I grandi temi

I grandi temi

1 La visione politica

Gli anni trascorsi da Pasolini a Casarsa – nell’ultima fase della guerra e poi nell’immediato dopoguerra – segnano per lui il momento dell’acquisizione di una consapevolezza ideologica.

Inizialmente è un episodio legato alla pubblicazione, nel 1942, di Poesie a Casarsa a stimolare in lui – a quanto egli stesso ci dice – una coscienza politica più definita. Una quindicina di giorni dopo l’uscita del libro, Pasolini riceve una cartolina postale di Gianfranco Contini, giovane ma già brillante critico, il quale gli dice che le poesie gli sono molto piaciute e che le recensirà presto. Contini infatti scrive subito un articolo per la rivista “Primato”, che però viene bloccato e potrà uscire soltanto l’anno dopo in Svizzera sul “Corriere del Ticino”, poiché l’orientamento di esasperato nazionalismo della cultura ufficiale della dittatura mussoliniana disdegna la poesia dialettale. L’esperienza diretta della censura di regime vissuta sulla propria pelle determina in Pasolini una netta scelta antifascista.

Una tematica apertamente politica compare nelle poesie degli anni successivi, raccolte nei volumi La meglio gioventù (1954) e L’usignolo della Chiesa Cattolica (1958). La sezione finale (del 1949) di quest’ultimo si intitola La scoperta di Marx: ciò prelude alla centralità della tematica politica che sarà propria della raccolta successiva, significativamente intitolata Le ceneri di Gramsci (1957), la quale comprende componimenti degli anni Cinquanta. Il comunismo di Pasolini sarà sempre, però, piuttosto eterodosso. Quello che gli interessa, infatti, non è tanto il proletariato, cui si rivolge il Pci, ma il sottoproletariato, ovvero il popolo prima dell’avvento di una coscienza di classe.

Nel poemetto che dà il titolo alla raccolta Le ceneri di Gramsci, in un immaginario colloquio con l’urna dell’autore dei Quaderni del carcere, Pasolini esprime tutta l’ambiguità della propria appartenenza politica: «Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere / con te e contro te; con te nel cuore, / in luce, contro te nelle buie viscere». E alcuni versi più avanti il poe­ta spiega tale contraddizione: «attratto da una vita proletaria / a te anteriore, è per me religione // la sua allegria, non la millenaria / sua lotta: la sua natura, non la sua / coscienza».

Davanti a Gramsci, assurto a simbolo dell’ortodossia marxista, Pasolini dichiara che il suo amore per il mondo popolare è viscerale, estraneo a ogni ideologia. La conquista della coscienza di classe, che il comunismo indicava come l’obiettivo prioritario, in quanto preliminare alla possibilità di una lotta di massa finalizzata alla rivoluzione proletaria, avrebbe significato per il proletariato una maggiore consapevolezza politica, civile e culturale. Ma questo avrebbe finito con il compromettere l’autenticità, la genialità, la spontaneità, la libertà che Pasolini vede come caratteristiche fondamentali di quel popolo che nei suoi anni friulani prima e in quelli romani poi ha imparato a conoscere. Da qui la sua sofferta posizione politica: da una parte razionalmente desidera, insieme con il Partito e aderendo al suo programma, l’evoluzione culturale e il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori; ma dall’altra intimamente teme che quel processo di cambiamento possa determinare la corruzione, in senso borghese, della candida essenza popolare.

Nel film Uccellacci e uccellini (1966) l’ideologia, che assume le sembianze di un corvo parlante, incalza con mille domande gli attori Totò e Ninetto Davoli, straordinaria coppia sulla scena. È proprio il corvo a declamare ai signori Innocenti (Totò padre e Ninetto figlio) una sorta di apologo cristiano-marxista, quello, appunto, degli uccellacci e degli uccellini, per parlare della conflittualità di classe: gli uccellacci e gli uccellini (vale a dire i falchi e i passeri) sono gli oppressori e gli oppressi.

L’ideologia marxista, però, si rivela un discorso puramente moralistico e retorico, incapace di fare presa sulle coscienze dei proletari. Per questo Totò e Ninetto uccideranno il corvo per cibarsene: l’intellettuale comunista vede entrare in crisi il proprio ruolo, ed è divorato, cioè fagocitato dalla società dei consumi di massa.

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T1

Il pianto della scavatrice

Le ceneri di Gramsci

Nella seconda parte delle sei di cui è costituita la lirica Il pianto della scavatrice, in alcuni dei suoi versi più belli ed emotivamente più intensi, Pasolini rievoca l’esperienza delle borgate romane e soprattutto illumina il lettore sulla propria particolare concezione del popolo.


Metro Terzine di endecasillabi non rimati. Sono frequenti versi ipometri o ipermetri (cioè con un minore o maggiore numero di sillabe rispetto alla misura endecasillabica).

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Audiolettura

Povero come un gatto del Colosseo,

vivevo in una borgata tutta calce

e polverone, lontano dalla città


e dalla campagna, stretto ogni giorno

5      in un autobus rantolante:

e ogni andata, ogni ritorno


era un calvario di sudore e di ansie.

