LETTURE critiche

LETTURE critiche

Mario Luzi, o della «poesia dell'ascolto»

di Anna Panicali

Nelle pagine introduttive del suo fondamentale Saggio su Mario Luzi (1987), Anna Panicali (1941-2009) sintetizza i tratti salienti del percorso letterario del poeta fiorentino, dagli esordi nel clima della stagione ermetica fino alla fase dell’impegno civile dopo la guerra, in cui però non vengono meno i segni di un’intensa ricerca esistenziale condotta attraverso il fare letterario. Costante lungo tutto l’arco della sua produzione è stata la ricerca della verità delle cose e dell’umano, che Luzi si è prefisso di raggiungere cercando di connettere nuovamente tra loro realtà e linguaggio, attraverso quella che la studiosa chiama una «poesia dell’ascolto». Mario Luzi attribuisce alla poesia una forte valenza conoscitiva, nella misura in cui essa può rivelarsi in grado di andare in profondità, sotto la superficie della realtà e dello stesso linguaggio, per individuare «il fondamento dell’esistere».

Il viaggio di Luzi nella scrittura – un modo di bucare il muro della terra1 in cerca della verità – inizia negli anni Trenta ed è costellato di incertezze, perché la verità – per dirla con Betocchi2 – «è mica sempre lì a portata di mano». Anzi, mentre crediamo di raggiungerla, si scava radici sempre più profonde: fa come le tenebre, che via via che la luce si sposta in avanti, crescono invece di sparire.

È del ’33 la collaborazione alla rivistina pistoiese «Il Ferruccio» e, del ’35, l’uscita del suo primo libro La barca. Sono poesie scritte con lo stupore e la meraviglia di chi pensa che la verità – anche se è arduo certificarla – corra «intrepida» nel mondo e guidi l’umana avventura. A un tempo, vi si legge una sorta di autoesclusione malinconica dalla vita: come di chi la guardi da fuori, da lontano. Ed è a questa simbolica distanza che sono legate le certezze del giovane Luzi.

Sopraggiunge però l’avvento della notte: le facce umane perdono la loro consuetudine e, ormai senza più tratti, diventano «numeri, non volti». Tutto si colora di simboli e si fissa in astrazioni. La parola in cui prende forma il gelo di un’esistenza estranea, «aliena», deserta, è – essa stessa – raggelante, astratta, chiusa.

Lo sguardo insinua il dubbio sia sulla realtà che sul linguaggio: entrambi hanno divorziato dal vero, lasciando intorno solo il vuoto, l’assenza. Sono gli anni del fascismo. Luzi, assieme a Carlo Bo e agli amici fiorentini, vive l’esperienza ermetica e a porsi al centro della sua ricerca non è né la storia, né tantomeno la politica, ma la letteratura, la riflessione sul linguaggio, la traduzione di poesia. Così, se da un lato, quasi gnosticamente,3 sfugge alle leggi del divenire storico, dall’altro accentua la distanza fra l’espressione poetica e la lingua ordinaria, della comunicazione. La poesia concorre a creare una realtà che è il contrario della realtà comune, così avvilita e deformata: incarna un simbolo, dà forma a un’esistenza al di fuori del tempo e, insieme, dice la prigionia nel mondo e nella storia.

I versi luziani di questi anni testimoniano una sorta d’incatenamento: i sentimenti sono come costretti, soffocati dentro, impotenti a manifestarsi, a prorompere all’esterno. E non solo la vita, ma anche la parola che la dovrebbe esprimere, appare esiliata in un universo chiuso, murato in sé stesso. In Avvento notturno non c’è rapporto, non c’è intesa col mondo e con il suo linguaggio, ma estraneità ed esilio. Il fuori insorge dentro; nasce dal profondo di una «vita ancipite e indolore»4 e si presenta come «ombra del cuore», come incubo.

