4 - La civiltà moderna, la macchina e l’alienazione

4 La civiltà moderna, la macchina e l’alienazione

Il rapporto di Pirandello con la civiltà moderna è contraddistinto da un atteggiamento di rifiuto, derivante in parte dall’originario radicamento dell’autore nella società contadina, in parte da una diffidenza, maturata criticamente, nei confronti dell’industrializzazione e della macchina.

Nella visione del mondo e nella stessa produzione letteraria di Pirandello gli sviluppi delle scienze applicate e le innumerevoli innovazioni tecniche d’inizio secolo costituiscono elementi stridenti, problematici. Al culto futurista della macchina egli contrappone una lucida consapevolezza dei risvolti negativi della trionfale celebrazione del “nuovo”. Velocità, potenza, produttività, energia: in nome di questi miti moderni si consuma quotidianamente, secondo l’autore, il sacrificio del sentimento, della coscienza e della memoria.

Luogo-simbolo di una meccanizzazione industriale fuori controllo è la città moderna, dalla quale Pirandello si sente insieme attratto e respinto. Nel Fu Mattia Pascal vengono descritte due città esemplari, Milano e Roma. Il protagonista prima si aggira spaesato tra la folla milanese, rintronato dal «frastuono» e dal «fermento continuo della città», stupito e inquieto di fronte allo sferragliare dei tram e all’abbagliante «miracolo» della luce elettrica, ma, in ultima analisi, non viene conquistato dal fascino della vita cittadina né è persuaso circa le possibilità di trovarvi una spontanea vivibilità. Si sposta successivamente a Roma, dove però gli sembra di trovare soltanto un passato di «cartapesta», il ricordo degli antichi fasti sgradevolmente mescolato ai primi accenni di modernità.

Pirandello, tuttavia, non cerca rifugio nel topos letterario del ritorno alla natura, né in senso cronologico, né in senso spaziale: la società preindustriale, da una parte, e la vita della provincia, dall’altra, restano solo velleitari sogni di evasione. Egli non idealizza il mondo rurale (come in quegli stessi anni fa, per esempio, Pascoli), né esalta la condizione premoderna, di cui registra piuttosto il disfacimento. Non vede dunque alcuna via di fuga dalla vuota frenesia della società industriale: l’umanità contemporanea è destinata a restare sospesa tra vecchio e nuovo, senza riuscire ad adattarsi a nessuna delle due dimensioni.

Al centro della civiltà moderna, a guidare la corsa senza fine al progresso, si erge imperiosa la macchina. Prodotto della tecnologia che dovrebbe aiutare l’uomo, in realtà, secondo Pirandello, la macchina ha il carattere inquietante e minaccioso di un essere vampiresco e parassitario, che si ribella al suo creatore per soppiantarlo (il protagonista dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore, per esempio, è consapevole del fatto che un giorno verrà sostituito da un congegno meccanico in grado di svolgere il suo lavoro).

Non a caso l’immaginario pirandelliano insiste molto sull’analogia macchina-mostro. L’autore dissemina ovunque metafore sulla fame, sulla digestione, sul fare a «pezzetti e bocconcini» quel poco di verità che è ancora possibile trovare nella società industriale e commerciale, e in particolare nella nuova industria d’intrattenimento, il cinema, che segna lo stupido trionfo della realtà artificiale su quella autentica.

Nel denunciare i rischi di omologazione connessi all’avvento della civiltà meccanizzata, Pirandello avverte il pericolo della mercificazione dell’opera d’arte. Grazie alla sua riproducibilità, consentita dalle moderne tecnologie (si pensi in particolare al cinema e alla fotografia), vengono irrimediabilmente intaccate l’unicità e l’irripetibilità del prodotto artistico.

