T4 - Rosso Malpelo (G. Verga)

T4

Giovanni Verga

Rosso Malpelo

  • Tratto da Vita dei campi, 1897
  • Prima uscita “Il Fanfulla”, 1878
  • novella
L’autore

Giovanni Verga nasce a Catania nel 1840, in una ricca famiglia nobile. Sin da giovane si appassiona alla letteratura e scrive il suo primo romanzo all’età di soli sedici anni. Dopo aver frequentato la facoltà di Legge dell’Università di Catania, si schiera a favore dell’annessione della Sicilia all’Italia. Dal 1865 in poi soggiorna stabilmente a Firenze, allora capitale italiana. Nel 1871, pubblicato il suo primo romanzo di successo, Storia di una capinera, Verga decide di trasferirsi a Milano, dove vive per più di un ventennio, entrando in contatto con importanti intellettuali. L’esperienza milanese ispira i romanzi “mondani”, così detti per l’ambientazione borghese, come Eva (1873), Eros e Tigre reale (1875), accolti dai contemporanei con entusiasmo. Tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta compone le opere che segnano la conversione al Verismo, una corrente che mira a offrire una rappresentazione asciutta e obiettiva della società, specialmente quella siciliana: le raccolte di novelle Vita dei campi (1880) e Novelle rusticane (1883), i romanzi I Malavoglia (1881) e Mastro-don Gesualdo (1889). Dopo un periodo di difficoltà economiche e delusioni professionali, Verga ritorna nella città natale nel 1893, dove, spentasi la sua ispirazione narrativa, conduce una vita solitaria e appartata. Nominato senatore del Regno nel 1920, muore a Catania nel 1922.

Siamo nella Sicilia di fine Ottocento, in una cava di sabbia lavica, nei pressi di Catania. Malpelo è figlio di Misciu Bestia, un povero disgraziato morto per un incidente sul lavoro. È solo un ragazzo selvatico, dai capelli rossi, ma fa già il mestiere del padre, circondato da diffidenza e disprezzo. Nessuno gli bada, neppure la madre, e finisce per incattivirsi, rassegnato alla terribile vita dei minatori. Accetta qualunque compito, qualunque punizione, con imperturbabile insensibilità. Altro non vede, al mondo, che non sia una feroce lotta per la sopravvivenza.

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Audiolettura

Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché
era un ragazzo malizioso e cattivo,1 che prometteva di riescire un fior di birbone.2 Sicché
tutti alla cava della rena rossa3 lo chiamavano Malpelo; e persino sua madre, col
sentirgli dir sempre a quel modo,4 aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo.

5      Del resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a casa con quei
pochi soldi della settimana; e siccome era malpelo c’era anche a temere che ne sottraesse
un paio, di quei soldi: nel dubbio, per non sbagliare, la sorella maggiore gli
faceva la ricevuta a scapaccioni.5

Però il padrone della cava aveva confermato che i soldi erano tanti e non più; e 

10    in coscienza6 erano anche troppi per Malpelo, un monellaccio che nessuno avrebbe
voluto vederselo davanti, e che tutti schivavano come un can rognoso, e lo accarezzavano
coi piedi,7 allorché se lo trovavano a tiro.

Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico. Al mezzogiorno,
mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio8 la loro minestra, 

15    e facevano un po’ di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo corbello9 fra
le gambe, per rosicchiarsi quel po’ di pane bigio,10 come fanno le bestie sue pari,11
e ciascuno gli diceva la sua, motteggiandolo,12 e gli tiravan dei sassi, finché il soprastante13
lo rimandava al lavoro con una pedata. Ei c’ingrassava,14 fra i calci, e si
lasciava caricare meglio dell’asino grigio, senza osar di lagnarsi. Era sempre cencioso 

20    e sporco di rena rossa, che la sua sorella s’era fatta sposa,15 e aveva altro pel capo che
pensare a ripulirlo la domenica. Nondimeno era conosciuto come la bettonica16 per
tutto Monserrato e la Caverna,17 tanto che la cava dove lavorava la chiamavano “la
cava di Malpelo”, e cotesto al padrone gli seccava assai. Insomma lo tenevano addirittura
per carità e perché mastro Misciu, suo padre, era morto in quella stessa cava.

[Un lungo flashback descrive la morte di Misciu Bestia, seppellito sotto una montagna di rena, mentre cerca di portare a termine un lavoro di sterramento. Nessuno lo piange, tranne il figlio Malpelo, che però torna a lavorare nella cava pochi giorni dopo la tragedia.]


25    Però infine tornò alla cava dopo qualche giorno, quando sua madre piagnucolando
ve lo condusse per mano; giacché, alle volte, il pane che si mangia non si può
andare a cercarlo di qua e di là. Lui non volle più allontanarsi da quella galleria, e
sterrava con accanimento, quasi ogni corbello di rena lo levasse di sul petto a suo
padre. Spesso, mentre scavava, si fermava bruscamente, colla zappa in aria, il viso 

30    torvo e gli occhi stralunati, e sembrava che stesse ad ascoltare qualche cosa che il suo
diavolo gli susurrasse nelle orecchie, dall’altra parte della montagna di rena caduta.
In quei giorni era più tristo18 e cattivo del solito, talmente che non mangiava quasi,
e il pane lo buttava al cane, quasi non fosse grazia di Dio. Il cane gli voleva bene,
perché i cani non guardano altro che la mano che gli dà il pane, e le botte, magari. 

