Per la loro fame, nella fretta incalzante di saziarle, che pasto potete estrarre da
voi ogni giorno, ogni ora, ogni minuto?
105 È per forza il trionfo della stupidità, dopo tanto ingegno e tanto studio spesi
per la creazione di questi mostri, che dovevano rimanere strumenti e sono divenuti
invece, per forza, i nostri padroni.
La macchina è fatta per agire, per muoversi, ha bisogno di ingojarsi la nostra
anima, di divorar la nostra vita. E come volete che ce le ridiano, l’anima e la vita,
110 in produzione centuplicata e continua, le macchine? Ecco qua: in pezzetti e bocconcini,
tutti d’uno stampo, stupidi e precisi, da farne, a metterli sù, uno su l’altro,
una piramide che potrebbe arrivare alle stelle. Ma che stelle, no, signori! Non ci
credete. Neppure all’altezza d’un palo telegrafico. Un soffio li abbatte e li ròtola
giù, e tal altro ingombro, non più dentro ma fuori, ce ne fa, che – Dio, vedete
115 quante scatole, scatolette, scatolone, scatoline? – non sappiamo più dove mettere i
piedi, come muovere un passo. Ecco le produzioni dell’anima nostra, le scatolette
della nostra vita!
Che volete farci? Io sono qua. Servo la mia macchinetta, in quanto la giro perché
possa mangiare. Ma l’anima, a me, non mi serve. Mi serve la mano; cioè serve
120 alla macchina. L’anima in pasto, in pasto la vita, dovete dargliela voi signori, alla
macchinetta ch’io giro. Mi divertirò a vedere, se permettete, il prodotto che ne verrà
fuori. Un bel prodotto e un bel divertimento, ve lo dico io.
Già i miei occhi, e anche le mie orecchie, per la lunga abitudine, cominciano
a vedere e a sentir tutto sotto la specie di questa rapida tremula ticchettante riproduzione
125 meccanica.
Non dico di no: l’apparenza è lieve e vivace. Si va, si vola. E il vento della
corsa dà un’ansia vigile ilare acuta, e si porta via tutti i pensieri. Avanti! Avanti
perché non s’abbia tempo né modo d’avvertire il peso della tristezza, l’avvilimento
della vergogna, che restano dentro, in fondo. Fuori, è un balenìo continuo, uno
130 sbarbàglio7 incessante: tutto guizza e scompare.
Che cos’è? Niente, è passato! Era forse una cosa triste; ma niente, ora è passata.
C’è una molestia, però, che non passa. La sentite? Un calabrone che ronza
sempre, cupo, fosco, brusco, sotto sotto, sempre. Che è? Il ronzìo dei pali telegrafici?
lo striscìo continuo della carrucola lungo il filo dei tram elettrici? il fremito
135 incalzante di tante macchine, vicine, lontane? quello del motore dell’automobile?
quello dell’apparecchio cinematografico?
Il bàttito del cuore non s’avverte, non s’avverte il pulsar delle arterie. Guaj, se s’avvertisse!
Ma questo ronzìo, questo ticchettìo perpetuo, sì, e dice che non è naturale
tutta questa furia turbinosa, tutto questo guizzare e scomparire d’immagini; ma che
140 c’è sotto un meccanismo, il quale pare lo insegua, stridendo precipitosamente.
Si spezzerà?
Ah, non bisogna fissarci l’udito. Darebbe una smania di punto in punto crescente,
un’esasperazione a lungo insopportabile; farebbe impazzire.
In nulla, più in nulla, in mezzo a questo tramenìo8 vertiginoso, che investe e
145 travolge, bisognerebbe fissarsi. Cogliere, attimo per attimo, questo rapido passaggio
d’aspetti e di casi, e via, fino al punto che il ronzìo per ciascuno di noi non
cesserà.