LETTURE critiche

LETTURE critiche

L’“uomo impietrato”

di Andrea Zanzotto

L’esperienza della guerra ha condotto Ungaretti a vivere una condizione umana ridotta a un’essenzialità “pietrosa”, da esprimere attraverso un linguaggio anch’esso del tutto privo di superflui abbellimenti retorici. Il breve passo che proponiamo è tratto dalle riflessioni critiche svolte da un grande poeta contemporaneo, Andrea Zanzotto (1921-2011), sensibile – come altri nostri autori novecenteschi – alla grande lezione ungarettiana.

Non la guerra dei re e dei generali e dei vati fu quella che Ungaretti mise in chiaro, scoprì, ma quella del «soldato sconosciuto» (è un’espressione di Jahier,1 altra figura grandissima che soffrì tutto dei campi di battaglia), anzi dell’uomo diventato nella trincea qualcosa di peggio dell’insetto in cui si trasforma il protagonista della Metamorfosi di Kafka,2 diventato mero accadimento, insensatezza pura: in cui l’insensatezza di ogni guerra si rivela senza possibilità di travestimenti retorici. È da tutti riconosciuto che la parte più rilevante nella «scoperta» e definizione di alcune posizioni fondamentali della nostra poesia del ’900 l’ebbe Ungaretti: egli fu il pioniere che si spinse su un terreno su cui gli altri lo raggiunsero più tardi. Da Ungaretti tra il ’16 e il ’19 venne proposta per la prima volta in Italia forse la tematica più caratteristica di quello che poi doveva precisarsi come «esistenzialismo».3 Al di là di un fatto letterario, nella scoperta ungarettiana dell’uomo «carsico», si ha la prima rivelazione, in un trauma radicale, di quella realtà che poi anche in Montale e in altri poeti e filosofi riappare come «impietrato soffrire senza nome».4 L’uomo-pietra, l’uomo-accadimento, il pianto che è «questa pietra»,5 già appaiono nel primo Ungaretti come fatti validi a definire una nuova e durissima epoca umana: il poeta si riconosce come proiettato nell’essere, «abbandonato nell’infinito», «uomo di pena» naufragato nel «porto sepolto». E appunto il tema del naufragio, anche se poteva riecheggiare suggestioni di altro tono, specie simbolisti- che, in Ungaretti comincia già a prendere quella colorazione, quella particolare consistenza che avrà poi nell’elaborazione poetica e teoretica dell’esistenzialismo. Ancora, è il linguaggio ungarettiano, quel linguaggio all’orlo dell’afasia,6 balbettamento di parola comune e insieme scansione lapidaria e «pura», che invera il tema esistenziale proprio in questa luce. […] È questa la parola della pietra, di quella pietra che è l’uomo, che è l’essere: il peso, le implicazioni semantiche dei termini, il modo del loro annunciarsi, per cui ogni frammento sembra strappato con immane fatica al silenzio definitivo, alla morte, introducono al tono di un’epoca dalle più cupe prospettive, in cui ancora oggi si trova.


Andrea Zanzotto, Fantasie di avvicinamento, Mondadori, Milano 1991

Comprendere il pensiero critico

1 Che cos’è l’uomo “carsico”?


2 In che modo il tema del naufragio diventa motivo esistenziale, nella poesia di Ungaretti?


3 Quali forme e significati nuovi assume la parola poetica in Ungaretti?

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La poesia di un istante

di Alfonso Berardinelli

A differenza di Marinetti, che ha affidato a un programma la volontà del Futurismo di rompere i ponti con la tradizione lirica, Ungaretti attribuisce direttamente alle parole illuminanti dei suoi versi il compito di rivoluzionare la poesia italiana. Partendo da questo confronto, Alfonso Berardinelli (n. 1943) mette in evidenza la natura istintiva della scrittura ungarettiana: una forma di naturale e vitale «estremismo linguistico» a cui si sono ispirati – con molto minore autenticità – tanti successivi imitatori.

Non è forse questo il vero e più efficace manifesto poetico, l’irresistibile slogan lirico di tutto il Novecento? Ungaretti è riuscito a battere in velocità e semplificazione anche il suo concorrente più temibile: il fragoroso, facinoroso e inquietante Filippo Tommaso Mari­netti, padre del Futurismo e profeta della Fiat. Ungaretti non si è mischiato coi motori a scoppio, ha preferito l’elettricità, le scintille e i corti circuiti. Marinetti aveva ancora biso­gno, nel 1910, di articolare per punti il suo discorso programmatico sulla letteratura del futuro. Aveva bisogno del passo di corsa, della velocità, dello schiaffo e del pugno, come si legge nel suo manifesto. Era un attivista dell’arte, un invasato squadrista letterario, in posizione ginnica e militare.