35    Ma l’asino, povera bestia, sbilenco e macilento,19 sopportava tutto lo sfogo della cattiveria
di Malpelo; ei lo picchiava senza pietà, col manico della zappa, e borbottava:

«Così creperai più presto!».

Dopo la morte del babbo pareva che gli fosse entrato il diavolo in corpo, e
lavorava al pari di quei bufali feroci che si tengono coll’anello di ferro al naso. 

40    Sapendo che era malpelo, ei si acconciava20 ad esserlo il peggio che fosse possibile,
e se accadeva una disgrazia, o che un operaio smarriva i ferri, o che un asino
si rompeva una gamba, o che crollava un tratto di galleria, si sapeva sempre che
era stato lui; e infatti ei si pigliava le busse21 senza protestare, proprio come se le
pigliano gli asini che curvano la schiena, ma seguitano a fare a modo loro. Cogli 

45    altri ragazzi poi era addirittura crudele, e sembrava che si volesse vendicare sui
deboli di tutto il male che s’immaginava gli avessero fatto gli altri, a lui e al suo
babbo. Certo ei provava uno strano diletto a rammentare ad uno ad uno tutti i
maltrattamenti ed i soprusi che avevano fatto subire a suo padre, e del modo in
cui l’avevano lasciato crepare. E quando era solo borbottava: «Anche con me fanno 

50    così! e a mio padre gli dicevano Bestia, perché egli non faceva così!». E una volta
che passava il padrone, accompagnandolo con un’occhiata torva: «È stato lui! per
trentacinque tarì!».22 E un’altra volta, dietro allo sciancato: «E anche lui! e si metteva
a ridere! Io l’ho udito, quella sera!».

Per un raffinamento di malignità23 sembrava aver preso a proteggere un povero 

55    ragazzetto, venuto a lavorare da poco tempo nella cava, il quale per una caduta
da un ponte s’era lussato il femore, e non poteva far più il manovale. Il poveretto,
quando portava il suo corbello di rena in spalla, arrancava in modo che gli avevano
messo nome Ranocchio; ma lavorando sotterra, così Ranocchio com’era, il suo pane
se lo buscava. Malpelo gliene dava anche del suo, per prendersi il gusto di tiranneggiarlo, 

60    dicevano.

Infatti egli lo tormentava in cento modi. Ora lo batteva senza un motivo e senza
misericordia, e se Ranocchio non si difendeva, lo picchiava più forte, con maggiore
accanimento, dicendogli: «To’, bestia! Bestia sei! Se non ti senti l’animo di difenderti
da me che non ti voglio male, vuol dire che ti lascerai pestare il viso da questo e 

65    da quello!».

O se Ranocchio si asciugava il sangue che gli usciva dalla bocca e dalle narici:
«Così, come ti cuocerà24 il dolore delle busse, imparerai a darne anche tu!». Quando
cacciava un asino carico per la ripida salita del sotterraneo, e lo vedeva puntare
gli zoccoli, rifinito,25 curvo sotto il peso, ansante e coll’occhio spento, ei lo batteva 

70    senza misericordia, col manico della zappa, e i colpi suonavano secchi sugli stinchi
e sulle costole scoperte. Alle volte la bestia si piegava in due per le battiture, ma
stremo di forze,26 non poteva fare un passo, e cadeva sui ginocchi, e ce n’era uno
il quale era caduto tante volte, che ci aveva due piaghe alle gambe. Malpelo soleva
dire a Ranocchio: «L’asino va picchiato, perché non può picchiar lui; e s’ei potesse 

75    picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e ci strapperebbe la carne a morsi».

Oppure: «Se ti accade di dar delle busse, procura27 di darle più forte che puoi; così
gli altri ti terranno da conto,28 e ne avrai tanti di meno addosso».

Lavorando di piccone o di zappa poi menava le mani con accanimento, a mo’
di uno che l’avesse29 con la rena, e batteva e ribatteva coi denti stretti, e con quegli 

80    ah! ah! che aveva suo padre. «La rena è traditora», diceva a Ranocchio sottovoce;
«somiglia a tutti gli altri, che se sei più debole ti pestano la faccia, e se sei più forte,
o siete in molti, come fa lo sciancato, allora si lascia vincere. Mio padre la batteva
sempre, ed egli non batteva altro che la rena, perciò lo chiamavano Bestia, e la rena
se lo mangiò a tradimento, perché era più forte di lui».

85    Ogni volta che a Ranocchio toccava un lavoro troppo pesante, e il ragazzo piagnucolava
a guisa di30 una femminuccia, Malpelo lo picchiava sul dorso, e lo sgridava:
«Taci, pulcino!», e se Ranocchio non la finiva più, ei gli dava una mano, dicendo
con un certo orgoglio: «Lasciami fare; io sono più forte di te». Oppure gli dava la
sua mezza cipolla, e si contentava di mangiarsi il pane asciutto,31 e si stringeva nelle 

90    spalle, aggiungendo: «Io ci sono avvezzo».

