T5 - Il vizio del fumo e le «ultime sigarette»

T5

Il vizio del fumo e le «ultime sigarette»

Cap. 3

Il fumo è una specie di sintomo “riassuntivo” della malattia di Zeno, che invano tenta di rinunciare a questo vizio. Esso rappresenta la sua tendenza a restare sempre al di qua delle decisioni, ad appagarsi del piacere derivante dai buoni propositi senza mai passare alla fase concreta del dovere. Il vero male che lo attanaglia non è dunque tanto la sigaretta in sé, ma la nevrosi causata dal proposito di smettere e dall’incapacità di farlo.

Il dottore al quale ne parlai mi disse d’iniziare il mio lavoro con un’analisi storica

della mia propensione al fumo:

«Scriva! Scriva! Vedrà come arriverà a vedersi intero».

Credo che del fumo posso scrivere qui al mio tavolo senz’andar a sognare su

5      quella poltrona. Non so come cominciare e invoco l’assistenza delle sigarette tutte

tanto somiglianti a quella che ho in mano.

Oggi scopro subito qualche cosa che più non ricordavo. Le prime sigarette ch’io

fumai non esistono più in commercio. Intorno al ’70 se ne avevano in Austria di

quelle che venivano vendute in scatoline di cartone munite del marchio dell’aquila

10    bicipite.1 Ecco: attorno a una di quelle scatole s’aggruppano2 subito varie persone

con qualche loro tratto,3 sufficiente per suggerirmene il nome, non bastevole però

a commovermi per l’impensato incontro.4 Tento di ottenere di più e vado alla

poltrona: le persone sbiadiscono e al loro posto si mettono dei buffoni che mi

deridono. Ritorno sconfortato al tavolo.

15    Una delle figure, dalla voce un po’ roca, era Giuseppe, un giovinetto della stessa 

mia età, e l’altra, mio fratello, di un anno di me più giovine e morto tanti anni

or sono. Pare che Giuseppe ricevesse molto denaro dal padre suo e ci regalasse di

quelle sigarette. Ma sono certo che ne offriva di più a mio fratello che a me. Donde

la necessità in cui mi trovai di procurarmene da me delle altre. Così avvenne che

20    rubai. D’estate mio padre abbandonava su una sedia nel tinello il suo panciotto

nel cui taschino si trovavano sempre degli spiccioli: mi procuravo i dieci soldi occorrenti 

per acquistare la preziosa scatoletta e fumavo una dopo l’altra le dieci sigarette 

che conteneva, per non conservare a lungo il compromettente frutto del furto.

Tutto ciò giaceva nella mia coscienza a portata di mano. Risorge solo ora perché 

25    non sapevo prima che potesse avere importanza. Ecco che ho registrata l’origine 

della sozza5 abitudine e (chissà?) forse ne sono già guarito. Perciò, per provare,

accendo un’ultima sigaretta e forse la getterò via subito, disgustato.

Poi ricordo che un giorno mio padre mi sorprese col suo panciotto in mano.

Io, con una sfacciataggine che ora non avrei e che ancora adesso mi disgusta (chissà 

30    che tale disgusto non abbia una grande importanza nella mia cura) gli dissi che

m’era venuta la curiosità di contarne i bottoni. Mio padre rise delle mie disposizioni 

alla matematica o alla sartoria e non s’avvide che avevo le dita nel taschino

del suo panciotto. A mio onore posso dire che bastò quel riso rivolto alla mia innocenza 

quand’essa non esisteva più, per impedirmi per sempre di rubare. Cioè…

35    rubai ancora, ma senza saperlo. Mio padre lasciava per la casa dei sigari virginia6

fumati a mezzo, in bilico su tavoli e armadi. Io credevo fosse il suo modo di gettarli 

via e credevo anche di sapere che la nostra vecchia fantesca,7 Catina, li buttasse

via. Andavo a fumarli di nascosto. Già all’atto d’impadronirmene venivo pervaso

da un brivido di ribrezzo sapendo quale malessere m’avrebbero procurato. Poi li

40    fumavo finché la mia fronte non si fosse coperta di sudori freddi e il mio stomaco

si contorcesse. Non si dirà che nella mia infanzia io mancassi di energia.