Lunghe camminate in una calda caligine,

lunghi crepuscoli davanti alle carte


10    ammucchiate sul tavolo, tra strade di fango,

muriccioli, casette bagnate di calce

e senza infissi, con tende per porte…


Passavano l’olivaio, lo straccivendolo,

venendo da qualche altra borgata,

15    con l’impolverata merce che pareva


frutto di furto, e una faccia crudele

di giovani invecchiati tra i vizi

di chi ha una madre dura e affamata.


Rinnovato dal mondo nuovo,

20    libero – una vampa, un fiato

che non so dire, alla realtà


che umile e sporca, confusa e immensa,

brulicava nella meridionale periferia,

dava un senso di serena pietà.


25    Un’anima in me, che non era solo mia,

una piccola anima in quel mondo sconfinato,

cresceva, nutrita dall’allegria


di chi amava, anche se non riamato.

E tutto si illuminava, a questo amore.

30    Forse, ancora di ragazzo, eroicamente,


e però maturato dall’esperienza

che nasceva ai piedi della storia.

Ero al centro del mondo, in quel mondo


di borgate tristi, beduine,

35    di gialle praterie sfregate

da un vento sempre senza pace,

venisse dal caldo mare di Fiumicino,

o dall’agro, dove si perdeva

la città fra i tuguri; in quel mondo


40    che poteva soltanto dominare,

quadrato spettro giallognolo

nella giallognola foschia,


bucato da mille file uguali

di finestre sbarrate, il Penitenziario

45    tra vecchi campi e sopiti casali.


Le cartacce e la polvere che cieco

il venticello trascinava qua e là,

le povere voci senza eco


di donnette venute dai monti

50    Sabini, dall’Adriatico, e qua

accampate, ormai con torme


di deperiti e duri ragazzini

stridenti nelle canottiere a pezzi,

nei grigi, bruciati calzoncini,


55    i soli africani, le piogge agitate

che rendevano torrenti di fango

le strade, gli autobus ai capolinea


affondati nel loro angolo

tra un’ultima striscia d’erba bianca

60    e qualche acido, ardente immondezzaio…


era il centro del mondo, com’era

al centro della storia il mio amore

per esso: e in questa


maturità che per essere nascente

65    era ancora amore, tutto era

per divenire chiaro – era,


chiaro! Quel borgo nudo al vento,

non romano, non meridionale,

non operaio, era la vita


70    nella sua luce più attuale:

vita, e luce della vita, piena

nel caos non ancora proletario,


come la vuole il rozzo giornale

della cellula, l’ultimo

75    sventolio del rotocalco: osso


dell’esistenza quotidiana,

pura, per essere fin troppo

prossima, assoluta per essere


fin troppo miseramente umana.

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Dentro il TESTO

I contenuti tematici

In questi versi l’autore rievoca il momento del suo primo contatto con il mondo delle borgate romane e con la loro grande carica umana. La borgata è una zona intermedia, lontana dalla città / e dalla campagna (vv. 3-4), che non possiede la struttura dell’agglomerato urbano né quella della comunità rurale. Essa è una sorta di terra di nessuno, abbandonata dalla politica e dalle istituzioni, sostanzialmente disinteressate alla vita e ai problemi di chi vi abita.

Pasolini, invece, sceglie consapevolmente di condividere l’esistenza di queste persone. Lo fa perché in tale ambiente egli può finalmente ritrovare sé stesso e una nuova gioia di vivere, che si esplica all’insegna di una condizione di libertà dai vincoli moralistici piccolo-borghesi (Rinnovato dal mondo nuovo, v. 19). L’istintiva allegria (v. 27) della gente del popolo si comunica al poeta, che si sente intimamente vicino a quel mondo sottoproletario al quale si accosta. In lui, così, cresce il senso di appartenenza all’anima popolare (Un’anima in me, che non era solo mia, […] cresceva, vv. 25-27). Poco importa se il suo amore (che andrà inteso qui anche in senso erotico, nei confronti dei ragazzi del popolo) non è del tutto ricambiato (di chi amava, anche se non riamato, v. 28), perché tutto si illuminava, a questo amore (v. 29).

La borgata romana diventa così il centro del mondo (vv. 33 e 61), il luogo dove il giovane “di buona famiglia” può finalmente maturare a contatto con un’esperienza che nasceva ai piedi della storia (v. 32), vale a dire la vita degli ultimi in queste borgate tristi, beduine (v. 34), di coloro, cioè, che sono abbandonati a sé stessi da quanti detengono le leve della grande Storia collettiva. E su questo mondo emerge di nuovo l’amore (il vocabolo torna al v. 62) del poeta per il popolo.

Il popolo per Pasolini è puro nella misura in cui non è contaminato né dai distorti valori borghesi né dalle ideologie politiche. La maturità (v. 64) equivale a un’involuzione interiore e può esprimersi come amore solo finché è allo stato iniziale (per essere nascente / era ancora amore, vv. 64-65). Quando l’ideologia ha il sopravvento e il popolo ne viene corrotto, esso rischia di perdere la propria essenza, fatta di un’ingenuità che è la vita / nella sua luce più attuale (vv. 69-70).

Per Pasolini la forza più viva e autentica della Storia non è dunque il proletariato consapevole della propria condizione e della necessità di rivendicare i propri diritti (come riteneva l’ortodossia comunista, qui emblematizzata dal rozzo giornale / della cellula, vv. 73-74), ma – appunto – questo sottoproletariato primitivo e ignaro, un caos non ancora proletario (v. 72) niente affatto negativo, bensì dotato di una straordinaria energia vitale, pura (v. 77) e assoluta (v. 78).