Era avvezzo a tutto lui, agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di manico di badile,
o di cinghia da basto, a vedersi ingiuriato32 e beffato da tutti, a dormire sui sassi colle
braccia e la schiena rotta da quattordici ore di lavoro; anche a digiunare era avvezzo,
allorché il padrone lo puniva levandogli il pane o la minestra. Ei diceva che la razione 

95    di busse non gliel’aveva levata mai, il padrone; ma le busse non costavano nulla.
Non si lamentava però, e si vendicava di soppiatto, a tradimento, con qualche tiro
di quelli che sembrava ci avesse messo la coda il diavolo:33 perciò ei si pigliava sempre
i castighi, anche quando il colpevole non era stato lui. Già se non era stato lui
sarebbe stato capace di esserlo, e non si giustificava mai: per altro sarebbe stato inutile. 

100 E qualche volta, come Ranocchio spaventato lo scongiurava piangendo di dire
la verità, e di scolparsi, ei ripeteva: «A che giova? Sono malpelo!», e nessuno avrebbe
potuto dire se quel curvare il capo e le spalle sempre fosse effetto di fiero orgoglio o
di disperata rassegnazione, e non si sapeva nemmeno se la sua fosse salvatichezza o
timidità.34 Il certo era che nemmeno sua madre aveva avuta mai una carezza da lui, 

105 e quindi non gliene faceva mai.

Il sabato sera, appena arrivava a casa con quel suo visaccio imbrattato di lentiggini
e di rena rossa, e quei cenci che gli piangevano addosso35 da ogni parte, la sorella
afferrava il manico della scopa, scoprendolo sull’uscio in quell’arnese,36 ché avrebbe
fatto scappare il suo damo37 se vedeva con qual gente gli toccava imparentarsi; la 

110 madre era sempre da questa o da quella vicina, e quindi egli andava a rannicchiarsi
sul suo saccone38 come un cane malato. Per questo, la domenica, in cui tutti gli altri
ragazzi del vicinato si mettevano la camicia pulita per andare a messa o per ruzzare39
nel cortile, ei sembrava non avesse altro spasso che di andar randagio per le vie degli
orti, a dar la caccia alle lucertole e alle altre povere bestie che non gli avevano fatto 

115 nulla, oppure a sforacchiare le siepi dei fichidindia.40 Per altro le beffe e le sassate
degli altri fanciulli non gli piacevano.

La vedova di mastro Misciu era disperata di aver per figlio quel malarnese,41 come
dicevano tutti, ed egli era ridotto veramente come quei cani, che a furia di buscarsi
dei calci e delle sassate da questo e da quello, finiscono col mettersi la coda fra le 

120 gambe e scappare alla prima anima viva che vedono, e diventano affamati, spelati
e selvatici come lupi. Almeno sottoterra, nella cava della rena, brutto, cencioso e
lercio com’era, non lo beffavano più, e sembrava fatto apposta per quel mestiere
persin nel colore dei capelli, e in quegli occhiacci di gatto che ammiccavano42 se
vedevano il sole. Così ci sono degli asini che lavorano nelle cave per anni ed anni 

125 senza uscirne mai più, ed in quei sotterranei, dove il pozzo d’ingresso è a picco,43
ci si calan colle funi, e ci restano finché vivono. Sono asini vecchi, è vero, comprati
dodici o tredici lire, quando stanno per portarli alla Plaja,44 a strangolarli; ma pel
lavoro che hanno da fare laggiù sono ancora buoni; e Malpelo, certo, non valeva
di più; se veniva fuori dalla cava il sabato sera, era perché aveva anche le mani per 

130 aiutarsi colla fune,45 e doveva andare a portare a sua madre la paga della settimana.


[Durante lo scavo viene ritrovata una scarpa di mastro Misciu e Malpelo, per paura di imbattersi nel suo cadavere, va a lavorare in un’altra zona della galleria. In effetti, poco dopo il corpo viene ritrovato: al ragazzo vengono consegnati i pantaloni, le scarpe e gli attrezzi del padre, che conserva gelosamente.]

In quel tempo era crepato di stenti e di vecchiaia l’asino grigio; e il carrettiere era
andato a buttarlo lontano nella sciarra.

«Così si fa», brontolava Malpelo; «gli arnesi che non servono più, si buttano
lontano».