So perfettamente come mio padre mi guarì anche di quest’abitudine. Un giorno 

d’estate ero ritornato a casa da un’escursione scolastica, stanco e bagnato di

sudore. Mia madre m’aveva aiutato a spogliarmi e, avvoltomi in un accappatoio,

45    m’aveva messo a dormire su un sofà sul quale essa stessa sedette occupata a certo

lavoro di cucito. Ero prossimo al sonno, ma avevo gli occhi tuttavia8 pieni di sole

e tardavo a perdere i sensi.9 La dolcezza che in quell’età s’accompagna al riposo

dopo una grande stanchezza, m’è evidente come un’immagine a sé, tanto evidente

come se fossi adesso là accanto a quel caro corpo che più non esiste.10

50    Ricordo la stanza fresca e grande ove noi bambini si giuocava e che ora, in

questi tempi avari di spazio, è divisa in due parti. In quella scena mio fratello

non appare, ciò che mi sorprende perché penso ch’egli pur deve aver preso parte

a quell’escursione e avrebbe dovuto poi partecipare al riposo. Che abbia dormito

anche lui all’altro capo del grande sofà? Io guardo quel posto, ma mi sembra vuoto. 

55    Non vedo che me, la dolcezza del riposo, mia madre, eppoi mio padre di cui

sento echeggiare le parole. Egli era entrato e non m’aveva subito visto perché ad

alta voce chiamò:

«Maria!».

La mamma con un gesto accompagnato da un lieve suono labbiale11 accennò a

60    me, ch’essa credeva immerso nel sonno su cui invece nuotavo in piena coscienza. Mi

piaceva tanto che il babbo dovesse imporsi un riguardo per me, che non mi mossi.

Mio padre con voce bassa si lamentò:

«Io credo di diventar matto. Sono quasi sicuro di aver lasciato mezz’ora fa su

quell’armadio un mezzo sigaro ed ora non lo trovo più. Sto peggio del solito. Le

65    cose mi sfuggono».

Pure a voce bassa, ma che tradiva un’ilarità12 trattenuta solo dalla paura di destarmi, 

mia madre rispose:

«Eppure nessuno dopo il pranzo è stato in quella stanza».

Mio padre mormorò:

70    «È perché lo so anch’io, che mi pare di diventar matto!».

Si volse ed uscì.

Io apersi a mezzo gli occhi e guardai mia madre. Essa s’era rimessa al suo lavoro, 

ma continuava a sorridere. Certo non pensava che mio padre stesse per ammattire 

per sorridere così delle sue paure. Quel sorriso mi rimase tanto impresso che lo

75    ricordai subito13 ritrovandolo un giorno sulle labbra di mia moglie.

Non fu poi la mancanza di denaro che mi rendesse difficile di soddisfare il mio

vizio, ma le proibizioni valsero ad eccitarlo.

Ricordo di aver fumato molto, celato in tutti i luoghi possibili. Perché seguito

da un forte disgusto fisico, ricordo un soggiorno prolungato per una mezz’ora in

80    una cantina oscura insieme a due altri fanciulli di cui non ritrovo nella memoria

altro che la puerilità14 del vestito: due paia di calzoncini che stanno in piedi perché

dentro c’è stato un corpo che il tempo eliminò. Avevamo molte sigarette e volevamo 

vedere chi ne sapesse bruciare di più nel breve tempo. Io vinsi, ed eroicamente

celai il malessere che mi derivò dallo strano esercizio. Poi uscimmo al sole e all’aria. 

85    Dovetti chiudere gli occhi per non cadere stordito. Mi rimisi e mi vantai della

vittoria. Uno dei due piccoli omini mi disse allora:

«A me non importa di aver perduto perché io non fumo che quanto m’occorre».