Ogni evento non è che il segno di un universo senza scampo. E tuttavia, ormai, niente è più certo e indubitabile. Anzi, si avverte fin d’ora come un movimento sospeso; già nascono le prime interrogazioni sul senso dell’esistere e sulla destinazione dell’umano andare: «Verso dove?». Quando anche lo sguardo oscilla «senza meta», non può che germinare il dubbio: per il momento è affidato ai «forse», ai «ma», alle avversative, alle domande senza risposta, poi diventerà il nerbo,5 l’ossatura della poesia di Luzi, la molla di una ricerca che non s’appaga mai, l’etica stessa di un pensare che ogni volta rimette tutto in questione.

II risveglio a sé stessi e alla vita è lento e avviene in forma di dramma: per riconoscersi è necessario vedersi, rappresentarsi, vedere il proprio passato nel volto dell’altro, scolpito in figure. Ma – siamo intorno al ’40 – il giorno non annulla gli incubi della notte. Il passato è simile al presente: non è che un «deserto di grida soffocate», non è che la Stasi.6 O forse nascondeva già, fin d’allora, allarmi e inquietudini?

«L’io ricordo» di Un brindisi7 possiede una duplice valenza: è carico di febbre e d’immobilità. Ma sarà il sogno, o una memoria gonfia d’immagini e desideri, a rivelare la verità della vita: a dire il suo accadere «naturalmente», senza corrispondenza con il mondo mentale o interiore. E allora tornerà il dubbio che qualcosa sia ancora da capire e da vedere.

Negli anni della Liberazione – dell’euforia, dell’amore, dell’apertura al tu8 – avviene il recupero di una luce, la sua scoperta. Al suo apparire nella notte, sia il passato che la vita tornano a farsi ignoti e invitano a desiderare e a interrogarsi di nuovo. Prima, volgersi indietro era «per non vedere» il presente; ora, disporsi all’ascolto del passato significa restituire una realtà più mossa, fatta d’indifferenza e d’inquietudine, di ombre e d’istanti luminosi; sentire quel tempo come scosso da un brivido, come in attesa di vivere, come sospeso in una veglia. Prima, il percorso della memoria era ineluttabilmente orientato dalla notte del presente; ora, l’amore costringe a ricordare anche i bagliori del giorno e i sussulti di una vita ancora intatta perché non vissuta; a ripercorrere lo stesso tragitto, ma con il desiderio di un diverso indizio: di una sorpresa.

La realtà perde il suo volto abituale; si rivede come per la prima volta, a partire da una rottura. La parola manca, e le cose e i sentimenti non trovano più nome. L’esitazione e il dubbio strutturano il percorso della conoscenza e il movimento del linguaggio, perché è dal deserto e nel deserto che si fa strada «il pensiero della vita». Da simbolo essa diviene presente: si perpetua «come deve», pulsa, ferisce l’anima e i sensi. Ormai esiste e il suo esistere sfugge sempre più alla «verità della mente».

Anzi, la rende problematica e la costringe ad ascoltare il mondo.

Sono i primi anni Sessanta. Dal monologo Luzi è passato all’appello, all’invocazione a essere dentro le cose; alla sperimentazione di un nuovo linguaggio; a una poesia che chiamerei dell’ascolto. Ed è un ascolto di voci che ormai parlano direttamente. Sono frammenti di frasi udite come per caso, come da lontano: provengono dal fondo delle campagne,9 ovvero dalla profondità della terra cui il poeta ritorna, e intimano a rispondere. In queste voci si trovano già i germi del dialogo: di quel dialogo in cui verrà rappresentato – incarnandosi in personaggi – non soltanto il contrasto, la scissione della mente, la disputa che «è in ciascuno di noi, tra l’una e l’altra sua parte», ma anche la perplessità sulla parola che comunica o che s’impronta a irriducibili certezze.