135 Egli andava a visitare il carcame del grigio in fondo al burrone, e vi conduceva
a forza anche Ranocchio, il quale non avrebbe voluto andarci; e Malpelo gli diceva
che a questo mondo bisogna avvezzarsi a vedere in faccia ogni cosa, bella o brutta;
e stava a considerare con l’avida curiosità di un monellaccio i cani che accorrevano
da tutte le fattorie dei dintorni a disputarsi le carni del grigio. I cani scappavano 

140 guaendo, come comparivano i ragazzi, e si aggiravano ustolando sui greppi dirimpetto,46
ma il Rosso non lasciava che Ranocchio li scacciasse a sassate. «Vedi quella
cagna nera», gli diceva, «che non ha paura delle tue sassate? Non ha paura perché
ha più fame degli altri. Gliele vedi quelle costole al grigio? Adesso non soffre più».
L’asino grigio se ne stava tranquillo, colle quattro zampe distese, e lasciava che i cani 

145 si divertissero a vuotargli le occhiaie profonde, e a spolpargli le ossa bianche; i denti
che gli laceravano le viscere non lo avrebbero fatto piegare di un pelo, come quando
gli accarezzavano la schiena a badilate, per mettergli in corpo un po’ di vigore nel
salire la ripida viuzza. «Ecco come vanno le cose! Anche il grigio ha avuto dei colpi
di zappa e delle guidalesche;47 anch’esso quando piegava sotto il peso, o gli mancava 

150 il fiato per andare innanzi, aveva di quelle occhiate, mentre lo battevano, che sembrava
dicesse: “Non più! non più!”. Ma ora gli occhi se li mangiano i cani, ed esso se
ne ride dei colpi e delle guidalesche, con quella bocca spolpata e tutta denti. Ma se
non fosse mai nato sarebbe stato meglio».

La sciara si stendeva malinconica e deserta, fin dove giungeva la vista, e saliva 

155 e scendeva in picchi e burroni, nera e rugosa, senza un grillo che vi trillasse, o un
uccello che venisse a cantarci. Non si udiva nulla, nemmeno i colpi di piccone di
coloro che lavoravano sotterra. E ogni volta Malpelo ripeteva che la terra lì sotto era
tutta vuota dalle gallerie, per ogni dove, verso il monte e verso la valle; tanto che una
volta un minatore c’era entrato da giovane, e n’era uscito coi capelli bianchi, e un 

160 altro, cui s’era spenta la candela, aveva invano gridato aiuto per anni ed anni.

«Egli solo ode le sue stesse grida!», diceva, e a quell’idea, sebbene avesse il cuore
più duro della sciara, trasaliva.

«Il padrone mi manda spesso lontano, dove gli altri hanno paura d’andare. Ma
io sono Malpelo, e se non torno più, nessuno mi cercherà».

165 Pure, durante le belle notti d’estate, le stelle splendevano lucenti anche sulla sciara,
e la campagna circostante era nera anch’essa, come la lava, ma Malpelo, stanco
della lunga giornata di lavoro, si sdraiava sul sacco, col viso verso il cielo, a godersi
quella quiete e quella luminaria dell’alto;48 perciò odiava le notti di luna, in cui il
mare formicola di scintille, e la campagna si disegna qua e là vagamente – perché 

170 allora la sciara sembra più bella e desolata.

«Per noi che siamo fatti per vivere sotterra», pensava Malpelo, «dovrebbe essere
buio sempre e da per tutto».

La civetta strideva sulla sciara, e ramingava49 di qua e di là; ei pensava:

«Anche la civetta sente i morti che son qua sotterra, e si dispera perché non può andare 

175 a trovarli».

Ranocchio aveva paura delle civette e dei pipistrelli; ma il Rosso lo sgridava, perché
chi è costretto a star solo non deve aver paura di nulla, e nemmeno l’asino grigio
aveva paura dei cani che se lo spolpavano, ora che le sue carni non sentivano più il
dolore di esser mangiate.

180 «Tu eri avvezzo a lavorar sui tetti come i gatti», gli diceva, «e allora era tutt’altra
cosa. Ma adesso che ti tocca a viver sotterra, come i topi, non bisogna più aver paura
dei topi, né dei pipistrelli, che son topi vecchi con le ali; quelli ci stanno volentieri
in compagnia dei morti».

Ranocchio invece provava una tale compiacenza a spiegargli quel che ci stessero 

185 a far le stelle lassù in alto; e gli raccontava che lassù c’era il paradiso, dove vanno a
stare i morti che sono stati buoni, e non hanno dato dispiaceri ai loro genitori. «Chi
te l’ha detto?», domandava Malpelo, e Ranocchio rispondeva che glielo aveva detto
la mamma.

Allora Malpelo si grattava il capo, e sorridendo gli faceva un certo verso da monellaccio 

190 malizioso che la sa lunga. «Tua madre ti dice così perché, invece dei calzoni,
tu dovresti portar la gonnella».

E dopo averci pensato un po’:

«Mio padre era buono, e non faceva male a nessuno, tanto che lo chiamavano
Bestia. Invece è là sotto, ed hanno persino trovato i ferri, le scarpe e questi calzoni 

195 qui che ho indosso io».

