volume B
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Poesia e teatro