Alla scoperta dei testi

T1

Publio Ovidio Nasone

Narciso

  • Tratto da Metamorfosi, libro III, vv. 408-513
  • Lingua originale latino

A causa della sua straordinaria bellezza, il cacciatore Narciso è oggetto del desiderio di molte ninfe. Tuttavia, invece di accontentare le insistenti ammiratrici, il giovane si chiude nel culto della propria immagine, deludendo tra le altre la bella Eco, follemente innamorata di lui al punto di consumarsi e tramutarsi in una voce destinata a ripetere i suoni uditi attorno a sé. Un giorno, afflitta dal male d’amore e dall’indifferenza di Narciso, si augura che anche lui possa provare la stessa struggente sofferenza.

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Audiolettura

«Che possa innamorarsi anche lui e non possedere chi ama!».

Così disse, e la dea di Ramnunte assentì a quella giusta preghiera.

410 C’era una fonte limpida, dalle acque argentee e trasparenti,

che mai pastori, caprette portate al pascolo sui monti

o altro bestiame avevano toccato, che nessun uccello, fiera

o ramo staccatosi da un albero aveva intorbidita.

Intorno c’era un prato, che la linfa vicina nutriva,

415 e un bosco che mai avrebbe permesso al sole di scaldare il luogo.

Qui il ragazzo, spossato dalle fatiche della caccia e dal caldo,

venne a sdraiarsi, attratto dalla bellezza del posto e dalla fonte,

ma, mentre cerca di calmare la sete, un’altra sete gli nasce:

rapito nel porsi a bere dall’immagine che vede riflessa,

420 s’innamora d’una chimera: corpo crede ciò che solo è ombra.

Attonito fissa se stesso e senza riuscire a staccarne gli occhi

rimane impietrito come una statua scolpita in marmo di Paro.

Disteso a terra, contempla quelle due stelle che sono i suoi occhi,

i capelli degni di Bacco, degni persino di Apollo,

425 e le guance lisce, il collo d’avorio, la bellezza

della bocca, il rosa soffuso sul niveo candore,

e tutto quanto ammira è ciò che rende lui meraviglioso.

Desidera, ignorandolo, se stesso, amante e oggetto amato,

mentre brama, si brama, e insieme accende ed arde.

430 Quante volte lancia inutili baci alla finzione della fonte!

Quante volte immerge in acqua le braccia per gettarle

intorno al collo che vede e che in acqua non si afferra!

Ignora ciò che vede, ma quel che vede l’infiamma

e proprio l’illusione che l’inganna eccita i suoi occhi.

435 Ingenuo, perché t’illudi d’afferrare un’immagine che fugge?

Ciò che brami non esiste; ciò che ami, se ti volti, lo perdi!

Quella che scorgi non è che il fantasma di una figura riflessa:

nulla ha di suo; con te venne e con te rimane;

con te se ne andrebbe, se ad andartene tu riuscissi.

440 Ma né il bisogno di cibo o il bisogno di riposo

riescono a staccarlo di lì: disteso sull’erba velata d’ombra,

fissa con sguardo insaziabile quella forma che l’inganna

e si strugge, vittima dei suoi occhi. Poi sollevandosi un poco,

tende le braccia a quel bosco che lo circonda e dice:

445 «Esiste mai amante, o selve, che abbia più crudelmente sofferto?

Voi certo lo sapete, voi che a tanti offriste in soccorso un rifugio.

Ricordate nella vostra lunga esistenza, quanti sono i secoli

che si trascina, qualcuno che si sia ridotto così?

Mi piace, lo vedo; ma ciò che vedo e che mi piace

450 non riesco a raggiungerlo: tanto mi confonde amore.

E a mio maggior dolore, non ci separa l’immensità del mare,

o strade, monti, bastioni con le porte sbarrate:

un velo d’acqua ci divide! E lui, sì, vorrebbe donarsi:

ogni volta che accosto i miei baci allo specchio d’acqua,

455 verso di me ogni volta si protende offrendomi la bocca.

Diresti che si può toccare; un nulla, sì, si oppone al nostro amore.

Chiunque tu sia, qui vieni! Perché m’illudi, fanciullo senza uguali?

Dove vai quand’io ti cerco? E sì che la mia bellezza e la mia età

non sono da fuggire: anche delle ninfe mi hanno amato.