Nel suo celebre saggio del 1936 L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica il filosofo tedesco Walter Benjamin (1892-1940) fornirà la spiegazione più completa di questo processo, citando proprio i Quaderni di Serafino Gubbio operatore nel suo discorso sulla demitizzazione della creazione estetica nella società di massa. L’opera d’arte, scrive Benjamin, ha perso la sua «aura», quell’aspetto indefinibile – e proprio per questo non riproducibile – che infonde un’anima viva a un semplice oggetto materiale. Ecco, la crisi dell’opera d’arte è vista da Pirandello proprio nell’occhio di vetro – vuoto e inanimato – dell’apparecchio cinematografico, in cui l’attore non può riflettersi e dunque riconoscersi. Privati del contatto con il pubblico, ma nemmeno compensati con una restituzione diretta della propria immagine (che avviene solo in un secondo momento, sullo schermo), gli attori non possono che finire per odiare la macchina da presa e il suo prodotto, perché «l’azione viva del loro corpo vivo, là, su la tela dei cinematografi, non c’è più». Questa riduzione della persona a oggetto, a immagine priva di vita, è il simbolo dell’alienazione dell’individuo moderno. L’impudenza dell’occhio di vetro diviene metafora della disumanità celata dietro il fascino della tecnica.

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Per approfondire

Pirandello e il cinema

Tra odio e amore

Il rapporto di Pirandello con l’arte cinematografica è altalenante e ambiguo. L’entusiasmo espresso in alcune occasioni («Perché tenerci lontani da questo nuovo modo d’espressione che ci permette di rendere sensibili fatti appartenenti a un àmbito che è quasi del tutto interdetto al Teatro e al Romanzo?») si capovolge per lo più in giudizi del tutto negativi, in cui il nuovo mezzo d’espressione è definito «sconcia contaminazione» e «ibrido giuoco». Come altri intellettuali, infatti, egli vede nel cinema un volgare surrogato del teatro, una brutta copia dell’originale. Eppure gli scrittori, in qualità di sceneggiatori o soggettisti, potevano trarre dal cinema notevoli vantaggi economici, e Pirandello, come gli altri, fu attratto dal miraggio di un facile guadagno.

Le prime pellicole pirandelliane

La sua collaborazione con l’industria cinematografica inizia negli anni Dieci. I capannoni di vetro della “Film Arte Italiana” sorgono proprio sotto le finestre della sua casa romana e allo scrittore capita di assistere alle riprese, suggerendo scene ed episodi, fino a proporre testi originali da trasferire sullo schermo. Il primo film tratto da un’opera di Pirandello (Lumìe di Sicilia) è del 1920, si intitola Il crollo ed è diretto da Mario Gargiulo; seguono le due versioni di Ma non è una cosa seria, rispettivamente di Augusto Camerini e Mario Camerini (1921 e 1936); del 1921 è Il viaggio, diretto da Gennaro Righelli, che sarà portato di nuovo sullo schermo dopo cinquant’anni da Vittorio De Sica, con Sophia Loren e Richard Burton (1974). Celebri le interpretazioni, che chiudono, nel 1926, la filmografia muta dell’opera pirandelliana, del Fu Mattia Pascal di Marcel L’Herbier e di Enrico IV di Amleto Palermi.

L’avvento del sonoro suscita notevoli perplessità in Pirandello, che preferisce il muto con le didascalie. Viste le difficoltà nell’armonizzare letteratura e cinema, egli pensa a un avvicinamento alla musica, immaginando un nuovo linguaggio, visivo e musicale, che chiama “cinemelografia”. Ma la sua idea non ha seguito e nel 1928 viene definitivamente accantonata: il cinema sonoro (parlato e non solo musicale) sta ormai percorrendo tutt’altre strade.

Progetti realizzati e mancati

Quando nel 1930 esce il primo film sonoro del cinema italiano, La canzone dell’amore, di Gennaro Righelli, sembra realizzarsi un vero e proprio paradosso pirandelliano: il soggetto è tratto, infatti, dalla sua novella In silenzio. Nel 1932 Pirandello segue personalmente a Hollywood le riprese di Come tu mi vuoi, diretto da George Fitzmaurice e interpretato da Greta Garbo, partecipando alla lavorazione con consigli e suggerimenti. L’anno seguente esce Acciaio, diretto da Walter Ruttmann, tratto da un soggetto (Giuoca, Pietro!) scritto da Pirandello appositamente per il cinema su richiesta di Benito Mussolini.

L’opera di Pirandello che più ha attirato l’interesse di registi e produttori è, però, Sei personaggi in cerca d’autore; per diversi anni lo scrittore cerca di realizzarne una versione cinematografica, ma morirà senza vederla sullo schermo. Forse anche per questo uno degli ultimi commenti sul cinema, scritto in una lettera a Marta Abba del 1934, suona così amaro: «Non c’è da fidarsi di nessuno, Marta mia, in questo sporco mondo del Cinematografo, mondo di malfattori idioti e brutali, dove s’è accampato il rifiuto e il ributto di tutta la società, la putredine». Nonostante questo disilluso testamento, l’elenco dei film ispirati alla sua opera, compresi quelli realizzati per la televisione, è cresciuto via via, di pari passo con la sua fama internazionale di scrittore.

