T1 - «Tutte le ragazze vadano a scuola» (Malala)

T1

Malala

«Tutte le ragazze vadano a scuola»

  • Autobiografia

Nel 2012 Malala era una ragazzina pakistana di quindici anni, nota dalle sue parti perché aveva denunciato ottusità e violenze degli estremisti islamici in un blog. Un giorno d’estate, mentre andava a scuola in autobus, venne gravemente ferita dalle pallottole di un fondamentalista, come racconta in queste pagine, tratte da Io sono Malala, un libro nel quale racconta la propria infanzia e rivendica il diritto all’istruzione femminile. Simbolo universale delle donne che combattono per i propri diritti, nel 2014 Malala è diventata la più giovane vincitrice del premio Nobel per la Pace. Oggi vive in Inghilterra, dove studia filosofia, economia e politica all’università di Oxford.

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Audiolettura

Sono nata in un paese creato a mezzanotte.1 Quando sono quasi morta era appena
suonato mezzogiorno.

Un anno fa sono uscita di casa per andare a scuola, e non ci sono mai più ritornata.
Sono stata colpita da una pallottola talebana2 e mentre mi portavano lontano dal 

5      Pakistan non ero cosciente. Qualcuno dice che non rivedrò più la mia casa, nel villaggio
della valle dello Swat,3 ma io voglio credere con tutta me stessa che invece ci
tornerò. Essere strappati dal paese che si ama è qualcosa che non auguro a nessuno.

Ora, ogni mattina, quando apro gli occhi, vorrei vedere la mia vecchia stanza con
tutte le mie cose, i vestiti sparsi sul pavimento e i miei premi scolastici sulle mensole. 

10    Invece vivo in un posto che è cinque ore indietro di fuso orario rispetto al Pakistan.
Ma il mio paese è indietro di secoli rispetto a quello dove mi trovo ora. Qui ci
sono tutte le possibili comodità: acqua corrente che sgorga da ogni rubinetto, calda
o fredda, a seconda di come la si desidera; luci che si accendono con un colpetto
all’interruttore, giorno e notte, senza bisogno di lampade a petrolio; forni e fuochi 

15    per cucinare, che non obbligano ad andare al bazar4 a comprare le bombole di gas.
Qui tutto è così moderno... Si trova persino cibo già cotto e confezionato!

Quando sto alla finestra e guardo fuori, vedo edifici alti, lunghe strade piene di
veicoli in file ordinate, siepi e prati verdi ben curati, marciapiedi puliti. Allora chiudo
gli occhi e per un istante ritorno nella mia valle – le alte montagne dalle cime coperte 

20    di neve, il verde ondeggiante dei campi e le fresche acque azzurre dei fiumi – e il mio
cuore sorride guardando la gente dello Swat. La mia mente mi riporta a scuola, e lì
ritrovo le mie compagne e i miei insegnanti. Trovo Moniba, la mia migliore amica, e ci
sediamo insieme, chiacchierando e scherzando, come se non me ne fossi mai andata.


Poi mi ricordo di essere a Birmingham, in Inghilterra.

25    Il giorno in cui tutto è cambiato era martedì 9 ottobre 2012: di certo non il giorno
migliore, dato che eravamo sotto esami, anche se io, da vera secchiona, non ero
preoccupata quanto le mie compagne.

Quella mattina raggiungemmo lo stretto vicolo fangoso vicino a Haji Baba Road
con la solita processione di risciò variopinti sputacchianti diesel bruciato, ognuno 

30    carico di cinque o sei ragazzine. Da quando i talebani erano saliti al potere la nostra
scuola non aveva un’insegna, e la porta in ottone decorato che spiccava nel muro
bianco di fronte al deposito di una segheria non lasciava intravedere nulla di ciò che
accadeva all’interno.

Per noi ragazze quella porta era come una magica soglia che portava al nostro 

35    mondo speciale. Appena entrate, ci toglievamo subito il velo, come quando un soffio
di vento spazza via le nuvole per fare posto al sole, poi correvamo su per la scala
saltando i gradini a due a due.

La scuola era stata fondata da mio padre prima che io nascessi, e sul muro sopra
le nostre teste svettava ancora, in orgogliosi caratteri bianchi e rossi, la scritta 

40    khushal school. Avevamo lezione sei mattine alla settimana e io, avendo quindici
anni, ero iscritta alla nona classe: durante le lezioni ripetevamo formule chimiche e
studiavamo la grammatica urdu,5 scrivevamo brevi racconti in inglese – che terminavano
spesso con morali tipo: «Presto e bene non stanno insieme» – e disegnavamo
diagrammi della circolazione sanguigna (la maggior parte delle mie compagne 

45    sognava di diventare medico).

È difficile immaginare che qualcuno potesse vedere in tutto ciò una minaccia.
Eppure, fuori da quella porta di ottone non c’erano solo il rumore e la confusione di
Mingora, la città principale del distretto dello Swat, ma anche chi, come i talebani,
pensava che le ragazze non debbano andare a scuola.