460 Con sguardo amico mi lasci sperare non so cosa;

quando ti tendo le braccia, subito le tendi anche tu;

quando sorrido, ricambi il sorriso; e ti ho visto persino piangere,

quando io piango; con un cenno rispondi ai miei segnali

e a quel che posso arguire dai movimenti della bella bocca,

465 mi ricambi parole che non giungono alle mie orecchie.

Io, sono io! L’ho capito, l’immagine mia non m’inganna più!

Per me stesso brucio d’amore, accendo e subisco la fiamma!

Che fare? Essere implorato o implorare? E poi cosa implorare?

Ciò che desidero è in me: un tesoro che mi rende impotente.

470 Oh potessi staccarmi dal mio corpo!

Voto inaudito per gli amanti: voler distante chi amiamo!

Ormai il dolore mi toglie le forze, e non mi resta

da vivere più di tanto: mi spengo nel fiore degli anni.

No, grave non mi è la morte, se con lei avrà fine il mio dolore;

475 solo vorrei che vivesse più a lungo lui, che tanto ho caro.

Ma, il cuore unito in un’anima sola, noi due ora moriremo».

Dice, e delirando torna a contemplare quella figura,

e con le sue lacrime sconvolge lo specchio d’acqua,

che increspandosi ne offusca lo splendore. Vedendola svanire:

480 «Dove fuggi?» esclama. «Fèrmati, infame, non abbandonare

chi ti ama! Se non posso toccarti, mi sia permesso almeno

di guardarti e nutrire così l’infelice mia passione!».

In mezzo ai lamenti, dall’orlo in alto lacera la veste

e con le palme bianche come il marmo si percuote il petto nudo.

485 Ai colpi il petto si colora di un tenue rossore,

come accade alla mela che, candida su una faccia,

si accende di rosso sull’altra, o come all’uva

che in grappoli cangianti si vela di porpora quando matura.

Specchiandosi nell’acqua tornata di nuovo limpida,

490 non resiste più e, come cera bionda al brillio

di una fiammella o la brina del mattino al tepore

del sole si sciolgono, così, sfinito d’amore,

si strugge e un fuoco occulto a poco a poco lo consuma.

Del suo colorito rosa misto al candore ormai non v’è più traccia,

495 né del fuoco, delle forze, di ciò che prima incantava la vista,

e nemmeno il corpo è più quello che Eco aveva amato un tempo.

Ma quando lei lo vide così, malgrado la collera al ricordo,

si addolora e ogni volta che l’infelice mormora “Ahimè”,

rimandandogli la voce ripete “Ahimè”,

500 e quando il ragazzo con le mani si percuote le braccia,

replica lo stesso suono, quello delle percosse.

Le ultime sue parole, mentre fissava l’acqua una volta ancora,

furono: «Ahimè, fanciullo amato invano», e le stesse parole

gli rimandò il luogo; e quando disse “Addio”, Eco “Addio” disse.

505 Poi reclinò il suo capo stanco sull’erba verde e la morte chiuse

quegli occhi incantati sulle fattezze del loro padrone.

E anche quando fu accolto negli Inferi, mai smise di contemplarsi

nelle acque dello Stige. Un lungo lamento levarono le Naiadi

sue sorelle, offrendogli le chiome recise;

510 un lungo lamento le Driadi, ed Eco unì la sua voce alla loro.

Già approntavano il rogo, le fiaccole da agitare e il feretro:

il corpo era scomparso; al posto suo scorsero un fiore,

giallo nel mezzo e tutto circondato di petali bianchi.


Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, libro III, vv. 408-513, trad. di M. Ramous, Garzanti, Milano 1995

 >> pagina 570 

a TU per TU con il testo

Quante volte ci capita di usare la definizione di “narciso” per indicare una persona troppo presa da se stessa! La cura esagerata dell’abbigliamento, un’attenzione maniacale per i capelli, il lungo tempo trascorso davanti a uno specchio: chiunque possiede una dose, più o meno grande, di vanità e di egocentrismo, anche se il mito di Narciso e il suo esito tragico suggeriscono che è meglio evitare l’eccessivo amore verso noi stessi. D’altra parte il narcisismo non si riduce all’ammirazione compiaciuta del proprio corpo, ma coinvolge sfere più ampie della personalità: vantarsi per un successo sportivo, per esempio, non è anch’esso una forma di vanagloria, talvolta decisamente insopportabile?