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T6

Una mano che gira una manovella

Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Quaderno primo

Il passo che segue costituisce l’incipit del romanzo. Si tratta di una sorta di presentazione dell’ambiente del cinema e del mestiere dell’operatore (il primo titolo del romanzo era Si gira…), in cui sono evidenziati i temi fondamentali dell’opera, sviluppati poi più ampiamente nel corso della narrazione.

I

Studio la gente nelle sue più ordinarie occupazioni, se mi riesca di scoprire negli

altri quello che manca a me per ogni cosa ch’io faccia: la certezza che capiscano

ciò che fanno.

In prima, sì, mi sembra che molti l’abbiano, dal modo come tra loro si guarda­no 

5      e si salutano, correndo di qua, di là, dietro alle loro faccende o ai loro capricci.

Ma poi, se mi fermo a guardarli un po’ addentro negli occhi con questi miei occhi

intenti e silenziosi, ecco che subito s’aombrano.1 Taluni anzi si smarriscono in una

perplessità così inquieta, che se per poco io seguitassi a scrutarli, m’ingiurierebbero

o m’aggredirebbero.

10    No, via, tranquilli. Mi basta questo: sapere, signori, che non è chiaro né certo

neanche a voi neppur quel poco che vi viene a mano a mano determinato dalle

consuetissime condizioni in cui vivete. C’è un oltre in tutto. Voi non volete o non

sapete vederlo. Ma appena appena quest’oltre baleni negli occhi d’un ozioso come

me, che si metta a osservarvi, ecco, vi smarrite, vi turbate o irritate.

15    Conosco anch’io il congegno esterno, vorrei dir meccanico della vita che frago­rosamente 

e vertiginosamente ci affaccenda senza requie. Oggi, così e così; questo

e quest’altro da fare; correre qua, con l’orologio alla mano, per essere in tempo

là. «No, caro, grazie: non posso!». «Ah sì, davvero? Beato te! Debbo scappare…».

«Alle undici, la colazione». «Il giornale, la borsa, l’ufficio, la scuola…». «Bel tempo,

20    peccato! Ma gli affari…». «Chi passa? Ah, un carro funebre… Un saluto, di corsa, a

chi se n’è andato». «La bottega, la fabbrica, il tribunale…».

Nessuno ha tempo o modo d’arrestarsi un momento a considerare, se quel che

vede fare agli altri, quel che lui stesso fa, sia veramente ciò che sopra tutto gli con­venga, 

ciò che gli possa dare quella certezza vera, nella quale solamente potrebbe

25    trovar riposo. Il riposo che ci è dato dopo tanto fragore e tanta vertigine è grava­to 

da tale stanchezza, intronato da tanto stordimento, che non ci è più possibile

raccoglierci un minuto a pensare. Con una mano ci teniamo la testa, con l’altra

facciamo un gesto da ubriachi.

«Svaghiamoci!».

30    Sì. Più faticosi e complicati del lavoro troviamo gli svaghi che ci si offrono; sic­ché 

dal riposo non otteniamo altro che un accrescimento di stanchezza.

Guardo per via le donne, come vestono, come camminano, i cappelli che por­tano 

in capo; gli uomini, le arie che hanno o che si dànno; ne ascolto i discorsi,

i propositi; e in certi momenti mi sembra così impossibile credere alla realtà di

35    quanto vedo e sento, che non potendo d’altra parte credere che tutti facciano per

ischerzo, mi domando se veramente tutto questo fragoroso e vertiginoso mecca­nismo 

della vita, che di giorno in giorno sempre più si còmplica e s’accèlera, non

abbia ridotto l’umanità in tale stato di follìa, che presto proromperà frenetica a

sconvolgere e a distruggere tutto. Sarebbe forse, in fin de’ conti, tanto di guadagna­to. 

40    Non per altro, badiamo: per fare una volta tanto punto e daccapo.

Qua da noi non siamo ancora arrivati ad assistere allo spettacolo, che dicono

frequente in America, di uomini che a mezzo d’una qualche faccenda, fra il tu­multo 

della vita, traboccano giù,2 fulminati. Ma forse, Dio ajutando, ci arriveremo

presto. So che tante cose si preparano. Ah, si lavora! E io – modestamente – sono

45    uno degli impiegati a questi lavori per lo svago.