Le scelte stilistiche

In questa come nelle altre liriche della raccolta Le ceneri di Gramsci Pasolini tenta una sintesi tra lirismo e impegno civile. Infatti egli non rinuncia ad affrontare certi nodi politici e ideologici (come quello relativo alla visione del proletariato e alle prospettive di una sua azione), ma insieme pone sé stesso e il proprio io poetico – con tutte le sue tensioni, le sue angosce, i suoi slanci, i suoi entusiasmi, i suoi sentimenti – in rapporto dialettico con la real­tà che rappresenta. Alla marginalità del sottoproletariato romano corrisponde la marginalità personale del poeta, finché queste due condizioni finiscono quasi con il sovrapporsi.

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Dal punto di vista prettamente formale, va notato come a una forma metrica, la terzina, di tipo tradizionale – sebbene rivisitata con una certa libertà – si unisca qui un linguaggio semplice e discorsivo, perfettamente funzionale agli intenti narrativi e dimostrativi che l’autore si propone di perseguire. I due elementi sembrerebbero in contraddizione, ma la scelta pasoliniana risponde a una motivazione precisa: affinché i contenuti concettualmente impegnativi (sul piano storico, logico, razionale) di questi versi potessero trovare una loro poeticità era necessario «imprigionarli dentro istituzioni stilistiche codificate, dentro ritmi, rime e suoni saldamente impiantati nella tradizione, […] preesistenti e tali da costituire un margine alla violenza dell’autobiografia» (Cerami).

Verso le COMPETENZE

Comprendere

1 Riassumi il contenuto del testo in circa 10 righe.

Analizzare

2 Rintraccia tutti i riferimenti alla povertà dell’ambiente e della gente della borgata.


3 Quale figura retorica troviamo nel sintagma frutto di furto (v. 16)?

Interpretare

4 Perché il poeta ripete l’aggettivo “giallognolo” in due versi consecutivi (vv. 41-42)? Che cosa intende sottolineare in questo modo?


5 In che senso il carcere di Rebibbia domina la borgata?

COMPETENZE LINGUISTICHE

6 Nei versi che hai letto Pasolini fa largo uso di alterati. Quale valore connotativo assumono?


polverone (v. 3)  muriccioli (v. 11)  giallognolo (vv. 41-42)  cartacce (v. 46)  venticello (v. 47)  donnette (v. 49)  ragazzini (v. 52).

Produrre

7 Scrivere per argomentare. La critica ha rimproverato a Pasolini di aver mitizzato il sottoproletariato. Sulla scorta della lettura di questo testo, sei d’accordo con tale giudizio? Argomenta la tua risposta in un testo di circa 30 righe.

2 La “vita” romana

All’inizio del 1950 lo scrittore e la madre Susanna si trasferiscono a Roma. Nella capitale Pasolini entra in contatto con la realtà del sottoproletariato urbano, che metterà a fuoco in particolare in due romanzi: Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959). Sono opere che risentono del clima neorealista, ma che per molti versi vanno oltre i modelli di quella corrente letteraria.

Appena arrivato a Roma, Pasolini, subito innamoratosi della città, conduce in prima persona ricerche “sul campo”, frequentando il mondo delle borgate e facendosi aiutare dalle persone del posto per risolvere i dubbi linguistici in cui si imbatte. Il critico Alberto Asor Rosa ha sottolineato «la minuziosa opera di raccoglitore linguistico di Pasolini, che, taccuino in tasca, va di borgata in borgata, di strada in strada, alla ricerca dei ragazzi di vita, dei loro padri e delle loro madri, colloquia, scherza, ride con loro, e nel frattempo accuratamente li studia».

In effetti quello di Pasolini è uno studio “dal vivo”, quasi da sociologo o da antropologo prima ancora che da scrittore: dei ragazzi delle borgate osserva e annota il lessico, gli atteggiamenti e i comportamenti, ma non lo fa con il distacco dello scrittore naturalista, bensì con un forte coinvolgimento umano ed emotivo. Racconta egli stesso, in un testo del 1958 intitolato La mia periferia: «Spesse volte, se pedinato, sarei colto in qualche pizzeria di Torpignattara, della Borgata Alessandrina, di Torre Maura o di Pietralata, mentre su un foglio di carta annoto modi idiomatici, punte espressive o vivaci, lessici gergali presi di prima mano dalle bocche dei “parlanti” fatti parlare apposta». Lui, di estrazione borghese, decide di avvicinarsi a una realtà molto diversa da quella del suo ambiente di appartenenza, con rispetto e con capacità di ascolto.

Anche negli anni seguenti, quando Ragazzi di vita e le opere successive gli hanno procurato una certa fama nell’ambiente letterario, egli non si concede più di tanto alla mondanità culturale, ma preferisce continuare a frequentare la Roma delle borgate più che quella dei salotti. «Il mio realismo», spiega Pasolini sempre nello scritto La mia periferia, «io lo considero un atto d’amore: e la mia polemica contro l’estetismo novecentesco, intimistico e para-religioso, implica una presa di posizione politica contro la borghesia fascista e democristiana che ne è stata l’ambiente e il fondo culturale».