Da lì a poco, Ranocchio, il quale deperiva da qualche tempo, si ammalò in modo
che la sera dovevano portarlo fuori dalla cava sull’asino, disteso fra le corbe,50 tremante
di febbre come un pulcin bagnato. Un operaio disse che quel ragazzo non
ne avrebbe fatto osso duro a quel mestiere
,51 e che per lavorare in una miniera, senza 

200 lasciarvi la pelle, bisognava nascervi. Malpelo allora si sentiva orgoglioso di esserci
nato, e di mantenersi così sano e vigoroso in quell’aria malsana, e con tutti quegli
stenti. Ei si caricava Ranocchio sulle spalle, e gli faceva animo alla sua maniera, sgridandolo
e picchiandolo. Ma una volta, nel picchiarlo sul dorso, Ranocchio fu colto
da uno sbocco di sangue;52 allora Malpelo spaventato si affannò a cercargli nel naso 

205 e dentro la bocca cosa gli avesse fatto, e giurava che non avea potuto fargli poi gran
male, così come l’aveva battuto, e a dimostrarglielo, si dava dei gran pugni sul petto
e sulla schiena, con un sasso; anzi un operaio, lì presente, gli sferrò un gran calcio
sulle spalle: un calcio che risuonò come su di un tamburo, eppure Malpelo non si
mosse, e soltanto dopo che l’operaio se ne fu andato, aggiunse:

210 «Lo vedi? Non mi ha fatto nulla! E ha picchiato più forte di me, ti giuro!».

Intanto Ranocchio non guariva, e seguitava a sputar sangue, e ad aver la febbre
tutti i giorni. Allora Malpelo prese dei soldi della paga della settimana, per comperargli
del vino e della minestra calda, e gli diede i suoi calzoni quasi nuovi, che lo coprivano
meglio. Ma Ranocchio tossiva sempre, e alcune volte sembrava soffocasse; 

215 la sera poi non c’era modo di vincere il ribrezzo53 della febbre, né con sacchi, né
coprendolo di paglia, né mettendolo dinanzi alla fiammata.54 Malpelo se ne stava
zitto ed immobile, chino su di lui, colle mani sui ginocchi, fissandolo con quei suoi
occhiacci spalancati, quasi volesse fargli il ritratto, e allorché lo udiva gemere sottovoce,
e gli vedeva il viso trafelato55 e l’occhio spento, preciso come quello dell’asino 

220 grigio allorché ansava rifinito sotto il carico nel salire la viottola, egli borbottava:

«È meglio che tu crepi presto! Se devi soffrire a quel modo, è meglio che tu crepi!».

E il padrone diceva che Malpelo era capace di schiacciargli il capo, a quel ragazzo,
e bisognava sorvegliarlo.

Finalmente un lunedì Ranocchio non venne più alla cava, e il padrone se ne lavò 

225 le mani, perché allo stato in cui era ridotto oramai era più di impiccio che altro.
Malpelo si informò dove stesse di casa, e il sabato andò a trovarlo. Il povero Ranocchio
era più di là che di qua; sua madre piangeva e si disperava come se il figliuolo
fosse di quelli che guadagnano dieci lire la settimana.

Cotesto non arrivava a comprenderlo Malpelo, e domandò a Ranocchio perché 

230 sua madre strillasse a quel modo, mentre che56 da due mesi ei non guadagnava nemmeno
quel che si mangiava. Ma il povero Ranocchio non gli dava retta; sembrava
che badasse a contare quanti travicelli c’erano sul tetto.57 Allora il Rosso si diede
ad almanaccare58 che la madre di Ranocchio strillasse a quel modo perché il suo figliuolo
era sempre stato debole e malaticcio, e l’aveva tenuto come quei marmocchi 

235 che non si slattano59 mai. Egli invece era stato sano e robusto, ed era malpelo, e sua
madre non aveva mai pianto per lui, perché non aveva mai avuto timore di perderlo.

Poco dopo, alla cava dissero che Ranocchio era morto, ed ei pensò che la civetta
adesso strideva anche per lui la notte, e tornò a visitare le ossa spolpate del grigio,
nel burrone dove solevano andare insieme con Ranocchio. Ora del grigio non rimanevano 

240 più che le ossa sgangherate, ed anche di Ranocchio sarebbe stato così.
Sua madre si sarebbe asciugati gli occhi,60 poiché anche la madre di Malpelo s’era
asciugati i suoi, dopo che mastro Misciu era morto, e adesso si era maritata un’altra
volta, ed era andata a stare a Cifali61 colla figliuola maritata, e avevano chiusa la
porta di casa. D’ora in poi, se lo battevano, a loro non importava più nulla, e a lui 

245 nemmeno, ché quando sarebbe divenuto come il grigio o come Ranocchio, non
avrebbe sentito più nulla.

Verso quell’epoca venne a lavorare nella cava uno che non s’era mai visto, e si
teneva nascosto il più che poteva. Gli altri operai dicevano fra di loro che era scappato
dalla prigione, e se lo pigliavano ce lo tornavano a chiudere per anni ed anni. 

250 Malpelo seppe in quell’occasione che la prigione era un luogo dove si mettevano i
ladri, e i malarnesi come lui, e si tenevano sempre chiusi là dentro e guardati a vista.

Da quel momento provò una malsana curiosità per quell’uomo che aveva provata
la prigione e ne era scappato. Dopo poche settimane però il fuggitivo dichiarò
chiaro e tondo che era stanco di quella vitaccia da talpa, e piuttosto si contentava di 

255 stare in galera tutta la vita, ché la prigione, in confronto, era un paradiso, e preferiva
tornarci coi suoi piedi.