Sono operatore. Ma veramente, essere operatore, nel mondo in cui vivo e di cui

vivo, non vuol mica dire operare.

Io non opero nulla.

Ecco qua. Colloco sul treppiedi a gambe rientranti la mia macchinetta. Uno

50    o due apparatori,3 secondo le mie indicazioni, tracciano sul tappeto o su la piat­taforma 

con una lunga pertica e un lapis turchino i limiti entro i quali gli attori

debbono muoversi per tenere in fuoco la scena.

Questo si chiama segnare il campo.

Lo segnano gli altri; non io: io non faccio altro che prestare i miei occhi alla

55    macchinetta perché possa indicare fin dove arriva a prendere.

Apparecchiata la scena, il direttore4 vi dispone gli attori e suggerisce loro l’a­zione 

da svolgere.

Io domando al direttore:

«Quanti metri?».

60    Il direttore, secondo la lunghezza della scena, mi dice approssimativamente il

numero dei metri di pellicola che abbisognano, poi grida agli attori:

«Attenti, si gira!».

E io mi metto a girar la manovella.

Potrei farmi l’illusione che, girando la manovella, faccia muover io quegli atto­ri, 

65    press’a poco come un sonatore d’organetto fa la sonata girando il manubrio. Ma

non mi faccio né questa né altra illusione, e séguito a girare finché la scena non è

compiuta; poi guardo nella macchinetta e annunzio al direttore:

«Diciotto metri», oppure: «trentacinque».

E tutto è qui.

70    Un signore, venuto a curiosare, una volta mi domandò:

«Scusi, non si è trovato ancor modo di far girare la macchinetta da sé?».

Vedo ancora la faccia di questo signore: gracile, pallida, con radi capelli biondi;

occhi cilestri,5 arguti; barbetta a punta, gialliccia, sotto la quale si nascondeva un

sorrisetto, che voleva parer timido e cortese, ma era malizioso. Perché con quella

75    domanda voleva dirmi:

«Siete proprio necessario voi? Che cosa siete voi? Una mano che gira la manovella. 

Non si potrebbe fare a meno di questa mano? Non potreste esser soppresso,

sostituito da un qualche meccanismo?».

Sorrisi e risposi:

80    «Forse col tempo, signore. A dir vero, la qualità precipua che si richiede in uno

che faccia la mia professione è l’impassibilità di fronte all’azione che si svolge da­vanti 

alla macchina. Un meccanismo, per questo riguardo, sarebbe senza dubbio

più adatto e da preferire a un uomo. Ma la difficoltà più grave, per ora, è questa:

trovare un meccanismo, che possa regolare il movimento secondo l’azione che si

85    svolge davanti alla macchina. Giacché io, caro signore, non giro sempre allo stesso

modo la manovella, ma ora più presto ora più piano, secondo il bisogno. Non dubito ­

però, che col tempo – sissignore – si arriverà a sopprimermi. La macchinetta –

anche questa macchinetta, come tante altre macchinette – girerà da sé. Ma che cosa

poi farà l’uomo quando tutte le macchinette gireranno da sé, questo, caro signore,

90    resta ancora da vedere».


II

Soddisfo, scrivendo, a un bisogno di sfogo, prepotente. Scarico la mia professiona­le 

impassibilità e mi vendico, anche; e con me vendico tanti, condannati come me

a non esser altro, che una mano che gira una manovella.

Questo doveva avvenire, e questo è finalmente avvenuto!

95    L’uomo che prima, poeta, deificava i suoi sentimenti e li adorava, buttati via i

sentimenti, ingombro non solo inutile ma anche dannoso, e divenuto saggio e in­dustre,6 

s’è messo a fabbricar di ferro, d’acciajo le sue nuove divinità ed è diventato

servo e schiavo di esse.

Viva la Macchina che meccanizza la vita!

10Vi resta ancora, o signori, un po’ d’anima, un po’ di cuore e di mente? Date,

date qua alle macchine voraci, che aspettano! Vedrete e sentirete, che prodotto di

deliziose stupidità ne sapranno cavare.