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Ancora Pasolini spiega così la sua scelta linguistica del dialetto romanesco: «Non c’è stata scelta da parte mia, ma una specie di coazione del destino: e poiché ognuno testimonia ciò che conosce, io non potevo che testimoniare la “borgata” romana. Alla coazione biografica si aggiunge la particolare tendenza del mio eros, che mi porta inconsciamente, e ormai con la coscienza dell’incoscienza, […] a cercare le amicizie più semplici, normali presso i “pagani” (la periferia di Roma è completamente pagana: i ragazzi e i giovani sanno a stento chi è la Madonna), che vivono a un altro livello culturale».
Il critico Cesare Garboli ha avanzato un suggestivo accostamento tra il Pasolini romano e Caravaggio, vedendo nel Riccetto, il protagonista di Ragazzi di vita, una sorta di Bacco caravaggesco trasferito nel XX secolo. Come l’artista del Seicento sceglieva i modelli e le modelle tra i frequentatori delle taverne e tra le prostitute, al punto da raffigurare la Vergine Maria ispirandosi al corpo di una popolana annegata nel Tevere, così Pasolini va a cercare i modelli della sua rappresentazione nel mondo della miseria, del disagio, del degrado più spinto. Si capisce in tal modo anche la sua tendenza a ingaggiare per i suoi film attori non professionisti.

T2

La maturazione del Riccetto

Ragazzi di vita, capp. 1 e 8

Del primo romanzo romano di Pasolini riportiamo due passi: la conclusione del capitolo iniziale e l’epilogo dell’ultimo. Nel primo brano il Riccetto, ancora ragazzo, è sul Tevere, in una barca, a giocare con alcuni amici. Nel secondo, ormai cresciuto, si trova invece a essere spettatore, sulle rive dell’Aniene, di un evento tragico: un ragazzo, Genesio, tenta la traversata a nuoto, ma viene travolto dalla corrente, annegando sotto lo sguardo angosciato dei due fratellini, Mariuccio e Borgo Antico.

Il Riccetto continuava a starsene disteso, senza dar retta ai nuovi venuti,1 ammusato,2

sul fondo allagato della barca, con la testa appena fuori dal bordo: e continuava

sempre a far finta di essere al largo, fuori dalla vista della terraferma. «Ecco

li pirata!» gridava con le mani a imbuto sulla sua vecchia faccia di ladro uno dei

5     trasteverini, in piedi in pizzo alla barca:3 gli altri continuavano scatenati a cantare.

A un tratto il Riccetto si voltò su un gomito, per osservare meglio qualcosa che

aveva attratto la sua attenzione, sul pelo dell’acqua, presso la riva, quasi sotto le

arcate di Ponte Sisto. Non riusciva a capir bene cosa fosse. L’acqua tremolava, in

quel punto, facendo tanti piccoli cerchi come se fosse sciacquata da una mano: e

10    difatti nel centro vi si scorgeva come un piccolo straccio nero.

«Ched’è»,4 disse allora rizzandosi in piedi il Riccetto. Tutti guardarono da quella

parte, nello specchio d’acqua quasi ferma, sotto l’ultima arcata. «È na rondine,

vaffan…», disse Marcello.5 Ce n’erano tante di rondinelle, che volavano rasente

i muraglioni, sotto gli archi del ponte, sul fiume aperto, sfiorando l’acqua con il

15    petto. La corrente aveva ritrascinato un poco la barca indietro, e si vide infatti c’era

proprio una rondinella che stava affogando. Sbatteva le ali, zompava.6 Il Riccetto

era in ginocchioni sull’orlo della barca, tutto proteso in avanti. «A stronzo, nun

vedi che ce fai rovescià?», gli disse Agnolo. «An vedi», gridava il Riccetto, «affoga!».

Quello dei trasteverini che remava restò coi remi alzati sull’acqua e la corrente spingeva

20    piano la barca indietro verso il punto dove la rondine si stava sbattendo. Però

dopo un po’ perdette la pazienza e ricominciò a remare. «Aòh, a moro», gli gridò il

Riccetto puntandogli contro la mano, «chi t’ha detto de remà?» L’altro fece schioccare

la lingua con disprezzo e il più grosso disse: «E che te frega». Il Riccetto guardò

verso la rondine, che si agitava ancora, a scatti, facendo frullare di botto7 le ali.

25    Poi senza dir niente si buttò in acqua e cominciò a nuotare verso di lei. Gli altri si

misero a gridargli dietro e a ridere: ma quello dei remi continuava a remare contro

corrente, dalla parte opposta. Il Riccetto s’allontanava, trascinato forte dall’acqua:

lo videro che rimpiccioliva, che arrivava a bracciate fin vicino alla rondine, sullo

specchio d’acqua stagnante, e che tentava d’acchiapparla. «A Riccettooo», gridava

30    Marcello con quanto fiato aveva in gola, «perché nun la piji?». Il Riccetto dovette

sentirlo, perché si udì appena la sua voce che gridava: «Me pùncica!».8 «Li mortacci

tua»,9 gridò ridendo Marcello. Il Riccetto cercava di acchiappare la rondine, che gli

scappava sbattendo le ali e tutti e due ormai erano trascinati verso il pilone dalla

corrente che lì sotto si faceva forte e piena di mulinelli. «A Riccetto», gridarono

