LETTURE critiche

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La poesia-racconto di Cesare Pavese

di Sergio Pautasso

Il critico Sergio Pautasso (1933-2006) si sofferma in questo contributo sulle particolari modalità costruttive e retoriche delle liriche della raccolta pavesiana Lavorare stanca: non tanto una poesia tesa a descrivere fatti (dunque una sorta di racconto poetico) quanto piuttosto una poesia che si sviluppasse da una narrazione. Si tratta di versi fortemente popolari, sia per i personaggi che presentano sia per le stesse forme, che sembrerebbero rimandare a una dimensione antropologica tutta piemontese, alla quale Pavese si era rivolto forse insoddisfatto della tradizione letteraria italiana più canonica.

La poesia-racconto pavesiana, nonostante il sacrilego1 connubio terminologico, si collocava all’opposto di certa poesia discorsiva e colloquiale, e a tutto tendeva, meno che a descrivere fatti. Pavese non voleva fare racconti poetici, ma sviluppare poesia da una narrazione. Introduceva personaggi invece di analogie, li proiettava in un paesaggio invece di renderli figure astratte. Dal punto di vista della costruzione poetica questa impostazione ha la sua importanza e riflette un atteggiamento culturale a cui non era estraneo l’ambiente popolare piemontese – cittadino e contadino – che egli scrutava dal suo posto di osservazione intellettuale. I suoi personaggi sono tutti di estrazione popolare, esasperatamente popolari al limite dell’improbabile, e all’apparenza privi di una qualunque dimensione poetica. Basti pensare, per contrasto, alle «madri» di Luzi, alle figure surreali e fantastiche di Gatto, oppure agli oggetti di Montale, interpreti di un mondo che poeticamente era di certo più elevato di quello pavesiano. Ma siamo sempre nel solco della tradizione di una dimensione poetica – sia pure avanzata, dal simbolismo alla poesia pura – mentre con l’«immagine» pavesiana ne siamo al di fuori; anzi. Pavese rifiutava proprio le immagini tradizionali e cercava personaggi per creare situazioni concrete che dessero corporeità alla sua «idea di poesia-racconto».

Altra novità di Lavorare stanca era data dalla ricerca metrica. Se pensiamo alla tendenza a rendere il dettato poetico scarno ed essenziale e a dargli un marcato impianto lirico, Pavese invece cercava di crearsi un verso più lungo che sviluppasse un andamento narrativo: «Ritmavo le mie poesie mugolando», confessava sacrilegamente per definire il processo di versificazione che istintivamente stava istruendo: 

Dire, ora, il bene che penso di una simile versificazione è superfluo. Basti che essa accontentava anche materialmente il mio bisogno, tutto istintivo, di righe lunghe, poiché sentivo di aver molto da dire e di non dovermi fermare a una ragione musicale nei miei versi ma soddisfarne altresì una logica. E c’ero riuscito e insomma, bene o male, in essi narravo. 

Basta aprire il libro e leggere l’inizio dei Mari del Sud per sentire la differenza ritmica, senza che questa annulli una certa andatura musicale larga e distesa: 

Camminiamo una sera sul fianco di un colle, in silenzio. Nell’ombra del tardo crepuscolo mio cugino è un gigante vestito di bianco, che si muove pacato, abbronzato nel volto, taciturno. Tacere è la nostra virtù. Qualche nostro antenato dev’essere stato ben solo – un grand’uomo tra idioti o un povero folle – per insegnare ai suoi tanto silenzio.

Seguiamo la scansione ritmica dei versi: sembrano sconfinare, quasi naturalmente, dall’endecasillabo classico nella prosa ritmata dell’ipermetro2 sull’onda di una musica particolare. L’endecasillabo è uno degli scogli e, nello stesso tempo, dei punti obbligati della metrica italiana: quella musica, quel ritmo, a cui l’endecasillabo obbliga, e che è cantabile per natura, per tradizione. A questo verso canonico, Pavese ha cominciato a opporne un altro più flessibile di tredici sillabe, ma che può arrivare anche a sedici: in sostanza, egli partiva dal decasillabo epico per allungarlo a seconda delle esigenze dell’immagine e imprimergli così quella cadenza narrativa, e nel contempo poetica, che andava cercando e che tentava di realizzare con il suo verso. 

Una spiegazione di questo modo di costruire il verso l’ha data Pavese stesso nel Mestiere di poeta,3 quando ricordava il mugolìo informe da cui era partito. E non pochi studiosi si sono impegnati in un tentativo di descrivere la natura del verso pavesiano [...] Ma una suggestiva interpretazione storica e tecnica allo stesso tempo della versificazione pavesiana non l’ha data un critico stilistico, ma un musicologo: Mila,4 il quale ha suggerito un’altra chiave per intendere la fusione di poesia e racconto nel ritmo ternario adottato da Pavese. 