Per la loro fame, nella fretta incalzante di saziarle, che pasto potete estrarre da

voi ogni giorno, ogni ora, ogni minuto?

10È per forza il trionfo della stupidità, dopo tanto ingegno e tanto studio spesi

per la creazione di questi mostri, che dovevano rimanere strumenti e sono divenuti

invece, per forza, i nostri padroni.

La macchina è fatta per agire, per muoversi, ha bisogno di ingojarsi la nostra

anima, di divorar la nostra vita. E come volete che ce le ridiano, l’anima e la vita,

11in produzione centuplicata e continua, le macchine? Ecco qua: in pezzetti e boc­concini, 

tutti d’uno stampo, stupidi e precisi, da farne, a metterli sù, uno su l’altro,

una piramide che potrebbe arrivare alle stelle. Ma che stelle, no, signori! Non ci

credete. Neppure all’altezza d’un palo telegrafico. Un soffio li abbatte e li ròtola

giù, e tal altro ingombro, non più dentro ma fuori, ce ne fa, che – Dio, vedete

11quante scatole, scatolette, scatolone, scatoline? – non sappiamo più dove mettere i

piedi, come muovere un passo. Ecco le produzioni dell’anima nostra, le scatolette

della nostra vita!

Che volete farci? Io sono qua. Servo la mia macchinetta, in quanto la giro per­ché 

possa mangiare. Ma l’anima, a me, non mi serve. Mi serve la mano; cioè serve

12alla macchina. L’anima in pasto, in pasto la vita, dovete dargliela voi signori, alla

macchinetta ch’io giro. Mi divertirò a vedere, se permettete, il prodotto che ne verrà

fuori. Un bel prodotto e un bel divertimento, ve lo dico io.

Già i miei occhi, e anche le mie orecchie, per la lunga abitudine, cominciano

a vedere e a sentir tutto sotto la specie di questa rapida tremula ticchettante ripro­duzione 

12meccanica.

Non dico di no: l’apparenza è lieve e vivace. Si va, si vola. E il vento della

corsa dà un’ansia vigile ilare acuta, e si porta via tutti i pensieri. Avanti! Avanti

perché non s’abbia tempo né modo d’avvertire il peso della tristezza, l’avvilimento

della vergogna, che restano dentro, in fondo. Fuori, è un balenìo continuo, uno

13sbarbàglio7 incessante: tutto guizza e scompare.

Che cos’è? Niente, è passato! Era forse una cosa triste; ma niente, ora è passata.

C’è una molestia, però, che non passa. La sentite? Un calabrone che ronza

sempre, cupo, fosco, brusco, sotto sotto, sempre. Che è? Il ronzìo dei pali telegra­fici? 

lo striscìo continuo della carrucola lungo il filo dei tram elettrici? il fremito

13incalzante di tante macchine, vicine, lontane? quello del motore dell’automobile?

quello dell’apparecchio cinematografico?

Il bàttito del cuore non s’avverte, non s’avverte il pulsar delle arterie. Guaj, se s’av­vertisse! 

Ma questo ronzìo, questo ticchettìo perpetuo, sì, e dice che non è naturale

tutta questa furia turbinosa, tutto questo guizzare e scomparire d’immagini; ma che

14c’è sotto un meccanismo, il quale pare lo insegua, stridendo precipitosamente.

Si spezzerà?

Ah, non bisogna fissarci l’udito. Darebbe una smania di punto in punto cre­scente, 

un’esasperazione a lungo insopportabile; farebbe impazzire.

In nulla, più in nulla, in mezzo a questo tramenìo8 vertiginoso, che investe e

14travolge, bisognerebbe fissarsi. Cogliere, attimo per attimo, questo rapido passag­gio 

d’aspetti e di casi, e via, fino al punto che il ronzìo per ciascuno di noi non

cesserà.

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Dentro il TESTO

I contenuti tematici

Il gesto di annotare su alcuni quaderni le sue considerazioni sulla realtà rappresenta, per l’operatore cinematografico Serafino Gubbio, il tentativo di sfuggire all’alienazione di un lavoro puramente meccanico. L’incipit del romanzo (Studio la gente nelle sue più ordinarie occupazioni, r. 1) rivela subito una caratteristica fondamentale dell’opera: la presenza di un narratore dotato di una vocazione filosofica. Non ci si deve pertanto aspettare un racconto coerente e compiuto, ma un saggio-studio in cui le vicende narrate sono condizionate dalla voce narrante. Questo personaggio, che appare persino privo di una precisa fisionomia, diviene quasi puro pensiero, proprio in conseguenza del fatto che la sua fisicità è stata ridotta ad appendice pseudovivente di una macchina da presa, a “protesi” umana di un congegno meccanico.