Ricordo la parola sana e non la faccina certamente sana anch’essa che a me

doveva essere rivolta in quel momento.

90    Ma allora io non sapevo se amavo o odiavo la sigaretta e il suo sapore e lo stato

in cui la nicotina mi metteva. Quando seppi di odiare tutto ciò fu peggio. E lo seppi

a vent’anni circa. Allora soffersi per qualche settimana di un violento male di gola accompagnato 

da febbre. Il dottore prescrisse il letto e l’assoluta astensione dal fumo.

Ricordo questa parola assoluta! Mi ferì e la febbre la colorì. Un vuoto grande e niente

95    per resistere all’enorme pressione che subito si produce attorno ad un vuoto.

Quando il dottore mi lasciò, mio padre (mia madre era morta da molti anni)

con tanto di sigaro in bocca restò ancora per qualche tempo a farmi compagnia.

Andandosene, dopo di aver passata dolcemente la sua mano sulla mia fronte scottante, 

mi disse:

100 «Non fumare, veh!».

Mi colse un’inquietudine enorme. Pensai: «Giacché mi fa male non fumerò

mai più, ma prima voglio farlo per l’ultima volta». Accesi una sigaretta e mi sentii

subito liberato dall’inquietudine ad onta che15 la febbre forse aumentasse e che ad

ogni tirata sentissi alle tonsille un bruciore come se fossero state toccate da un tizzone 

105 ardente. Finii tutta la sigaretta con l’accuratezza con cui si compie un voto.16

E, sempre soffrendo orribilmente, ne fumai molte altre durante la malattia. Mio

padre andava e veniva col suo sigaro in bocca dicendomi:

«Bravo! Ancora qualche giorno di astensione dal fumo e sei guarito!».

Bastava questa frase per farmi desiderare ch’egli se ne andasse presto, presto,

110 per permettermi di correre alla mia sigaretta. Fingevo anche di dormire per indurlo

ad allontanarsi prima.

Quella malattia mi procurò il secondo dei miei disturbi: lo sforzo di liberarmi

dal primo. Le mie giornate finirono coll’essere piene di sigarette e di propositi di

non fumare più e, per dire subito tutto, di tempo in tempo sono ancora tali. La ridda17 

115 delle ultime sigarette, formatasi a vent’anni, si muove tuttavia.18 Meno violento

è il proposito e la mia debolezza trova nel mio vecchio animo maggior indulgenza.

Da vecchi si sorride della vita e di ogni suo contenuto. Posso anzi dire, che da qualche 

tempo io fumo molte sigarette… che non sono le ultime.

Sul frontispizio di un vocabolario trovo questa mia registrazione fatta con bella

120 scrittura e qualche ornato:

«Oggi, 2 Febbraio 1886, passo dagli studii di legge a quelli di chimica. Ultima

sigaretta!!».

Era un’ultima sigaretta19 molto importante. Ricordo tutte le speranze che l’accompagnarono. 

M’ero arrabbiato col diritto canonico20 che mi pareva tanto lontano 

125 dalla vita e correvo alla scienza ch’è la vita stessa benché ridotta in un matraccio.21 

Quell’ultima sigaretta significava proprio il desiderio di attività (anche

manuale) e di sereno pensiero sobrio e sodo.22

Per sfuggire alla catena delle combinazioni del carbonio23 cui non credevo ritornai 

alla legge.24 Pur troppo! Fu un errore e fu anch’esso registrato da un’ultima

130 sigaretta di cui trovo la data registrata su di un libro. Fu importante anche questa e

mi rassegnavo di ritornare a quelle complicazioni del mio, del tuo e del suo25 coi

migliori propositi, sciogliendo finalmente le catene del carbonio. M’ero dimostrato 

poco idoneo alla chimica anche per la mia deficienza di abilità manuale. Come

avrei potuto averla quando26 continuavo a fumare come un turco?