50    La scuola non era molto lontana da casa mia, e ci ero sempre andata a piedi; ma
dall’inizio dell’anno avevo cominciato a prendere l’autobus con le altre ragazze. Mi
piaceva usare l’autobus, perché così non sudavo tanto come quando andavo a piedi
e anche perché potevo chiacchierare con le mie amiche e spettegolare un po’ con
Usman Ali, il conducente, che noi chiamavamo sempre Bhai Jan, “fratello”, e che ci 

55    faceva ridere con le sue buffe storielle.

Avevo iniziato a prendere l’autobus perché la mamma non era tranquilla se andavo
in giro a piedi da sola. Avevamo ricevuto minacce per tutto l’anno. A volte con dichiarazioni
pubblicate sui giornali, altre volte con bigliettini che passavano di mano in mano
fra la gente. Mia madre era molto preoccupata per me, ma i talebani non avevano mai 

60    fatto del male a una ragazza, e io temevo soprattutto che potessero prendersela con
mio padre, anche perché lui aveva spesso preso posizione contro di loro. In agosto
avevano sparato al volto al suo caro amico Zahid Khan mentre si recava alla preghiera,
e sapevo che molte persone dicevano a papà: «Sta’ attento, il prossimo sarai tu».

Nella nostra via non potevano passare le auto: per raggiungerla dalla strada lungo 

65    il fiume bisognava superare un cancello di ferro e salire una rampa di scale.
Pensavo che se qualcuno avesse voluto aggredirmi l’avrebbe fatto su quei gradini.
Come mio padre, sono sempre stata incline alle fantasticherie e anche in classe, a
volte, la mia immaginazione prendeva il volo: mi vedevo percorrere quegli scalini
quando all’improvviso un terrorista saltava fuori e mi sparava. Mi domandavo cosa 

70    avrei fatto, in tal caso. Forse mi sarei tolta una scarpa e l’avrei usata per picchiarlo...
Ma subito dopo mi dicevo che se l’avessi fatto non ci sarebbe stata differenza tra
me e un terrorista. Avrei fatto meglio a dirgli: «Va bene, sparami pure, ma prima
ascoltami. Quello che stai facendo è sbagliato. Io non ho niente contro di te. Voglio
semplicemente che tutte le ragazze vadano a scuola».

75    Non ero spaventata, ma avevo cominciato a controllare tutte le sere che il cancello
fosse ben chiuso, e a chiedere a Dio cosa accade quando si muore. Ne parlai con
la mia amica del cuore, Moniba. Vivevamo nella stessa strada da quando eravamo
piccole ed eravamo amiche fin dalle elementari. Condividevamo tutto: le canzoni di
Justin Bieber, i film della serie Twilight, le creme per il viso. Lei sognava di diventare 

80    stilista, ma sapeva che i suoi non glielo avrebbero mai permesso, così diceva a tutti
di voler fare il medico. Nella nostra società è difficile che a una ragazza sia permesso
di diventare qualcosa di diverso da un’insegnante o una dottoressa, ammesso che
possa lavorare. Io però ero diversa: non avevo mai nascosto i miei veri desideri, da
quando avevo cambiato idea e avevo deciso che non sarei diventata un medico ma 

85    che volevo fare l’inventore o entrare in politica. Se in me qualcosa non andava, Moniba
se ne accorgeva sempre. «Non preoccuparti», le dicevo, «i talebani non hanno
mai fatto del male a una ragazzina».

Quando annunciarono che l’autobus che ci avrebbe riportate a casa ci stava
aspettando, corremmo giù dalle scale. Tutte le ragazze si coprirono il capo prima di 

90    affacciarsi alla soglia e salire a bordo.

L’autobus era in realtà un furgoncino del tipo che noi chiamiamo dyna. Era come sempre
affollatissimo, con venti ragazze e tre insegnanti. Io ero seduta sulla sinistra,
fra Moniba e una studentessa della classe inferiore, Shazia Ramzan, tutte e tre con
gli zaini fra i piedi.

95    Da questo punto in poi la mia memoria è un po’ confusa. Ricordo che nel dyna
l’aria era calda e appiccicosa. Le giornate più fresche si facevano attendere, solo i
remoti monti dell’Hindu Kush6 erano coronati di neve. Il retro del furgoncino non
aveva i finestrini, solo dei riquadri di plastica rigida che sbatacchiavano, troppo ingialliti
e polverosi perché potessimo guardare fuori. Vedevamo solo un francobollo 

100 di cielo attraverso l’apertura posteriore, che a tratti ci permetteva anche di cogliere
un bagliore del sole: a quell’ora del primo pomeriggio era una sfera gialla galleggiante
nella polvere che ricopriva ogni cosa. Solo quando le tende chiuse svolazzavano
un po’ durante il viaggio potevamo intravedere qualche breve scorcio delle
strade intorno a noi.

105 Ricordo che, come sempre, all’altezza di un posto di blocco militare l’autobus
lasciò la strada principale svoltando a destra e oltrepassando un campo da cricket7
deserto. Poi non ricordo più nulla.

Nei sogni in cui rivivo quei momenti, nell’autobus c’è anche mio padre, ed è lui
a essere colpito; ci sono uomini ovunque, e io cerco papà.