Abituato, per la sua professione, a tenere sotto controllo passioni e sentimenti (l’operatore non deve partecipare all’azione, ma solo registrarla fedelmente), Serafino sceglie come narratore di indossare consapevolmente la «maschera dell’impassibilità», non per denunciare la corruzione e i difetti di una specifica realtà – come avrebbe fatto uno scrittore naturalista o verista – ma per rivelare che uno «studio senza passione» è forse l’unica vera salvezza rimasta all’individuo alienato della modernità; solo in questo modo, infatti, egli può recidere ogni legame con la falsa realtà in cui è immerso.

Il suo sguardo è freddo e distaccato, ma non ha più le prerogative del classico narratore esterno e onnisciente, anzi è voce interna per eccellenza, e la sua conoscenza degli uomini e delle cose non gli è data a priori, per statuto narrativo, ma è una conquista della sua osservazione disincantata e della sua riflessione filosofica. Egli spia da dietro le quinte, nell’anonimato della macchina da presa, la strana mescolanza di verità e finzione che travolge gli attori (le cui vicende si sovrappongono a quelle rappresentate nel film), scopre risvolti inediti nelle esistenze che gli scorrono davanti, comprendendo sentimenti e dinamiche relazionali invisibili agli occhi degli attori stessi. Proprio perché si rifiuta di partecipare emotivamente alla vita falsa che è costretto a registrare, egli può guardarsi intorno inosservato e dipingere così ritratti grotteschi di quello che vede.

Chi aziona la manovella della macchina da presa può arrivare persino a credere, per un istante, di avere un qualche potere sugli attori (Potrei farmi l’illusione che, girando la manovella, faccia muover io quegli attori, rr. 64-65). Ma si tratta di un’illusione: Serafino è solo un occhio che scruta e una mano che gira una manovella (r. 93). Il suo ruolo non è indispensabile; anzi, ciò che rende umani (la ragione, i sentimenti) è ostacolo all’efficienza del suo gesto imperturbabile. Per essere impassibile, insomma, egli deve ridursi a parte meccanica di un apparecchio. Del resto è solo questione di tempo: presto, in un futuro totalmente meccanizzato, si troverà un modo per azionare la manovella automaticamente (La macchinetta – anche questa macchinetta, come tante altre macchinette – girerà da sé. Ma che cosa poi farà l’uomo quando tutte le macchinette gireranno da sé, questo, caro signore, resta ancora da vedere, rr. 87-90).

Serafino non è dunque altro che un piccolo ingranaggio che contribuisce a far funzionare la neonata industria cinematografica; dall’interno egli è in grado di osservare e giudicare questo primo esempio di intrattenimento in serie, volto a distrarre (Svaghiamoci!, r. 29) e a distendere gli animi affaticati dal ritmo convulso della vita moderna. Tuttavia, il riposo che l’individuo trova nelle sale cinematografiche è fittizio, essendo gravato da tale stanchezza, intronato da tanto stordimento (rr. 25-26) da non riuscire più a godere di un minuto di raccoglimento per pensare. Invece di essere un antidoto al fragoroso e vertiginoso meccanismo della vita (rr. 36-37), l’industria dello svago porta in trionfo la stupidità di personaggi finti nella loro rifulgente bellezza patinata e l’assurdità di vicende senza peso e senza significato. L’anima e la vita, ridotte in pezzetti e bocconcini, tutti d’uno stampo, stupidi e precisi (rr. 110-111), vengono letteralmente divorate dalla cinepresa, imprigionate nel balenìo scintillante dello schermo, in un riflesso inafferrabile e immateriale come un sogno che non lascia memoria.

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L’unico mezzo per sopravvivere all’alienazione è dunque costituito dall’atto della scrittura, che è anche una forma di vendetta per tutti coloro che sono incatenati a una macchina (Serafino è un intellettuale autodidatta che, per vivere, si adatta a fare l’operatore): Soddisfo, scrivendo, a un bisogno di sfogo, prepotente. Scarico la mia professionale impassibilità e mi vendico (rr. 91-92). La parcellizzazione del lavoro e dunque dell’individuo – nella catena di montaggio serve solo una mano, non una persona – viene denunciata e insieme riscattata: il gesto di scrivere, infatti, come un rito catartico, si compie attraverso quella stessa mano che ogni giorno è costretta a girare una manovella.