135 Adesso che son qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse

abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia

incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l’uomo ideale e forte

che m’aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo

comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente.27 Io avanzo

140 tale ipotesi per spiegare la mia debolezza giovanile, ma senza una decisa convinzione. 

Adesso che sono vecchio e che nessuno esige qualche cosa da me, passo

tuttavia28 da sigaretta a proposito, e da proposito a sigaretta. Che cosa significano

oggi quei propositi? Come quell’igienista vecchio, descritto dal Goldoni,29 vorrei

morire sano dopo di esser vissuto malato tutta la vita?

145 Una volta, allorché da studente cambiai di alloggio, dovetti far tappezzare a

mie spese le pareti della stanza perché le avevo coperte di date. Probabilmente

lasciai quella stanza proprio perché essa era divenuta il cimitero dei miei buoni

propositi e non credevo più possibile di formarne in quel luogo degli altri.

Penso che la sigaretta abbia un gusto più intenso quand’è l’ultima. Anche le altre 

150 hanno un loro gusto speciale, ma meno intenso. L’ultima acquista il suo sapore

dal sentimento della vittoria su sé stesso e la speranza di un prossimo futuro di

forza e di salute. Le altre hanno la loro importanza perché accendendole si protesta

la propria libertà e il futuro di forza e di salute permane, ma va un po’ più lontano.

Le date sulle pareti della mia stanza erano impresse coi colori più varii ed anche 

155 ad olio. Il proponimento, rifatto con la fede più ingenua, trovava adeguata

espressione nella forza del colore che doveva far impallidire quello dedicato al

proponimento anteriore. Certe date erano da me preferite per la concordanza delle

cifre. Del secolo passato ricordo una data che mi parve dovesse sigillare per sempre

la bara in cui volevo mettere il mio vizio: «Nono giorno del nono mese del 1899».

160 Significativa nevvero? Il secolo nuovo m’apportò delle date ben altrimenti musicali: 

«Primo giorno del primo mese del 1901». Ancor oggi mi pare che se quella data

potesse ripetersi, io saprei iniziare una nuova vita.

Ma nel calendario non mancano le date e con un po’ d’immaginazione ognuna

di esse potrebbe adattarsi ad un buon proponimento. Ricordo, perché mi parve

165 contenesse un imperativo supremamente categorico,30 la seguente: «Terzo giorno

del sesto mese del 1912 ore 24». Suona come se ogni cifra raddoppiasse la posta.31

L’anno 1913 mi diede un momento d’esitazione. Mancava il tredicesimo mese

per accordarlo con l’anno. Ma non si creda che occorrano tanti accordi in una data

per dare rilievo ad un’ultima sigaretta. Molte date che trovo notate su libri o quadri

170 preferiti, spiccano per la loro deformità.32 Per esempio il terzo giorno del secondo

mese del 1905 ore sei! Ha un suo ritmo quando ci si pensa, perché ogni singola

cifra nega la precedente. Molti avvenimenti, anzi tutti, dalla morte di Pio IX33 alla

nascita di mio figlio, mi parvero degni di essere festeggiati dal solito ferreo proposito. 

Tutti in famiglia si stupiscono della mia memoria per gli anniversarii lieti e

175 tristi nostri e mi credono tanto buono!

Per diminuirne l’apparenza balorda tentai di dare un contenuto filosofico alla

malattia dell’ultima sigaretta. Si dice con un bellissimo atteggiamento: «mai più!».

Ma dove va l’atteggiamento se si tiene34 la promessa? L’atteggiamento non è possibile 

di averlo che quando si deve rinnovare il proposito. Eppoi il tempo, per me,

180 non è quella cosa impensabile che non s’arresta mai. Da me, solo da me, ritorna.