«Allora perché tutti quelli che lavorano nella cava non si fanno mettere in prigione?»,
domandò Malpelo.

«Perché non sono malpelo come te!», rispose lo sciancato. «Ma non temere, che 

260 tu ci andrai! e ci lascerai le ossa!».

Invece le ossa le lasciò nella cava, Malpelo come suo padre, ma in modo diverso.
Una volta si doveva esplorare un passaggio che doveva comunicare col pozzo
grande a sinistra, verso la valle, e se la cosa andava bene, si sarebbe risparmiata una
buona metà di mano d’opera nel cavar fuori la rena. Ma a ogni modo, però, c’era 

265 il pericolo di smarrirsi e di non tornare mai più. Sicché nessun padre di famiglia
voleva avventurarcisi, né avrebbe permesso che si arrischiasse il sangue suo,62 per
tutto l’oro del mondo.

Malpelo, invece, non aveva nemmeno chi si prendesse tutto l’oro del mondo
per la sua pelle, se pure la sua pelle valeva tanto: sicché pensarono a lui. Allora, nel 

270 partire, si risovvenne63 del minatore, il quale si era smarrito, da anni ed anni, e cammina
e cammina ancora al buio, gridando aiuto, senza che nessuno possa udirlo.
Ma non disse nulla. Del resto a che sarebbe giovato? Prese gli arnesi di suo padre, il
piccone, la zappa, la lanterna, il sacco col pane, il fiasco del vino, e se ne andò: né
più si seppe nulla di lui.

275 Così si persero persin le ossa di Malpelo, e i ragazzi della cava abbassano la voce
quando parlano di lui nel sotterraneo, ché hanno paura di vederselo comparire dinanzi,
coi capelli rossi e gli occhiacci grigi.


Giovanni Verga, Rosso Malpelo, in I grandi romanzi e tutte le novelle, a cura di C. Greco Lanza, Newton, Roma 1996

 >> pagina 377 

a TU per TU con il testo

Perché Malpelo ha i capelli rossi? Che domande: perché è un ragazzo malizioso e cattivo (r. 2). Il ragionamento dal quale prende avvio il racconto non fa una piega: almeno nel mondo popolare siciliano descritto da Verga, in cui sono ancora vivi i pregiudizi contro chi ha i capelli di colore acceso, rintracciabili nel bacino del Mediterraneo sin dai tempi antichi. Dappertutto la presenza di tratti fisici rari o sorprendenti risveglia l’aggressività, come testimoniano le persecuzioni alle quali vengono ancora oggi sottoposti gli albini nell’Africa nera. E d’altronde, guardando più vicino a noi, quante volte capita che una persona sovrappeso, calva o strabica venga derisa e isolata dal gruppo? Così Malpelo a mezzogiorno, mentre gli operai della cava si radunano per mangiare in compagnia, chiacchierando, solo soletto in un angolo rosicchia il suo pane raffermo, incurante dei lazzi e delle sassate che gli piovono addosso.

Nel suo caso, a determinare il ruolo di zimbello c’è però ben altro che il colore dei capelli. La sua sola presenza è un fastidio. Lui deve sparire: e sparisce. Ma nel volto sporco e stravolto del Rosso si specchia la cattiva coscienza degli uomini, e per questo torna a visitare in forma di incubo i giovani che si affacciano sull’inferno della cava.

Analisi

Rosso Malpelo, pubblicato a puntate sulla rivista “Il Fanfulla” nell’estate del 1878, è il primo racconto verista di Verga. Per la prima volta lo scrittore siciliano decide di costruire un narratore lontanissimo dalla sua cultura, dalle sue idee, dalla lingua colta acquisita grazie agli studi. Sin dalle prime righe, grazie all’equazione “capelli rossi = cattiveria”, il lettore deve confrontarsi con una voce anonima, che condivide l’ostilità manifestata dai minatori verso il giovane protagonista. Verga cioè cerca di “regredire”, di sparire dietro il narratore, allo scopo di fare emergere la mentalità ottusa e spietata circolante in quel mondo. Il lettore non può credere che il disprezzo verso uno sventurato come Malpelo, e il favore per chi lo maltratta e lo umilia, appartengano all’autore reale: in tal modo è indotto a un’amara riflessione sull’infanzia negata ai “carusi”, i ragazzini costretti nella Sicilia di allora a fatiche indicibili per guadagnarsi un tozzo di pane. La pietà non trabocca mai sulla pagina, ma è implicita nella stessa decisione di affrontare un argomento simile: una decisione che Verga prende a seguito della lettura di un’inchiesta parlamentare sul tema, e dell’ampio dibattito allora in corso sul lavoro minorile, una vergogna alla quale si tentava di porre rimedio attraverso la legge.