E che dire dell’atteggiamento di superiorità spesso mal celato di chi crede di saperne più del prossimo e mette in mostra la propria cultura per suscitare l’ammirazione (se non l’invidia) degli altri? Non appena la parola “io” prende il sopravvento è facile diventare dei narcisi, sordi alle parole e ai sentimenti di chi ci circonda: forse non aveva tutti i torti lo scrittore Carlo Emilio Gadda quando definiva l’“io” «il più lurido dei pronomi».

Analisi

La vicenda di Narciso esemplifica chiaramente la concezione inesorabile della giustizia promossa dal mito greco. Il giovane, amato e desiderato dalle ninfe più belle, rifiuta sprezzante anche il sentimento dell’incantevole Eco, alla quale preferisce il culto della propria bellezza. Quando la fanciulla, addolorata dalla passione non ricambiata, augura a Narciso di poter provare un giorno la stessa sofferenza («Che possa innamorarsi anche lui e non possedere chi ama!», v. 408), la dea di Ramnunte, personificazione del concetto di nemesi, ascolta la sua invocazione e decide di vendicarla esaudendo la preghiera.

Come ha scritto il grande studioso inglese Gilbert Murray (1866-1957), la nemesi per i Greci era lo sdegno «del cielo, della terra, degli dèi e dei morti» davanti a un’ingiustizia, tale da richiedere una punizione divina implacabile sul trasgressore o sui suoi discendenti. Nel caso di Narciso, eterno adolescente, la colpa è nella superbia che lo porta a un amore eccessivo di sé: gli dèi, gli uomini, la natura non possono accettare che un ragazzo, forte della sua bellezza, calpesti i sentimenti altrui sfruttando una dote assegnatagli per ben altri scopi.

 >> pagina 571 

C’è un sottile gioco di corrispondenze nel mito di Narciso raccontato da Ovidio: a causa dell’intervento della nemesi, lo stesso fanciullo – tanto desiderato per la sua bellezza – si ferma in un luogo incantevole, classico esempio di locus amoenus, cioè di uno spazio meraviglioso e incontaminato (vv. 410-415). L’insistenza sul fatto che le acque argentee e trasparenti della fonte non sono mai state toccate, neanche da un ramo caduto da un albero, sembra voler alludere alla verginità di Narciso, che non vuole conoscere altri se non se stesso. Tuttavia, per ironia della sorte, è proprio quell’acqua pura e limpida a instillargli un folle desiderio, un amore incontrollato per l’immagine che vede riflessa sulla superficie della fonte (vv. 416-443). All’inizio prevalgono i toni patetici dell’innamorato che non vede altro se non l’oggetto del proprio desiderio e si strugge per l’impossibilità di realizzarlo (Ma né il bisogno di cibo o il bisogno di riposo / riescono a staccarlo di lì: disteso sull’erba velata d’ombra, / fissa con sguardo insaziabile quella forma che l’inganna / e si strugge, vittima dei suoi occhi, vv. 440-443). La punizione è così pienamente realizzata: chi prima non faceva che contemplare se stesso, è ora vittima dei suoi occhi.

Lo svelamento della realtà è improvviso e doloroso: in un dialogo, che in realtà è un monologo, indirizzato al suo amato (vv. 445-476), Narciso dapprima si lamenta della propria condizione infelice, poi osserva la reciprocità speculare dei gesti della figura riflessa nell’acqua, ogni volta che tende le braccia verso di lei, sorride e piange. Capisce, così, drammaticamente, di desiderare la propria immagine rispecchiata dalla fonte, alla quale è impossibile strappare anche solo un bacio: Io, sono io! L’ho capito, l’immagine mia non m’inganna più! / Per me stesso brucio d’amore, accendo e subisco la fiamma! / Che fare? Essere implorato o implorare? E poi cosa implorare? / Ciò che desidero è in me: un tesoro che mi rende impotente (vv. 466-469). Per un significativo effetto di contrappunto, al tormento interiore di Narciso corrispondono la quiete e la bellezza silenziosa della natura circostante: bastano le sue lacrime versate sull’acqua, che ne increspano la superficie, a determinare la reazione spaventata del giovane, preoccupato di vedere svanire la propria immagine (vv. 477-488).

Ormai stremato dalla passione, da quel fuoco occulto che a poco a poco lo consuma (v. 493), Narciso ha perso la bellezza di un tempo, il colorito rosa misto a candore che lo rendeva così desiderabile, ma la ninfa Eco continua ad amarlo, ripetendo le ultime parole di ogni sua affermazione (vv. 497-501). Il destino vuole che l’ultima parola pronunciata da Narciso prima di morire sia un addio indirizzato alla propria immagine, che Eco ripete, sia pur a distanza, ancora fedele a un amore impossibile.