 >> pagina 170

Analisi ATTIVA

I contenuti tematici

Un tratto che connota il carattere di Zeno è senza dubbio la sua debolezza psicologica, che si esprime nella mancanza di volontà. È sintomatica in tal senso la sua incapacità di smettere di fumare. Paradossalmente il vizio si radica ancora di più in lui nel momento in cui il fumo gli viene espressamente vietato dal medico, in concomitanza con una seria infiammazione delle vie respiratorie. Come accadeva già al protagonista in età infantile, la proibizione eccita il gusto della trasgressione, in base a una dinamica psicologica piuttosto facile da decodificare: il desiderio di smettere di fumare accresce il piacere mediante l’emozione suscitata dall’infrazione del divieto, sempre disatteso e continuamente riproposto, come in un circolo vizioso di false promesse puntualmente eluse.

Il fumo, inoltre, diventa quasi un alibi per non impegnarsi seriamente in un concreto programma di vita (un preciso percorso di studi e una professione determinata). Soltanto ora, al momento della scrittura del diario, Zeno ne prende finalmente coscienza: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? (rr. 135-137). Non a caso, al vizio sono associati vocaboli negativi quali disgusto (rr. 30 e 79), sozza abitudine (r. 26), colpa (r. 136): eppure ciò non spinge il protagonista a un cambiamento delle proprie abitudini, bensì soltanto a una autoironica indulgenza verso sé stesso e i suoi limiti irrimediabili. Il senso di colpa provato per le proprie inadeguatezze non sfocia insomma in atti concreti capaci di sfidare le pulsioni dell’inconscio: l’unica risorsa a disposizione di Zeno – e ciò che lo distingue dagli altri personaggi sveviani – è la consapevolezza della propria inettitudine e dell’impossibilità di vincerla.


1 Quali trasgressioni compie il giovane Zeno per riuscire a fumare?


2 Perché l’“ultima sigaretta” è così speciale?


3 Perché le date sono tanto importanti per Zeno?

 >> pagina 171 

Soffermiamoci sulla scena di raccolta intimità domestica in cui si colloca il ricordo di Zeno bambino. Il padre crede di ammattire, non sapendo raccapezzarsi di fronte alla continua sparizione dei suoi sigari. La moglie sorride dinanzi alle sue paure e questo sorriso della madre rimane impresso in Zeno, che se ne ricorderà da adulto. Il protagonista scrive infatti a un certo punto, in una breve prolessi: Quel sorriso mi rimase tanto impresso che lo ricordai subito ritrovandolo un giorno sulle labbra di mia moglie (rr. 74-75).

Si può dire che in tutto il romanzo le figure femminili – qui la madre e la moglie di Zeno – rappresentano un costante richiamo alla concretezza della vita, verso la quale esprimono un atteggiamento diverso rispetto a quello, spesso nevrotico, delle loro controparti maschili: la donna ha la capacità di rasserenare l’uomo, di ricondurlo alla tranquillità interiore, di farlo uscire dal gorgo dei pensieri fissi e ossessivi.


4 In che modo la madre di Zeno si era occupata di lui al rientro da un’escursione scolastica?


5 Quale termine ricorrente descrive lo stato d’animo con cui il protagonista rievoca l’episodio?

Le scelte stilistiche

Il romanzo del Novecento si caratterizza per una nuova concezione del tempo, che qui troviamo bene espressa nelle ultime due frasi del brano. Scrive Zeno nel suo diario: il tempo, per me, non è quella cosa impensabile che non s’arresta mai. Da me, solo da me, ritorna (rr. 179-180). Il tempo, in altre parole, non ha un andamento lineare e univoco, e non è vero che il suo flusso non possa arrestarsi. Esso, al contrario, può essere fissato nella memoria attraverso i ricordi personali e in tal modo “ritornare” al soggetto. C’è infatti un tempo “esterno”, misurabile in anni, mesi e giorni, e un tempo “interno”, la cui estensione si valuta in base alla maggiore o minore intensità con cui gli eventi sono percepiti dal soggetto.