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La necessità di restituire in modo fedele i meccanismi spietati che schiacciano Malpelo si traduce nel ricorso a uno stile che riecheggia la parlata popolare dei minatori, i quali non conoscevano altra lingua al di fuori del siciliano. Una riproduzione integrale del dialetto, nomi a parte (zio Mommu, mastro Misciu), avrebbe tuttavia reso il racconto incomprensibile al di fuori dell’isola. Verga sceglie perciò di impastarlo in una base italiana, in modo da farne sentire il sapore, forte ma non respingente: a ciò si deve la presenza di termini, locuzioni e proverbi locali, a volte sottolineati dal corsivo (malpelo, r. 6; r. 154 sciara; ecc.).

Di impronta dialettale è anche la sintassi, dove abbondano i costrutti impropri e i pronomi pleonastici (a mio padre gli dicevano Bestia, r. 50). Ma il modulo stilistico più evidente è il discorso indiretto libero, che dà forza e immediatezza al racconto sin dall’attacco, quando la madre sostiene che siccome era malpelo c’era anche a temere che ne sottraesse un paio, di quei soldi (rr. 6-7).

La madre, al pari della sorella, riserva a Malpelo soltanto indifferenza e disprezzo. Gli stessi sentimenti li nutrono i compagni al cantiere, che schivavano come un can rognoso (r. 11) il suo brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico (r. 13). La caratterizzazione del protagonista non trascura né l’aspetto fisico, né l’aspetto psicologico, né l’aspetto sociale, insistendo sulla sua condizione di emarginato. Il narratore paragona più volte Rosso Malpelo a un animale: sia questo una bestia da soma (rr. 18-19), un bufalo feroce (rr. 38-39) o un cane, rognoso (r. 11) o malato (r. 111).

Malpelo, vittima della feroce logica che regge il mondo della cava, dove trionfano la forza, la crudeltà, l’interesse e la scaltrezza, non si ribella, ma sopporta ogni violenza fisica e psicologica con orgoglio, accettando qualunque colpa su di sé: Sapendo che era malpelo, ei si acconciava ad esserlo il peggio che fosse possibile, e se accadeva una disgrazia, o che un operaio smarriva i ferri, o che un asino si rompeva una gamba, o che crollava un tratto di galleria, si sapeva sempre che era stato lui (rr. 40-43). Egli consapevolmente assume su di sé la funzione di capro espiatorio perché è convinto che sia impossibile modificare la propria condizione di vita, e trasformarsi in contadino o manovale, come pure vorrebbe.

Tuttavia Malpelo da vittima sembra trasformarsi in oppressore, quando picchia senza misericordia l’asino e lo storpio Ranocchio. Cresciuto in un universo dove domina la violenza, solo attraverso la violenza è in grado di esprimere i propri sentimenti e spiegare a chi è inesperto come funziona il mondo: Se non ti senti l’animo di difenderti da me che non ti voglio male, vuol dire che ti lascerai pestare il viso da questo e da quello! (rr. 63-65), dice a Ranocchio, che pure gli è amico. Non lo picchia per un raffinamento di malignità (r. 54), come sostiene il narratore, ma perché crede di agire a fin di bene. Il suo ruolo pedagogico trova conferma nella scena in cui trascina l’amico a osservare la carogna dell’asino, morto di stenti e gettato in un burrone, dove i cani randagi lo spolpano: gli spiega che a questo mondo bisogna avvezzarsi a vedere in faccia ogni cosa (r. 137), compresa la morte, che ai suoi occhi non è che una liberazione dalla sofferenza, mentre Ranocchio crede al paradiso, del quale gli ha parlato la madre.

Con la morte dell’amico, che segue quella del padre e dell’asino, l’educazione di Rosso si compie: è ormai pronto per andare incontro al destino con fiera consapevolezza.

Solo al mondo, Malpelo accetta di esplorare un passaggio pericoloso nella cava, nonostante il pericolo di smarrirsi e di non tornare mai più (r. 265). Le leggende che un tempo lo facevano trasalire, evocando minatori entrati giovani nella grotta e usciti da vecchi, o persi in chissà quale anfratto, non gli fanno più né caldo né freddo. Non ha nulla da perdere, se non un presente di fatiche insopportabili e un fardello di ricordi dolorosi, concretizzati negli arnesi del padre, che prende con sé prima di avviarsi. Anche lui è destinato a scomparire nella cava, dove nessuno saprà più trovarlo. Il suo corpo si è dissolto, ma il fantasma abita i discorsi dei ragazzi condannati al suo stesso lavoro, che abbassano la voce quando parlano di lui nel sotterraneo (rr. 275-276).

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COMPRENDERE

1. Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false.


a) Rosso Malpelo è un ragazzino siciliano che lavora in una cava. 

  •   V       F   

b) Dopo la morte del padre, i compagni di lavoro trattano Malpelo con gentilezza e riguardo.

  •   V       F   

c) Malpelo incolpa i compagni di lavoro e il padrone per la morte del padre.

  •   V       F   

d) Ranocchio è soprannominato così per il colore verdastro della sua carnagione.

  •   V       F   

e) Ranocchio non può più fare il manovale a causa di un incidente sul lavoro.

  •   V       F   

f) Malpelo stringe con Ranocchio un rapporto particolare, duro ma affettuoso.