35    i compagni dalla barca, «e lassala perde!». Ma in quel momento il Riccetto s’era

deciso ad acchiapparla e nuotava con una mano verso la riva. «Torniamo indietro,

daje», disse Marcello a quello che remava. Girarono. Il Riccetto li aspettava seduto

sull’erba sporca della riva, con la rondine tra le mani. «E che l’hai sarvata a ffà», gli

disse Marcello, «era così bello vedella che se moriva!». Il Riccetto non gli rispose

40    subito. «È tutta fracica»,10 disse dopo un po’, «aspettamo che s’asciughi!». Ci volle

poco perché s’asciugasse: dopo cinque minuti era là che rivolava tra le compagne,

sopra il Tevere, e il Riccetto ormai non la distingueva più dalle altre.


***


Genesio allora s’alzò all’impiedi, si stirò un pochetto, come non usava fare mai, e

poi gridò: «Conto fino a tre e me butto». Stette fermo, in silenzio, a contare, poi

45    guardò fisso l’acqua con gli occhi che gli ardevano sotto l’onda nera11 ancora tutta

ben pettinata; infine si buttò dentro con una panciata. Arrivò nuotando alla svelta

fin quasi al centro, proprio nel punto sotto la fabbrica, dove il fiume faceva la cur-

va svoltando verso il ponte della Tiburtina. Ma lì la corrente era forte, e spingeva

indietro, verso la sponda della fabbrica: nell’andata Genesio era riuscito a passare

50    facile il correntino, ma adesso al ritorno era tutta un’altra cosa. Come nuotava lui,

alla cagnolina, gli serviva a stare a galla, non a venire avanti: la corrente, tenendolo

sempre nel mezzo, cominciò a spostarlo in giù verso il ponte.

«Daje, a Genè», gli gridavano i fratellini da sotto il trampolino, che non capivano

perché Genesio non venisse in avanti, «daje che se n’annamo!».12

55    Ma lui non riusciva a attraversare quella striscia che filava tutta piena di schiume,

di segatura e d’olio bruciato, come una corrente dentro la corrente gialla del fiume.

Ci restava nel mezzo, e anziché accostarsi alla riva, veniva trascinato sempre in giù

verso il ponte. Borgo Antico e Mariuccio col cane scapitollarono13 giù dalla gobba del

trampolino, e cominciarono a correre svelti, a quattro zampe quando non potevano

60    con due, cadendo e rialzandosi, lungo il fango nero della riva, andando dietro a

Genesio che veniva portato sempre più velocemente verso il ponte. Così il Riccetto,

mentre stava a fare il dritto con la ragazza che però continuava, confusa come un’ombra,

a strofinare le lastre,14 se li vide passare tutti e tre sotto i piedi, i due piccoli che

ruzzolavano gridando tra gli sterpi, spaventati, e Genesio in mezzo al fiume, che non

65    cessava di muovere le braccine svelto svelto nuotando a cane, senza venire avanti

di un centimetro. Il Riccetto s’alzò, fece qualche passo ignudo come stava giù verso

l’acqua, in mezzo ai pungiglioni e lì si fermò a guardare quello che stava succedendo

sotto i suoi occhi. Subito non si capacitò, credeva che scherzassero; ma poi capì e

si buttò di corsa giù per la scesa,15 scivolando, ma nel tempo stesso vedeva che non

70    c’era più niente da fare: gettarsi nel fiume lì sotto il ponte voleva proprio dire esser

stanchi della vita, nessuno avrebbe potuto farcela. Si fermò pallido come un morto.

Genesio ormai non resisteva più, povero ragazzino, e sbatteva in disordine le braccia,

ma sempre senza chiedere aiuto. Ogni tanto affondava sotto il pelo della corrente e

poi risortiva16 un poco più in basso; finalmente quand’era già quasi vicino al ponte,

75    dove la corrente si rompeva e schiumeggiava sugli scogli, andò sotto per l’ultima volta,

senza un grido, e si vide solo ancora un poco affiorare la sua testina nera.

Il Riccetto, con le mani che gli tremavano, s’infilò in fretta i calzoni, che teneva

sotto il braccio, senza più guardare verso la finestrella della fabbrica, e stette ancora

un po’ lì fermo, senza sapere che fare. Si sentivano da sotto il ponte Borgo Antico

80    e Mariuccio che urlavano e piangevano, Mariuccio sempre stringendosi contro il

petto la canottiera e i calzoncini di Genesio; e già cominciavano a salire aiutandosi

con le mani su per la scarpata.

«Tajamo, è mejo»,17 disse tra sé il Riccetto che quasi piangeva anche lui, incamminandosi

in fretta lungo il sentiero, verso la Tiburtina; andava quasi di corsa, per

85    arrivare sul ponte prima dei due ragazzini. «Io je vojo bene ar Riccetto, sa!»,18 pensava.

S’arrampicò scivolando, e aggrappandosi ai monconi dei cespugli su per lo

scoscendimento coperto di polvere e di sterpi bruciati, fu in cima, e senza guardarsi

indietro, imboccò il ponte.