Le scelte stilistiche

L’uso del tempo presente, fin dall’inizio del romanzo, non indica alcuna contemporaneità fra storia e racconto, ma inscrive la dimensione del testo nella fredda impassibilità di un lavoro scientifico o teorico, in un presente quasi atemporale proprio della riflessione filosofica.

La prosa pirandelliana è comunque, come sempre, molto vicina alla realtà delle cose: dialoghi immaginari, monologhi, confessioni e riflessioni spezzano il discorso, scandendo un ritmo vario e incalzante, che rispecchia da vicino il pensiero tormentato della voce narrante.

A rendere lo stile ancora più concreto e vicino al reale contribuiscono gli inserti specifici del lessico cinematografico. L’attenzione minuziosa agli aspetti gergali dell’ambiente in cui si svolge la vicenda dà al lettore la sensazione di essere condotto per mano alla scoperta di un mondo nuovo. Il treppiedi a gambe rientranti su cui si colloca la macchina da presa, gli apparatori, il tappeto, la piattaforma, il lapis turchino con cui si segna il campo (rr. 49-53); e poi ancora le indicazioni tecniche sulla quantità di pellicola necessaria per girare una scena, la funzione del direttore e molti altri particolari costituiscono la materia prima di un romanzo che si può leggere anche come uno spaccato storico sul cinema nel 1915. L’intento di Pirandello, forse, è stato anche quello di dare testimonianza delle caratteristiche di un’arte ancora alle prime armi, cogliendola all’origine di un percorso che giunge fino ai nostri giorni.

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Verso le COMPETENZE

Comprendere

1 Quali sono le conseguenze, secondo il protagonista, di una vita che di giorno in giorno sempre più si còmplica e s’accèlera (r. 37)?


2 In quali termini Serafino Gubbio parla della reificazione e della produzione in serie, quando si chiede: E come volete che ce le ridiano, l’anima e la vita, in produzione centuplicata e continua, le macchine? (rr. 109-110).

ANALIZZARE

3 All’inizio del brano Serafino Gubbio parla del congegno esterno, vorrei dir meccanico della vita che fragorosamente e vertiginosamente ci affaccenda senza requie (rr. 15-16). Come si manifesta, nelle righe successive, questa frenesia della vita moderna?


4 Trova ed evidenzia il passo in cui vengono denunciate apertamente la stupidità delle macchine e la loro trasformazione da “strumenti” a “padroni” dell’uomo.


5 Cerca nel testo la frase in cui Pirandello usa la metafora del ronzio del calabrone per riferirsi al rumore che accompagna la quotidianità nel mondo moderno.

INTERPRETARE

6 Perché, nell’alienazione della civiltà moderna, gli svaghi sembrano a volte Più faticosi e complicati del lavoro (r. 30)?


7 Per quale ragione Serafino Gubbio afferma che nella sua mansione di operatore non è rimasto nulla dell’originario significato del verbo operare?

Produrre

8 Scrivere per argomentare. Qual è l’atteggiamento di Serafino Gubbio – e, dietro di lui, di Pirandello – nei confronti della civiltà delle macchine che si afferma all’inizio del Novecento? Prova a spiegarlo in un testo argomentativo di 30 righe a partire da un commento alla seguente frase: La macchinetta – anche questa macchinetta, come tante altre macchinette – girerà da sé. Ma che cosa poi farà l’uomo quando tutte le macchinette gireranno da sé, questo, caro signore, resta ancora da vedere (rr. 87-90).

5 Tra realtà e finzione: la dimensione scenica

A scrivere per il teatro Pirandello arriva dopo i quarantacinque anni: non presto, dunque, benché avesse colto già da tempo come il palcoscenico fosse il luogo adatto per concretizzare e rappresentare quel conflitto tra realtà e finzione, essere e apparire, persona e personaggio che è alla base della sua poetica.