  •   V       F   

g) Quando Ranocchio si ammala, Malpelo lo abbandona a se stesso.

  •   V       F   

h) Il finale della novella lascia intendere al lettore la morte di Malpelo.

  •   V       F   


2. Malpelo maltratta e picchia Ranocchio perché

  • A è un ragazzo cattivo. 
    B vuole insegnare a Ranocchio la dura legge dell’esistenza. 
  • C crede che Ranocchio meriti le botte. 
  • D così si è sempre fatto alla cava. 


3. Da quali gesti puoi capire che l’affetto di Malpelo per Ranocchio è sincero?

ANALIZZARE E INTERPRETARE

4. Il narratore è

  • A interno ed è uno dei lavoranti nella cava. 
    B interno ed è Malpelo. 
  • C esterno e adotta una focalizzazione esterna. 
  • D esterno ma adotta il punto di vista “popolare” di coloro che vivono attorno a Malpelo. 


5. Il rapporto di casualità esistente tra i capelli rossi del protagonista e la sua presunta cattiveria è dovuto

  • A a una credenza diffusa, scaturita dall’osservazione oggettiva. 
    B a un preciso fondamento scientifico. 
  • C alle ricerche di qualche studioso del folclore. 
  • D ai pregiudizi di una comunità popolare. 


6. Per ogni coppia indica chi si trova nella condizione di oppresso e chi di oppressore.


a) Ranocchio-Malpelo

b) Malpelo-Asino grigio

c) Malpelo-Madre di Malpelo

d) Sorella di Malpelo-Malpelo


7. Quale strategia narrativa è utilizzata per descrivere gli stati d’animo dei personaggi?

  • A I sentimenti e le emozioni dei personaggi sono descritti direttamente dalla voce narrante. 
    B I sentimenti e le emozioni dei personaggi sono descritti dai personaggi testimoni della vicenda. 
  • C Non sono descritti direttamente sentimenti ed emozioni dei personaggi, ma solo le loro azioni e reazioni, dalle quali si può comprendere che cosa essi provino. 
  • D Non sono descritti sentimenti ed emozioni dei personaggi perché Verga non vuole suscitare la pietà del lettore. 


Trova nel testo almeno un esempio per motivare la tua risposta.

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COMPETENZE LINGUISTICHE

8. Congiunzioni. …giacché, alle volte, il pane… (r. 26): giacché è una congiunzione oggi piuttosto rara nell’uso comune. Con quale altra congiunzione potrebbe essere sostituita in questa frase?

  • A Affinché. 
    B Finché. 
  • C Poiché. 
  • D Allorché. 


9. Registri linguistici. Pur senza utilizzare il dialetto, Verga sceglie di utilizzare un linguaggio caratterizzato da un lessico e da una sintassi popolare. Trova un corrispettivo in italiano standard per i seguenti termini presenti nella novella:


sciancatogabbareminchionecreparebussescapaccionidi soppiattoruzzarerimpiccolireimpiccio.


10. Linguaggio figurato. … quei cenci che gli piangevano addosso da ogni parte (r. 107): i vestiti “cadono” a Rosso Malpelo “da ogni parte” perché gli stanno larghi. Ma perché, a tuo avviso, l’autore ha scelto di usare questa particolare metafora? Quale attinenza trovi tra il verbo figurato “piangere” e il verbo proprio “cadere”?

Scrivere correttamente

11. Punteggiatura. Inserisci nel testo seguente gli opportuni segni di punteggiatura.


Quando percepiva le sofferenze del suo povero amico quello che tutti chiamavano Ranocchio Malpelo gli augurava una sorte apparentemente crudele morire secondo la filosofia del protagonista del racconto infatti nessun miglioramento sarebbe stato possibile solo la morte avrebbe salvato Ranocchio dalle sofferenze

PRODURRE

12. Scrivere per descrivere. Descrivi il personaggio di Rosso Malpelo nell’ottica di un narratore onnisciente che giudica con pietà la sua triste vicenda umana. Componi così un ritratto di circa 30 righe seguendo questa scaletta:


a) aspetto fisico; b) rapporti con la famiglia; c) condizione lavorativa; d) carattere e comportamento.


13. Scrivere per raccontare. E se la vita di Rosso Malpelo avesse avuto un altro esito? Trasforma il finale della novella immaginando una conclusione diversa in un testo di circa 30 righe, che magari apra scenari inquietanti, gialli e investigativi (dov’è finito davvero Malpelo? C’è un mistero legato alla sua scomparsa?) o avventurosi (in realtà Malpelo è scappato per iniziare una nuova vita) o sentimentali (una ragazza cambia per sempre il destino del piccolo minatore)…

SPUNTI PER DISCUTERE IN CLASSE

 

Rosso Malpelo è davvero un cattivo ragazzo? Perché? E se lo è, lo è per indole o lo è diventato? Per quali motivi? Racconta oralmente in circa due minuti il tuo pensiero in merito.

L’emozione della lettura - edizione gialla - volume A
L’emozione della lettura - edizione gialla - volume A
Narrativa