Giuseppe Ungaretti è meno attivista del suo connazionale e concittadino più anzia­no (di dodici anni: entrambi nati ad Alessandria d’Egitto, figli di emigrati). Non rifiuta affatto l’estasi, tutt’altro. La usa, la rende proficua. E non ha bisogno della mitraglia di un manifesto letterario in diversi punti. Gli basta un colpo solo, un solo punto, una dichia­razione che è nello stesso istante una poesia in estrema sintesi, la poesia di un istante, lo stato primordiale e originario della poesia.

Il «M’illumino d’immenso» è una professione di fede, una percezione immediata che ha rapporto virtualmente con tutto e concretamente con nulla. Senza averlo messo in pro­gramma, Ungaretti scrive così il primo comandamento dell’estremismo e del fanatismo li­rico, che è anche un vero e proprio manifesto tecnico della nuova poesia. Così ogni parola viene liberata dalla sintassi, viene isolata, lasciata a se stessa, restituita a se stessa. Unga­retti mette in parole, in due parole, l’illuminazione dell’io, nelle quali l’io è sommamen­te illuminato come da un enorme e quasi divino riflettore cosmico, il sole, sul palco di una storia ridotta a zero. Ma quella luce da dove viene? Viene dal sole del mattino o vie­ne direttamente dall’io? L’io (che per il Futurismo doveva sparire) qui, dilatandosi all’in­finito, sparisce o diventa enorme?

Nella antologia Garzanti della poesia italiana del Novecento questa micropoesia è ac­compagnata da una nota: «Due parole per una poesia: oggetto di polemiche, di ironia, di frecciate per tanti anni. È l’esaltazione del frammento, così come Ungaretti, in quella fase di ricostruzione di una poesia e di una metrica italiana, lo sentiva».

I due minimi versi di Ungaretti (un settenario diviso in due) si presentano come un semplice appunto da taccuino, la nota scarna del soldato­poeta che non ha né tempo né spazio per scrivere, e la cui vita è ridotta a una sola cellula di pensiero, che ogni mattina si meraviglia di essere ancora in vita. Ma il destino letterario successivo di questo stile e tecnica di scrittura di Ungaretti forse qualche frecciata ironica la merita. Ungaretti ha la­-vorato alla ricostruzione del discorso poetico, ha aperto la strada al petrarchismo e al gon­gorismo e tardo simbolismo o surrealismo depurato dagli ermetici. L’estrema e disperata serenità di chi è in bilico tra la vita e la morte, soldato in guerra, diventa più tardi certez­za, abitudine e garanzia poeticistica per innumerevoli epigoni, noti e ignoti. È un destino culturale che non riguarda solo Ungaretti e l’ungarettismo (che arriva fino alla Neoavan­guardia e ad Andrea Zanzotto). L’estremismo linguistico, l’essenzialismo dell’arte e del­la poesia moderna è nato da situazioni realmente estreme, è nato dalle rovine della pri­ma guerra mondiale. Ma è diventato poi estremismo simulato, fittizio, o programmatico. Quanti disastrosi disastri poetici, quanti poeti illeggibili, candidi e sibillini (formalistici, informali, oracolari e orfici, irreali) sono nati dal piccolo seme di quelle due parole di Un­garetti! Un vero disastro ecologico. Un pauroso imbruttimento e degrado del linguaggio e dell’ambiente poetico, che ancora oggi ognuno può vedere, se vuole.


Alfonso Berardinelli, Cento poeti, Mondadori, Milano 1991

Comprendere il pensiero critico

1 In quali modi si attuano le rivoluzioni di Ungaretti e Marinetti?


2 Quale significato acquista la scarnificazione del verso di Ungaretti?


3 Gli epigoni di Ungaretti hanno mantenuto la stessa potenza poetica ed evocativa?

 >> pagina 504 

La “poetica della parola” in Ungaretti

di Niva Lorenzini

Niva Lorenzini (n. 1945) si sofferma sulla volontà di Ungaretti di sfidare il silenzio e il disincanto in virtù della fede nel valore quasi materico della parola: una fede mai smarrita in cui il frammentismo sperimentale convive con il richiamo alla totalità espresso dalla poesia simbolista.

È innegabile che le prime prove di Ungaretti successive all’apprendistato di “Lacerba”,così importante per il delinearsi di una vena palazzeschiana2 che non va affatto sotto­valutata nel futuro estimatore di Apollinaire,3 si impongono coi caratteri della novità: al punto che né il futurismo né la sperimentazione vociana sono premesse sufficienti a contenerla, e Ungaretti si sente – non certo solo per ragioni formali – uno sradicato, in­compreso sino all’emarginazione. Le lettere a Soffici4 esprimono il disagio di chi vede non solo le sue prime poesie, ma l’Allegria del ’19, il libro più rivoluzionario della prima metà del secolo, boicottati dalla critica più tradizionalista. [...] 