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Dentro il TESTO

I contenuti tematici

Nel primo episodio il Riccetto si butta dalla barca, a proprio rischio e pericolo (la corrente del fiume potrebbe portarlo via), per salvare una rondinella finita in acqua. Questo comportamento potrebbe essere ritenuto piuttosto inverosimile da un punto di vista sociologico: la preoccupazione del Riccetto per le sorti della povera rondinella risulta in effetti alquanto improbabile, data la rappresentazione d’insieme del personaggio.

Lo psicanalista e saggista Aldo Carotenuto ha offerto però una suggestiva interpretazione dell’episodio: «Tutto ciò che vola e che appartiene all’aria esprime, nella simbologia psicologica, un elemento spirituale, qualcosa che è capace di elevarsi da terra, dalla superficie delle cose. Tuffandosi in acqua e salvando la rondine, Riccetto compie un gesto che lo èleva dalla squallida condizione in cui ordinariamente si trova».

Tra il primo e il secondo brano sono passati sei anni. Il Riccetto, che prima aveva quattordici anni, ora ne ha venti: da ragazzo che era, è diventato uomo, ha un lavoro, è inserito nella società. Se nel primo brano egli è pronto a rischiare la vita per aiutare un animaletto, nel secondo, di fronte all’annegamento di Genesio, non è certo indifferente, anzi è addolorato (quasi piangeva anche lui, r. 83); probabilmente ha anche preso in considerazione, almeno per un momento, l’ipotesi di buttarsi e di tentare il tutto per tutto al fine di salvare il povero Genesio, ma poi prevalgono l’istinto di autoconservazione, il calcolo, una certa prudenza: Io je vojo bene ar Riccetto, sa! (r. 85). Nelle ultime righe del testo, oltre a non aver prestato soccorso, il Riccetto si allontana veloce dal luogo in cui Genesio è affogato. Perché lo fa? Nel corso delle vicende raccontate nel romanzo è stato per un certo tempo in carcere: nella sua situazione – avrà pensato – è sempre meglio non avere a che fare con le forze dell’ordine, neppure in qualità di testimone di una morte accidentale.

Quello della morte di ragazzi e giovani uomini è un motivo affrontato da Pasolini sempre all’insegna di una sobria commozione, dai toni quasi elegiaci. Da un punto di vista narratologico, aggiungiamo che se i «ragazzi di vita» sono i protagonisti del romanzo, la morte potrebbe essere vista come la loro vera antagonista. A proposito della ricorrenza ossessiva di questo motivo si potrebbe sottolineare come esso si leghi, per così dire, all’incapacità di Pasolini di seguire i suoi personaggi oltre la soglia dell’età adulta. O, meglio, al suo disinteresse nei confronti del mondo adulto, che gli appare tanto corrotto quanto quello dell’infanzia e dell’adolescenza gli appare puro. In altre parole, facendo morire i suoi giovani personaggi, è come se li salvasse dalla degenerazione a cui, crescendo, sarebbero inevitabilmente destinati. Perché la maturazione equivale alla perdita di caratteristiche positive come la spontaneità e la generosità, sostituite da una più adulta e borghese morale dell’egoismo e dell’autoconservazione.

Le scelte stilistiche

Alla rappresentazione della morte si connette spesso in Ragazzi di vita una tonalità patetica, tesa a suscitare commozione nel lettore. Sono queste le parti del romanzo meno apprezzate da alcuni critici, che le hanno giudicate strappalacrime. Se soprattutto nel secondo brano è innegabile che Pasolini calchi il pedale del pathos (per esempio attraverso l’insistito ricorso ai diminutivi, con valore vezzeggiativo, riferiti alla persona di Genesio: braccine, r. 65; ragazzino, r. 72; testina, r. 76; calzoncini, r. 81), tuttavia un simile giudizio negativo è assai discutibile: più che cercare effetti melodrammatici fini a sé stessi, l’autore non fa altro – qui come in tante pagine del libro – che manifestare profonda simpatia e intima adesione nei confronti del mondo e dei personaggi rappresentati.

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Quanto all’aspetto specificamente linguistico, bisogna notare come Pasolini incroci e spesso sovrapponga due universi linguistici, che sono anche due universi psicologici e due punti di vista assai diversi e lontani tra loro: quello dell’autore (raffinato, dotato di una notevole cultura e di una spiccata consapevolezza letteraria) e quello dei personaggi (semplici, incolti, che tendono a esprimersi in maniera rozza ed elementare). In tal modo l’italiano si mescola a un dialetto romanesco fatto di espressioni volgari che spesso sfociano nel turpiloquio (vaffan…, r. 13; A stronzo, r. 17; E che te frega, r. 23; Li mortacci tua, rr. 31-32).

Verso le COMPETENZE

Comprendere

1 Riassumi i due brani in circa 5 righe ciascuno.

Analizzare

2 Individua nei due brani alcune frasi chiaramente legate al punto di vista e al modo di esprimersi dell’autore.

Interpretare

3 A tuo parere, perché nel secondo brano è assente il turpiloquio, che invece abbonda nel primo?

COMPETENZE LINGUISTICHE

4 Pasolini sceglie consapevolmente di adottare uno stile ed una lingua che rifletta la realtà sociale che descrive. Per questo, oltre a parole ed espressioni in romanesco, nel brano sono presenti tratti linguistici tipici del parlato colloquiale. Riscrivi le espressioni che seguono in un registro linguistico medio-standard.