Secondo Mila, il verso pavesiano non è affatto anomalo, né è stata una sua invenzione: risale invece a una tradizione epica e popolare dell’Italia settentrionale ormai completamente desueta e dimenticata. Nella “Prefazione” alle Poesie del 1961, egli ha ricordato che durante la Resistenza gli era capitata tra le mani una edizione della raccolta dei Canti popolari del Piemonte di Costantino Nigra:5 leggendo il volume, si era imbattuto in una affermazione del Nigra, il quale, a proposito della differente forma poetica tra nord e sua dell’Italia, sosteneva questa tesi: 

Esiste in Piemonte, come nell’altra Italia superiore,6 una poesia storica, narrativa, tradizionale, che ha per oggetto di ricordare fatti della storia patria, e che quindi è realmente indigena e nazionale... L’esistenza in Piemonte e nelle altre parti della superiore Italia d’una poesia storica narrativa, nazionale e popolare, che manca in questa forma nell’Italia inferiore, è un nuovo argomento per dimostrare la persistenza del substrato7 celtico nell’alta Italia. La differenza profonda che distingue per questo rispetto le due storie popolari dell’Italia superiore e dell’inferiore, non è il risultato di circostanze speciali, accidentali ed esterne. È un fatto etnico. La poesia epico-narrativa, come abbiamo già detto, ripugnò al genio latino, e fu invece prediletta in ogni tempo all’immaginoso temperamento dei Celti, soliti convertire8 la storia in leggende, e non avendo anzi anticamente altra storia che le leggende tradizionali messe in versi, e recitate o cantate. 

Mila ha fatto sua questa considerazione e l’ha trasferita alla poesia pavesiana, sostenendo che, in fondo, la sua novità era relativa: Pavese, in maniera autonoma e inconscia, non aveva fatto altro che rivitalizzare in chiave contemporanea ciò che Nigra aveva recuperato nella poesia epica e popolare. L’ipotesi di Mila, per quanto sollecitante, non convince del tutto, appare azzardata e forzata, e non scioglie tutte le incertezze. Ma ha avuto il merito di spostare il tiro verso altre zone rispetto sia alla polemica anti ermetica sia alla tematica neorealista, aprendo alla poesia pavesiana orizzonti interpretativi nuovi in cui la personale visione dell’autore veniva a trovare precedenti e supporti dal punto di vista storico e stilistico che allargavano i confini di un discorso poetico che sembrava mancare di riferimenti precisi [...].

A questo punto entrano in gioco nel processo di formazione della ricerca poetica pavesiana il ruolo e l’influenza della tradizione letteraria italiana: è stato, sin dall’inizio, un rapporto difficile, reso ancor più complicato da incomprensioni e incompatibilità, che ha denunciato, via via, la sua marginale consistenza critica. Pavese, da quel gran lettore che era, aveva battuto molte strade della letteratura. Nelle lettere giovanili troviamo lunghi elenchi di libri letti e da leggere, a testimonianza di quanto forte fosse in lui il desiderio di impadronirsi dei loro segreti. Eppure, è stata proprio quell’ambiziosa prova di forza con la letteratura, al limite dell’esibizione, che denunciava, nello stesso tempo, la sua voracità di apprendimento mai del tutto appagata. Di qui la sterminata ampiezza dei territori da esplorare e le incertezze di percorso e di scelta che lo hanno spinto a farsi uomo libro alla ricerca del suo libro da scrittore, passando al di fuori delle vie tradizionali perché non adatte al suo passo. Guardandosi attorno, sentiva pesantemente i vincoli di una tradizione verso la quale nutriva più diffidenza che provare amore, dalla quale derivava più dubbi che certezze. Ma l’insicurezza è stata anche fonte di stimolo per ulteriori ricerche, come documentano nel corso degli anni le pagine del Mestiere di vivere.


Sergio Pautasso, Cesare Pavese oltre il mito. Il mestiere di scrivere come mestiere di vivere, Marietti 1820, Genova 2000

Comprendere il pensiero critico

1 In che cosa si distingue la poesia-racconto pavesiana dalla tradizione poetica?


2 Quali sono le novità metriche introdotte da Lavorare stanca? A quale tradizione si appoggiano?


3 Quali sono i rapporti che Pavese intesse con la letteratura italiana secondo Pautasso?

Vola alta parola - volume 6
Vola alta parola - volume 6
Dal Novecento a oggi