Può incuriosire allora ascoltare lo stesso Ungaretti intento a definire, non senza enfa­si autocelebrativa, i modi di quel lirismo singolare. Alle Prime mie poesie...è è destinata in­fatti, nel ’33, una pagina ispirata che può valere come ulteriore descrizione di una nuova accezione di «frammento lirico»:

Se le mie prime preoccupazioni furono di cogliere la parola in istato di crisi, di farla con me soffrire, se la mia poesia vuole essere sempre come uno schianto carnale che apra il volo a fiori di fuoco […], se la realtà mi preme così tanto, potevo essere indifferente alla grande miseria che negli ultimi anni s’è precipitata sul mondo?

La «parola in stato di crisi»: dalla vergogna della poesia alle provocazioni delle avanguardie, il primo quindicennio del secolo si era chiesto, nei modi più diversificati, come fosse possibile ricominciare a parlare dopo l’inflazione dei vati e lo smascheramento del binomio arte­vita.Ungaretti imposta le sue prime prove come sintesi, da un lato, delle esperienze che lo precedono, e dall’altro come verifiche in atto di un passare oltre, ritrovando l’energia della pronuncia proprio a partire dall’angoscia di un io franto («Sono un poeta / un gri­do unanime / sono un grumo di sogni», scrive non senza residui di posa oratoria in Italia, datata Locvizza l’1 ottobre 1916, tra le pochissime poesie di Porto Sepolto – saranno 9 com­plessivamente – a non subire ritocchi correttori nell’edizione definitiva).

[...]

Né l’afonia né la desublimazione si ritrovano nell’eccitazione di un dire reso sovrac­carico di responsabilità dall’uomo-poeta che, stendendo col Porto Sepolto il proprio dia­rio di guerra, non cessa di credere alla poetica della parola (pur scavata nell’abisso, colta nell’esasperazione del grido). Al punto che essere poeti, nei decenni a venire e sino quasi ai nostri anni, vorrà dire, nell’immaginario nazional popolare, assumere un’ispirata po­sa, optando per l’inusuale, la pronuncia forte, ispirata, che finisce per concludersi in sé, autosufficiente e salvifica.

Eppure il Novecento non potrà sottrarsi al confronto col Porto Sepolto né con la prima Allegria, che segnano una esplicita rottura con una continuità lirica sino a quel punto di­scussa, ribaltata, ma mai infranta in modi così dirompenti.

Non è nuova la volontà, ribadita negli interventi critici di Ungaretti, di stendere una biografia in versi, secondo una linea che ha addirittura nel Petrarca l’autorevole iniziato­re («Il carattere, il primo carattere di tutta la mia attività è autobiografico», si legge in Ungaretti commenta Ungaretti, subito prima dell’affermazione: «La mia poesia è nata in realtà in trincea. […] La guerra improvvisamente mi rivela il linguaggio»).

È però nuova l’intensità con cui il vissuto si trasforma in esperienza di scrittura. Qui sta il punto: Ungaretti vuole accreditare il bisogno di «dire in fretta perché il tempo pote­va mancare», dirlo con «poche parole», che avessero «un’intensità straordinaria di signifi­cato». Ed è nuova, allora, non la «vita in versi», che era già dei crepuscolari e vociani, ma questo sfidare matericamente il silenzio, questo costringere l’attimo a prendere corpo, so­stituendo alla vibrazione della materia tanto praticata dai futuristi una nudità che ne met­tesse ancor più in evidenza l’aspetto fenomenico, il battito del respiro, in una «necessità di farsi intimo agli elementi» che non escludeva uno «stupore contemplativo».

Un espressionismo radicale, dunque, che veicola però insieme un valore orfico: il transeunte non si esaurisce in sé, ma contiene un’ansia di assoluto che lo carica dei mo­tivi della perdita da risarcire, dell’assenza da colmare. Di «tensione vitale sorpresa di se stessa, sbalordita di poter assistere» parlava non a caso Fortini:5 e aggiungeva che di fron­te alla violenza del verso (quella ottenuta tecnicamente con pause di silenzio che valgo­no come «veri e propri atti di intimidazione» nei confronti del lettore, imponendosi all’a­scolto con un’evidenza teatrale) sta il riconoscersi del poeta­soldato «una docile fibra / dell’universo» (I fiumi).


Niva Lorenzini, La poesia italiana del Novecento, il Mulino, Bologna 2005

Comprendere il pensiero critico

1 Come definisce Ungaretti il suo stile poetico nell’Allegria del 1919?


2 Perché, secondo Nina Lorenzini, è nuova l’intensità con cui il vissuto si trasforma in esperienza di scrittura?

Vola alta parola - volume 6
Vola alta parola - volume 6
Dal Novecento a oggi