Il linguaggio – ci ricorda Blanchot10 – «sarebbe il principio per eccellenza della comunicazione, se fosse sicuro che noi non fossimo altro che esseri logici», invece, accanto al sapere razionale, una «conoscenza per ardore», profonda e intuitiva, ci dice che non tutto è logico e comunicabile. C’è qualcosa che il discorso non riesce a cogliere né a trasmettere; e questo basta a dubitare della parola discorsiva, o addirittura della parola. C’è – Luzi lo avverte negli atti e nello sguardo dell’altro, lo legge nel suo pensiero e lo traduce in poesia – un non detto, un linguaggio senza voce che si situa ai bordi del dialogo e chiede di esistere, per esprimere non quanto gli uomini hanno di comune e quindi di esteriore, ma ciò che appartiene intimamente a ciascuno. Nella raccolta, Nel magma il dubbio sulla parola pronunciata, sul dialogo, sul discorso dimostrativo, diviene epoché11 e alla perentorietà delle domande si risponde col silenzio: sospendendo ogni giudizio.

Arriviamo agli anni Settanta. La vita «dirama in mille rivoli» oppure si logora, si dissipa. La voce che orientava il poeta non è più una sola, anzi, alla dualità scoperta nell’uomo si aggiungono altre voci. Non solo non c’è più alcuna guida, ma si è come trascinati da immagini sogni emozioni ricordi. Lo sciame dei pensieri che attraversano il soggetto concorda con uno stato di dormiveglia e di sopore. Forse è qui che si situa «la salute della mente»: non in un luogo, ma in una condizione da cui è più facile cogliere – senza pretendere di afferrare pienamente – la verità che giace al fondo dell’uomo, il senso, il fondamento dell’esistere. Il linguaggio – come se rincorresse una pluralità di voci che s’interrogano e si rispondono – si fa composito e si dilata simultaneamente su più registri, né è casuale – nel movimento del pensiero e della scrittura luziani – che le diverse voci che s’intersecano fra loro finiscano per assumere il volto e la figura di personae: Ipazia, Sinesio, Rosales, Hystrio...12

Il poeta, che Nel magma era spettatore e, a un tempo, attore del dramma della mente – della sua scissione – scompare dalla scena e affida ad altri le sue esitazioni, i suoi dubbi, le sue domande: ad altri personaggi, oppure a un coro.

È proprio dal poema – dialogico o a più voci – che nasce il teatro. Ed è un teatro in versi che celebra la poesia: quasi un rito della parola, in cui per Luzi si condensa l’umano. Di una parola che non prende alla lettera il mondo ma ne interpreta lo spirito, perché avverte la violenza di leggere solo «cifre e segni» là dov’erano uomini «in carne ed ossa»; di una parola ch’è sentita come atto e movimento del dire ed è sorpresa sempre nel suo nascere e nel suo farsi; di una parola che aspira ad accogliere in sé l’oscuro, il diverso, quanto è irriducibile alla «geometria» della mente.

Nelle ultime raccolte il linguaggio luziano arriva a tradurre in scrittura il fluttuare stesso del pensiero. Ed è un pensiero che procede per lampi, per visioni, per immagini; che non trova più alcun «punto fermo» né nel presente né nella memoria e tuttavia scopre che in ogni frammento in cui il vivere si è disseminato, vive la vita nella sua interezza. Ma quale vita, ormai, se l’umanità dell’uomo è come strappata o svenduta e le parole vengono meno allo sfrenato e inverosimile accadere delle cose?

Il dubbio alimenta domande su domande fino a contrarsi in un dilemma, i cui corni sono irrevocabilmente disgiunti da una o: è la fine o l’inizio? All’interrogazione non si dà risposta, anche se nel titolo dell’opera Per il battesimo dei nostri frammenti è già implicito un augurio.


Anna Panicali, Saggio su Mario Luzi, Garzanti, Milano 1987

Comprendere il pensiero critico

1 Quali sono i caratteri fondamentali della poesia del primo Luzi, quello de La barca e di Avvento notturno?


2 Come cambia negli anni Sessanta il rapporto di Luzi con la parola?


3 In che modo il teatro si fa poesia in Luzi?


4 Il titolo della raccolta Per il battesimo dei nostri frammenti è particolarmente significativo perché ben sintetizza l’indagine di Luzi negli anni Ottanta: perché?

Vola alta parola - volume 6
Vola alta parola - volume 6
Dal Novecento a oggi