Zeno afferma che questa possibilità di un “ritorno” del tempo è un suo speciale privilegio (solo da me, r. 180), ma va detto che in realtà essa è condivisa da molti personaggi dei romanzi contemporanei, per i quali il passato e il presente convivono in quello che viene chiamato “tempo misto”. Nella Coscienza di Zeno (e nel brano che abbiamo qui presentato) tale tempo misto si esprime nel continuo intersecarsi tra i diversi piani temporali della narrazione mediante le libere associazioni che si sviluppano alogicamente e in modo ellittico nella mente e nella “coscienza” del protagonista (che infatti sceglie un particolare qualsiasi per iniziare la stesura del memoriale: Non so come cominciare, r. 5). Attraverso questo rinnovamento del tempo narrativo, sembra disgregarsi la trama tradizionale con il suo ordine cronologico. Il tempo non viene più inteso, come avveniva nel romanzo realista e naturalista, come un fenomeno oggettivo, ma è filtrato dalla percezione che ne hanno i personaggi.


6 Quando Zeno rievoca l’episodio della gara di sigarette, descrivendo i suoi compagni scrive: due paia di calzoncini che stanno in piedi perché dentro c’è stato un corpo che il tempo eliminò (rr. 81-82). Che cosa significa questa frase? Come spieghi l’alternanza di tempi verbali?


7 Che differenza c’è tra i propositi del giovane Zeno e quelli di Zeno anziano?


8 Scrivere per esporre. La malattia di Zeno rimanda a un insieme di acquisizioni scientifiche e filosofiche proprie della sua epoca. Svolgi una ricerca sullo stato della medicina agli inizi del XX secolo e raccogli i risultati in un testo espositivo di circa 30 righe.

 >> pagina 172 

  intrecci letteratura

Alessandro Mezzena Lona La morte danza in salita

Svevo investigatore alle prese con una morte sospetta


Un recente romanzo, La morte danza in salita (2014), scritto da un concittadino di Svevo, il triestino Alessandro Mezzena Lona (n. 1958), pone al centro della narrazione Ettore Schmitz nei panni di un investigatore.

La morte di Ottavio Bottecchia è uno dei misteri irrisolti delle cronache italiane degli anni Venti. Campione di ciclismo, per due volte vincitore del Tour de France, Bottecchia muore in Friuli, sulla strada che porta a Peo­nis, il 3 giugno 1927. Viene trovato a terra con il volto coperto di sangue, poco lontano dalla sua bicicletta. All’ipotesi più banale, quella di una caduta accidentale, se ne sovrappongono altre: Bottecchia è stato vittima della violenza di un marito geloso; oppure è stato ucciso da qualche anarchico o socialista dopo che, per quieto vivere, aveva preso la tessera del Partito fascista; o ancora, al contrario, potrebbe essere stato un gruppo di squadristi, che voleva fargli pagare certe incaute dichiarazioni di indifferenza politica.

Fin qui la realtà storica. Ma il narratore immagina che a indagare sul caso sia appunto Svevo, che si trova a Peonis per una vacanza terapeutica, volta, tra l’altro, a disintossicarlo dal vizio del fumo. A Svevo la verità ufficiale non quadra, ed eccolo allora interrogarsi sulle diverse incongruenze della vicenda, fino a scoprire una verità che, un anno dopo, gli costerà la vita in un incidente d’auto, il quale forse, anche nel suo caso, non sarà un vero incidente.


Al momento di frenare, l’autista si era accorto che la vettura non rispondeva più ai comandi. Impossibile, a quel punto, non andare a sbattere. […] Lui, il signor Ettore, con un femore fratturato, si era spento all’ospedale poche ore più tardi. “Crisi cardiaca”, sentenziò il dottor Mali, che era accorso da Trieste a Motta di Livenza indossando la sua migliore faccia da funerale. “Troppe sigarette, non si curava della propria salute”. Prima di chiudere gli occhi, Italo Svevo aveva detto alla figlia: “Non piangere Letizia, non è niente morire”. Sulle labbra gli era rimasto un sorriso. L’ultimo. Era stato più facile morire che scrivere.

Vola alta parola - volume 6
Vola alta parola - volume 6
Dal Novecento a oggi