110 Quello che accadde in realtà è che il dyna si fermò all’improvviso. Noi ragazze
non potevamo vedere cosa stesse accadendo davanti al furgoncino: un giovane barbuto,
che indossava abiti di colore chiaro, era fermo in mezzo alla strada e aveva
fatto cenno al nostro autista di fermarsi.

«È questo l’autobus della Khushal School?», chiese l’uomo a Usman Bhai Jan – 

115 che sicuramente la trovò una domanda sciocca, dato che il nome era scritto sulla
fiancata.

«Sì», rispose.

«Ho bisogno di informazioni su alcune ragazze», disse il giovane.

«Allora dovrebbe andare in direzione», replicò Usman Bhai Jan.

120 Mentre i due parlavano, un altro giovane vestito di bianco si avvicinò alla parte
posteriore del mezzo. «Ehi, dev’essere un altro di quei giornalisti che ti vogliono
intervistare!», esclamò Moniba. Da quando avevo cominciato a parlare nei comizi
organizzati da mio padre per la campagna a favore dell’istruzione femminile e contro
tutti quelli che, come i talebani, vorrebbero tenerci chiuse in casa, mi capitava 

125 spesso di parlare con dei giornalisti, anche stranieri. Ma di certo non somigliavano
affatto ai due tizi che ci avevano bloccate in mezzo alla strada.

Il secondo uomo indossava un tradizionale copricapo di lana e si era legato un
fazzoletto sulla bocca e sul naso, come se avesse l’influenza. Sembrava uno studente
universitario. Saltò sul predellino posteriore e si chinò su di noi.

130 «Chi è Malala?», chiese.

Nessuna rispose, ma molte delle mie compagne si voltarono automaticamente
verso di me. Ero l’unica a viso scoperto.8

A quel punto l’uomo mi puntò contro una pistola nera. Più tardi avrei saputo
che era una Colt 45. Alcune delle ragazze gridarono. Moniba mi ha detto che io le 

135 strinsi forte la mano.

Le mie compagne mi hanno raccontato che l’uomo sparò tre colpi in rapida
successione. La prima pallottola mi attraversò l’orbita sinistra e mi si conficcò nella
spalla. Caddi in avanti verso Moniba, mentre il sangue usciva copiosamente dall’orecchio
sinistro. Un altro proiettile colpì la mano sinistra di Shazia. Il terzo attraversò 

140 la sua spalla sinistra per poi ferire il braccio destro di Kainat Riaz.

Più tardi le mie amiche mi dissero che a quell’uomo tremava la mano mentre
sparava.

Quando arrivammo in ospedale, i miei lunghi capelli e la gonna di Moniba erano
zuppi di sangue.

145 Chi è Malala? Io sono Malala, e questa è la mia storia.


Malala Yousafzai con Christina Lamb, Io sono Malala. La mia battaglia per la libertà e l’istruzione delle donne, trad. di S. Cherchi, Garzanti, Milano 2013 (con tagli)

 >> pagina 552 

Laboratorio sul testo

1. Il racconto di Malala fa parte di un’autobiografia, quindi è narrato in prima persona. Prova a riscrivere tutto il secondo paragrafo (da Un anno fa... a che non auguro a nessuno, rr. 3-7) in terza persona, immaginando di essere un narratore esterno; fai attenzione a modificare nel modo opportuno voci verbali, pronomi, aggettivi possessivi ecc. (per esempio: “Un anno fa è uscita di casa…”).


2. Dov’è stata costretta a trasferirsi Malala, dopo essere stata gravemente ferita in un attentato?


3. Il gesto di togliersi il velo, che le ragazze compivano appena entrate nella scuola, viene paragonato da Malala a un soffio di vento che spazza via le nuvole per fare posto al sole (rr. 35-36). Come interpreti questa similitudine?


4. Quando Malala presagisce l’attentato di cui sarebbe stata vittima e immagina le parole che avrebbe voluto dire al suo attentatore, si comprende il motivo per cui i talebani hanno tentato di ucciderla. Quale sarebbe stata la sua colpa, secondo loro?


5. Malala non è una ragazza diversa da tante altre che vivono nel mondo occidentale: quali sono infatti le passioni che condivide con la sua amica Moniba?


6. Quali sono le uniche due professioni consentite alle donne nella società pakistana descritta da Malala?


7. Che cosa sognava di fare Malala?


8. In che modo Malala era diventata famosa per le sue idee progressiste, e quindi pericolosa per il governo oppressivo dei talebani?

  • A Era stata invitata all’ONU per parlare dei problemi del Pakistan. 
    B Aveva pubblicato un saggio in cui denunciava la ferocia del governo talebano. 
  • C Parlava spesso in pubblico nei comizi organizzati dal padre a favore dell’istruzione femminile. 
  • D Era stata recentemente intervistata da un giornalista di una tv americana. 


9. Sintetizza in massimo 5 righe l’episodio dell’attentato subìto da Malala, partendo dal punto dopo il quale la ragazza dice di non ricordarsi più nulla (rr. 95-144).

L’emozione della lettura - edizione gialla - volume A
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Narrativa