Continuava a starsene disteso 

 


Senza dar retta ai nuovi venuti

 


il Riccetto si rivoltò su un gomito

 


disse allora rizzandosi in piedi il Riccetto

 


«E che te frega»

 


Gli altri si misero a gridargli dietro e a ridere

 


lo videro che rimpiccioliva

 


tentava di acchiapparla

 

Produrre

5 Scrivere per esporre. Traccia in un testo espositivo di circa 20 righe due distinti ritratti psicologici del Riccetto nel primo e nel secondo brano, evidenziando soprattutto analogie e differenze tra i due momenti.

3 Il rifiuto del presente

A mano a mano che, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, il boom economico trasforma in profondità il tessuto economico e sociale del paese, insieme alle abitudini, agli stili di vita, alla mentalità delle persone, Pasolini si sente sempre più estraneo nei confronti di una realtà in cui non si riconosce e che disapprova. Strumento principe attraverso cui sta avvenendo questa trasformazione, che equivale a una manipolazione delle coscienze, è per Pasolini la televisione, per la sua intrinseca capacità di persuasione occulta.

Nel 1964 esce un saggio del semiologo Umberto Eco destinato a diventare celeberrimo. Si intitola Apocalittici e integrati e definisce, in relazione alle «comunicazioni di massa» e

Come uno schiavo malato, o una bestia, vagavo per un mondo che mi era assegnato in sorte,

con la lentezza che hanno i mostri del fango – o della polvere – o della selva –alle «teorie della cultura di massa» (come recita il sottotitolo), i due tipi di atteggiamento che gli intellettuali tendono ad assumere. Gli «integrati» sono coloro che valorizzano gli aspetti positivi della nuova realtà: la democratizzazione della comunicazione, l’accesso alla cultura consentito a gruppi sociali che prima ne erano esclusi, l’abbassamento del costo economico dei prodotti culturali ecc. Gli «apocalittici» sono invece coloro che evidenziano i risvolti negativi di tale situazione: l’omologazione, la persuasione occulta della pubblicità, il conformismo dilagante, l’assenza di pensiero critico ecc.

Ebbene, è chiaro che Pasolini sta nettamente con gli «apocalittici». Soprattutto nella fase finale della sua produzione artistica (dalla metà degli anni Sessanta in poi) è fortissima l’insistenza sulla negatività della moderna società dei consumi e degli strumenti di comunicazione attraverso cui essa diffonde la propria perversa ideologia. È un degrado totale dell’intelligenza e dei valori autentici, da cui sembra non esistere via d’uscita: da qui i toni cupi e disperati che caratterizzano le sue ultime opere.

 >> pagina 1067 

Mentre constata l’abbrutimento del mondo capitalistico-occidentale, la corruzione che il benessere materiale e la società dei consumi stanno producendo nelle coscienze, la fine dell’autenticità psicologica e culturale della civiltà contadina, Pasolini sente sempre più la necessità di rivolgersi a un “altrove”. Si tratta di un altrove nello spazio (i paesi extraeuropei, l’Africa e l’Asia) e nel tempo (il passato medievale e classico). «Per l’Italia è finita, ma lo Yemen può essere ancora interamente salvato»: così recita la voce di Pasolini nel commento al documentario Le mura di Sana’a (1971).

È, in realtà, un unico altrove spazio-temporale: non a caso spesso i film che parlano di quel passato tanto vagheggiato da Pasolini (Edipo Re, Medea e Il fiore delle Mille e una notte) sono girati nel cosiddetto Terzo Mondo, cioè nei paesi in via di sviluppo. È questo un vero e proprio mito: Pasolini idealizza il passato e l’Oriente, cercandovi ciò che non è più a disposizione in Occidente, per poi dichiarare la propria delusione quando neanche lì trova quello che da noi è venuto a mancare. Perché tutto il mondo si è occidentalizzato (oggi diremmo globalizzato) e perché, a ben guardare, anche le epoche remote conoscevano i drammi della violenza e dell’esclusione.

T3

La mancanza di richiesta di poesia

Poesia in forma di rosa

Questo testo, tratto dalla raccolta Poesia in forma di rosa (1964), è un documento della crisi che colpisce Pasolini nell’ultima fase del suo lavoro, quando gli sembra che la sua arte sia ormai inutile e incapace di incidere in un contesto storico-sociale profondamente lontano da quello in cui si era formato e aveva cominciato a muovere i primi passi come poe­ta e come scrittore.


Metro Versi liberi.

Come uno schiavo malato, o una bestia,

vagavo per un mondo che mi era assegnato in sorte,

con la lentezza che hanno i mostri

del fango – o della polvere – o della selva –

5      strisciando sulla pancia – o su pinne

vane per la terraferma – o ali fatte di membrane…

C’erano intorno argini, o massicciate,

o forse stazioni abbandonate in fondo a città

di morti – con le strade e i sottopassaggi

10    della notte alta, quando si sentono soltanto

treni spaventosamente lontani,

e sciacquii di scoli, nel gelo definitivo,

nell’ombra che non ha domani.

Così, mentre mi erigevo come un verme,

15    molle, ripugnante nella sua ingenuità,

qualcosa passò nella mia anima – come

se in un giorno sereno si rabbuiasse il sole;

sopra il dolore della bestia affannata,

si collocò un altro dolore, più meschino e buio,

20    e il mondo dei sogni si incrinò.