Ma, oltre al motivo sentimentale e psicologico, che ha suscitato in tempi moderni l’interesse della critica psicanalitica (Narciso come simbolo di un disturbo che porta l’individuo a concentrarsi eccessivamente su di sé), Ovidio valorizza anche l’aspetto eziologico del mito. Venuta meno la bellezza fisica del giovane, che continua fatalmente a contemplarsi anche nelle acque dello Stige nell’aldilà (vv. 507-508), la natura suggella il legame indissolubile del personaggio con la bellezza facendo spuntare un meraviglioso fiore dai petali bianchi (il narciso, appunto) al posto del suo corpo (vv. 511-513).

Laboratorio sul testo

COMPRENDERE

1. Qual è la colpa commessa da Narciso che determina l’intervento della dea di Ramnunte?


2. Narciso si innamora

  • A della Nemesi. 
    B della ninfa Eco. 
  • C del proprio riflesso. 
  • D della chimera. 


3. Perché a Narciso non risulta grave la morte?


4. Alla fine del racconto si compie la metamorfosi, e Narciso viene trasformato in un

  • A albero. 
    B fiore. 
  • C cespuglio. 
  • D uccello. 


5. Ricordate nella vostra lunga esistenza, quanti sono i secoli / che si trascina, qualcuno che si sia ridotto così? (vv. 447-448). A chi si sta rivolgendo Narciso?

ANALIZZARE E INTERPRETARE

6. In quale momento avviene la metamorfosi di Narciso?

  • A Nel momento in cui sopraggiunge la ninfa Eco, impietosita dai suoi lamenti. 
    B Mentre sta tentando un’ultima volta di baciare la sua immagine riflessa nell’acqua. 
  • C Dopo la sua morte, durante la preparazione dei suoi funerali. 
  • D Negli Inferi, mentre si sta contemplando nelle acque del fiume Stige. 


7. A un certo punto del suo lungo dialogo immaginario con la persona amata, Narciso si rende conto che l’immagine riflessa nell’acqua appartiene a lui stesso. Quali sono i versi dai quali emerge con evidenza questa consapevolezza?

COMPETENZE LINGUISTICHE

8. I pronomi. Completa la tabella seguente, indicando a quale nome si riferiscono i quattro pronomi relativi che compaiono ai vv. 411-415.


Pronome Nome
Che mai pastori […] avevano toccato (vv. 411-412)  
Che nessun uccello […] aveva intorbidita (vv. 412-413)  
Che la linfa vicina nutriva (v. 414)  
Che mai avrebbe permesso (v. 415)  

9. Lessico. Il mito di Eco e Narciso ha dato origine in età moderna al termine narcisismo, coniato nel 1898 dal medico inglese Havelock Ellis (1859-1939) e poi adoperato soprattutto da Sigmund Freud (1856-1939). Egocentrico, presuntuoso, vanitoso sono tre aggettivi che potrebbero adattarsi a una persona narcisista, a chi, cioè, ha un’eccessiva considerazione di se stesso. Scrivi una frase per ciascun significato.

Scrivere correttamentE

10. Tempi verbali. La narrazione del momento in cui Narciso si avvicina alla fonte (vv. 416-420) inizia con un verbo al passato remoto (venne a sdraiarsi, v. 417), ma poi continua utilizzando il presente (cerca, nasce ecc.). Questa riscrittura ha uniformato tutti i verbi al passato remoto, ma in tre casi sarebbe stato necessario l’imperfetto. Individua gli errori e correggi nella maniera opportuna.


Ma, mentre cercò di calmare la sete, un’altra sete gli nacque: / rapito nel porsi a bere dall’immagine che vide riflessa, / s’innamorò di una chimera: corpo credette ciò che solo fu ombra.

PRODURRE

11. Scrivere per descrivere. Traendo spunto dal passo letto, scrivi una descrizione di un tuo locus amoenus, cioè di uno spazio incantevole, calato nella natura, nel quale trovi ispirazione, sia che esso esista nella realtà, sia che si tratti di un sogno a occhi aperti (massimo 15 righe).

L’emozione della lettura - edizione gialla - volume A
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Narrativa