La produzione drammatica si configura infatti come uno sbocco naturale dell’arte pirandelliana, che concepisce la vita alla stregua di una grande recita, in cui ognuno mette in scena un ruolo. Non a caso Pirandello organizza la raccolta delle sue opere teatrali sotto il titolo Maschere nude: un ossimoro per evidenziare come niente riesca a occultare il groviglio di menzogne che regola la vita collettiva, neanche, appunto, quelle maschere che ognuno porta sul volto per tentare – invano – di coprire l’inganno.

Pirandello realizza per fasi successive il superamento del dramma borghese ottocentesco, dagli esordi del teatro in lingua dialettale, ancora non del tutto slegati dai moduli veristi, alla stagione grottesca, dove trovano applicazione i princìpi umoristici, fino alla trilogia metateatrale.

Con Sei personaggi in cerca d’autore (1921), Ciascuno a suo modo (1924) e Questa sera si recita a soggetto (1930) – che compongono la trilogia – l’autore porta in scena il dramma nel dramma, come se il teatro riflettesse su sé stesso. Le figure realistiche delle rappresentazioni tradizionali vengono svuotate e superate: i protagonisti sono ora gli ingredienti stessi del teatro.

I personaggi vedono così la loro stessa vita diventare teatro; per questo Pirandello ricorre all’espressione «teatro nel teatro»: non solo per segnalare che l’azione si svolge «sul

palcoscenico e nella sala, in un palco o nei corridoi o nel ridotto d’un teatro», ma anche perché vengono messi in scena tutti i «possibili conflitti» tra «personaggi e attori, autore e direttore-capocomico o regista, critici drammatici e spettatori alieni o interessati». Non si tratta più di semplici ammiccamenti che gli attori rivolgono al pubblico oltre il proscenio, né di commenti fuori scena che insinuano dubbi sulla tenuta della finzione rappresentata; Pirandello attua un vero e proprio sfondamento della “quarta parete”, attraversa cioè, in modo sistematico e insistente, la soglia invisibile che divide il palcoscenico dalla platea, tradizionalmente e convenzionalmente invalicabile.

A sipario alzato, senza luci speciali e scenografie, con macchinisti e operai sul palco e attori che si muovono in platea, la “magia” del teatro come artificio cade rovinosamente su sé stessa. L’intento provocatorio viene così pienamente centrato; allo sconcerto iniziale segue tra gli spettatori una riflessione profonda sul rapporto tra realtà e illusione, in un ribaltamento che disorienta, per svelare “umoristicamente” la finzione più radicale di tutte: lo spettacolo tragico e involontario della nostra esistenza quotidiana.

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Il «teatro nel teatro» denuncia l’impossibilità intrinseca di comunicare, di trasferire la propria visione del mondo agli altri, di condividere idee e giudizi, dispersi irrimediabilmente nella miriade di interpretazioni che «ciascuno a suo modo» può elaborare. È il dramma del relativismo, dal quale nascono equivoci e menzogne, delusioni e amarezze che segnano la radicale solitudine dell’individuo pirandelliano. Il Padre dei Sei personaggi in cerca d’autore si domanda infatti: «E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé […]? Crediamo d’intenderci; non c’intendiamo mai!».

Nessuno può sfuggire alla condanna dell’incomunicabilità, derivante in ultima analisi dal fondamentale contrasto tra «forma» e «vita»: la coscienza vorrebbe fissarsi in un assetto stabile, trovare in esso un senso e, su quello, costruire un sistema di certezze. Ma questo significa negare l’esistenza stessa, come mostra la condizione esistenziale dei Sei personaggi: prigionieri di una maschera (il Padre, la Figliastra, la Madre e così via), essi cercano disperatamente la «vita», che però non sopporta costrizioni, non sa nulla di maschere e ruoli, di valori e sentimenti.

Anche nell’Enrico IV, sia pure in presenza di una struttura apparentemente più convenzionale, il personaggio recita, prigioniero di una «maschera» e di un ruolo all’interno di quel gioco delle parti che è la vita. Ma il suo travestimento, prima dettato dalla follia, diventa scelta definitiva e consapevole, volta a sottrarsi al flusso del tempo e a osservare dall’alto la miseria della commedia umana. La tentazione di tornare a recitare nei panni di sé stesso riaffiora insieme alla nostalgia di un amore mai sopito, ma chiudersi nel rifugio della pazzia rimane infine l’unica possibilità per non naufragare nella disgustosa e ipocrita quotidianità.

Vola alta parola - volume 6
Vola alta parola - volume 6
Dal Novecento a oggi