«Nessuno ti richiede più poesia!»

E: «È passato il tuo tempo di poeta…».

«Gli anni cinquanta sono finiti nel mondo!»

«Tu con le Ceneri di Gramsci ingiallisci,

25    e tutto ciò che fu vita ti duole

come una ferita che si riapre e dà la morte!»

 >> pagina 1068 

Analisi ATTIVA

I contenuti tematici

Il poeta descrive sé stesso come confinato a una condizione di inutilità e di estraneità rispetto a un mondo in cui aveva un tempo creduto di poter operare attivamente; eppure anche nelle ore della notte (allusione a un buio dell’intelligenza per lui difficile da decifrare), sebbene la città sia una città / di morti (vv. 8-9: i consumatori perfettamente integrati nella società di massa ai quali è stata tolta la coscienza?) e il gelo dello spirito appaia definitivo (v. 12), egli cerca di muoversi, di risalire faticosamente la china di un presente agli occhi del quale appare come un mostro (con la lentezza che hanno i mostri, v. 3), di ergersi ancora sopra le brutture da cui si sente circondato (mi erigevo come un verme, v. 14). A complicare tale situazione e a esacerbare il suo stato d’animo si affaccia, a partire dal v. 16, una drammatica intuizione: il disagio che l’autore prova è determinato dal fatto che il suo tempo è ormai trascorso ed egli è come postumo a sé stesso. Nessuno è più interessato a quanto egli ha da dire come poeta, gli anni Cinquanta sono finiti e lui è destinato a ingiallire insieme con la sua opera.


1 Con quali espressioni si autodescrive il poeta? Che tipo di connotazione hanno?


2 A che cosa viene paragonata l’improvvisa presa di coscienza? perché, secondo te?

 >> pagina 1069 

Per comprendere in profondità i significati del componimento, bisogna guardare alle vicende storico-sociali degli anni in cui è stato scritto. Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio del decennio successivo l’Italia cambia a ritmi vorticosi: il boom economico, il benessere materiale, la televisione, nuovi miti e nuovi riti (tutti laici). Se nel Canto popolare (poesia compresa nelle Ceneri di Gramsci, ma scritta nel 1952-1953) del popolo scriveva «non l’abbaglia / la modernità», nel Glicine (l’ultima poesia della raccolta La religione del mio tempo, 1961) Pasolini annota, commentando i grandi cambiamenti in atto e la propria lontananza spirituale da quanto vede intorno a sé: «Il mondo mi sfugge, ancora, non so dominarlo / più, mi sfugge, ah, un’altra volta è un altro… // Altre mode, altri idoli, / la massa, non il popolo, la massa / decisa a farsi corrompere / al mondo ora si affaccia, / e lo trasforma, a ogni schermo, a ogni video / si abbevera, orda pura che irrompe / con pura avidità, informe / desiderio di partecipare alla festa. / E s’assesta là dove il Nuovo Capitale vuole. / Muta il senso delle parole: / chi finora ha parlato, con speranza, resta / indietro, invecchiato». Il «popolo» è diventato una «massa» con cui non c’è più alcuna possibilità di dialogo.


3 Come viene descritto il mondo in cui il poeta si muove?


4 Quale significato puoi attribuire all’espressione città di morti (vv. 8-9)?

Le scelte stilistiche

Sono, quelli qui antologizzati, versi estremamente drammatici, tra il grido e la rassegnazione, espressi da Pasolini in uno stile fortemente prosaico, come se – di fronte all’urgenza dei temi trattati – la poesia non potesse più indulgere a rivestirsi di abbellimenti stilistici e retorici, come faceva ancora certo estetismo novecentesco, intimistico e parareligioso: ciò implica anche una presa di posizione politico-ideologica contro la borghesia prima fascista e poi democristiana che, secondo il severo giudizio pasoliniano, era stata l’ambiente e la base culturale di quelle tendenze letterarie.

Anche il lessico qui è molto spoglio e quotidiano. Soltanto alcuni vocaboli sembrano accendere il componimento in senso espressionistico. Ci riferiamo alle immagini sgradevoli che connotano la sensazione di irrimediabile diversità che il poeta percepisce in sé stesso in relazione al mondo che lo circonda: schiavo malato (v. 1), bestia (v. 1), mostri (v. 3), verme, / molle, ripugnante (vv. 14-15), bestia affannata (v. 18). Lo stato di prostrazione psicologica in cui egli versa si estrinseca dunque attraverso la forza delle metafore.


5 Individua nel testo tutti i termini che hanno connotazione negativa.


6 Scrivere per esporre. Pasolini lamenta qui l’inutilità della poesia nella società contemporanea, distratta e incapace di comprenderla. Il motivo della crisi di identità del poeta inizia però già con il Decadentismo. Ripensando agli autori che hai incontrato nello studio della letteratura nel corso di questo anno scolastico, sintetizza le diverse posizioni di quanti nei loro testi hanno affrontato questo tema. Scrivi quindi un testo di circa 40 righe.


7 Dibattito in classe. Secondo Pasolini la poesia può contribuire ad un miglioramento della società: sei d’accordo con lui? perché? Confrontati con i compagni.

Vola alta parola - volume 6
Vola alta parola - volume 6
Dal Novecento a oggi