LETTURE critiche

LETTURE critiche

Un aristocratico di massa

di Pietro Gibellini

Quali sono le strategie messe in atto da d’Annunzio per diventare il modello per un vasto pubblico? Pietro Gibellini (n. 1945) evidenzia in questo brano come il poeta sia stato capace di coniugare ideali aristocratici e atteggiamenti populistici, sfruttando sapientemente le possibilità offerte dall’industria editoriale e il desiderio della borghesia di riconoscersi in un uomo d’eccezione.

A pochi autori, infatti, si può applicare un “-ismo” tanto solido e pertinente come a d’Annunzio. Se per altri autori l’espressione può designare un calco formale (“dantismo”), una scuola poetica (“petrarchismo”), una scelta di stile e di pensiero (“leopardismo”), o persino un eccesso all’interno dell’opera dell’autore medesimo (il “pirandellismo” di certo Pirandello), per d’Annunzio tutte questi funzioni coesistono, e agiscono con un’intensità che teme pochi confronti. Il “dannunzianesimo” designa, ad un tempo, un insieme di atteggiamenti stilistici e comportamentali, alla cui radice sta lo stesso d’Annunzio, e la sua programmatica commistione fra letteratura e vita, fra gesto e testo, fra parola e azione. La trasformazione dell’«imaginifico» prima in «vate» – che dava forma ai miti collettivi – e poi in poeta-soldato e «comandante» – che coniugava la sua personale aspirazione eroica con la causa della nazione – era già latente prima di verificarsi negli eventi; il “manifesto” dell’Alcyone, che incarna l’ars poetica globale di d’Annunzio, ha al suo centro la figura ermetica del Fanciullo, oscillante fra lo splendore solare della vita e il fascino notturno del mistero, capace con pari perizia di trasformare le canne in flauti melodiosi o in archi per saettare. Proclamando l’intento di vivere la propria vita come un’opera d’arte, d’Annunzio mostrava di considerare i gesti e i modelli proposti nella sua finzione e nella sua esibita biografia come parte integrante del “messaggio” insito nei suoi testi.

Con sensibilità sociologica, lo scrittore coglie “l’orizzonte di attesa”. Siamo nel momento in cui la civiltà industriale segna un vistoso balzo in avanti, aggrega in una classe più vasta e omogenea i ceti subalterni, cui si rivolge nell’Ottocento maturo l’attenzione di un Verga e di un nutrito fìlone populista, e porta per converso a una rapida ascesa un nuovo ceto, che cerca un modello culturale e un’identità adeguati al nuovo prestigio. Il fenomeno è complesso e variegato, ma spiega in qualche modo la diffusa reazione al pensiero positivista, che pure aveva alimentato il rapido progresso economico e sociale. Sulla mediocrità di una borghesia che tende a nobilitarsi mediante la riscoperta e il rinnovamento del cliché aristocratico, versa ad esempio acidi amari in elegantissime edizioni fuori commercio l’aristocratico Carlo Dossi, capace di slittare da un superiore snobismo a un fastidio antiborghese di matrice anarco-socialista: la borghesia diventa il bersaglio polemico degli “scapigliati” delusi dall’Italietta moderata che aveva intristito le aspirazioni eroiche del Risorgimento.

D’Annunzio intuisce che su questa spaccatura si aprono ampi spazi per la moderna industria editoriale favorita dal ridursi dell’analfabetismo e collegata con la nuova espansione del giornalismo, che sta bruciando le tappe. Lo scrittore fornisce così al vasto pubblico, con i testi e con i gesti, il modello neo-aristocratico in cui riconoscersi o in cui evadere miticamente. Le cacce alla volpe, le cronache mondane, i duelli alla spada, gli amori reclamizzati proponevano una figura perfettamente in linea con i personaggi eccezionali e «inimitabili» dei romanzi dannunziani, stesi in uno stile spesso agghindato e falso-antico, proprio come gli arredi della sua villa principesca fotografata dalle riviste illustrate.

Anche il suo rapporto con le donne interpretò e anzi guidò lo stile della belle époque: il dannunzianesimo fu anche uno stile di amatore, incline a donne eccezionali – secondo la duplice veste della femmina-pantera o del tenero giglio – relegate in realtà a oggetto, e travestite con pseudonimi, come fantasmi mentali del poeta: dalle amanti della Capponcina, come la Di Rudinì e la Mancini (l’una ritiratasi in convento, l’altra preda della follia), a quelle dell’esilio francese (la franco-russa marchesa de Goloubeff) fino al Vittoriale (dalla pianista Luisa Bàccara, fino a qualche attricetta o cameriera, reinventate in un delirio orgiastico col sussidio della droga). Nel poeta che si vantò d’aver compiuto la tredicesima fatica di Ercole, il possesso di innumerevoli amanti, si avverte con inquietudine l’assenza di un vero interesse per la persona reale e irripetibile di una donna, e piuttosto la tensione verso una femminilità indistinta, con quel misto di prepotenza e di timore che vietano al Don Giovanni un rapporto durevole e autentico. L’immagine della donna, o espressioni a lei connesse, sono usate da d’Annunzio per designare la folla, verso la quale mostra, ad un tempo, volontà di dominio e quel distacco superiore che cela timidezza, desiderio di separatezza. Se da un lato il poeta ostenta lo spregio della folla e si proclama scrittore per pochi e scelti lettori, procurando la veste più raffinata ai suoi libri e scegliendo con cura carta, copertina, caratteri di stampa, fregi squisiti, preoccupandosi di propiziarne il lancio con annunci e interviste, dall’altro cura i rapporti giornalistici. Giornalista egli stesso e scrittore d’appendice (più di un suo romanzo esce a puntate in feuilleton), intuisce le grandi possibilità del cinema (nel ’14 firma il primo “colosso” cinematografico, Cabiria, ideato in realtà e realizzato da Giovanni Pastrone), si assicura l’attenzione degli editori più dinamici (da Sommaruga a Treves, a Mondadori), sollecita presso i pubblici poteri la stampa dell’Opera omnia (in Edizione nazionale dal 1927). delizia i bibliofili con tirature speciali e facsimili d’autografo e non dimentica, naturalmente, il grosso pubblico, cui riserva le edizioni tascabili.

Questa bifronte inclinazione aristocratica e populista, destinata paradossalmente a una borghesia ancora priva d’identità culturale, non è irrilevante nemmeno per l’intelligenza del d’Annunzio politico. Lo spregiatore degli «idolatri» plebei, l’alter ego di Andrea Sperelli che nel Piacere ostenta indifferenza per i «bruti morti brutalmente» nell’eccidio di Dogali, il sosia di Stelio Effrena che nel Fuoco paragona la folla a una mostruosa Chimera, non esita però a celebrare in versi la festa del primo maggio, a cantare le nuove masse operaie e le loro macchine, a conferire accenti populistici al suo interventismo. Il «produttore della bellezza» (Raimondi), il capofila della poesia di massa che trasforma in «opificio» la propria attività letteraria, riesce in modo singolare a conferire veste mitico-eroica alla guerra inutile, legando intorno al nazionalismo dell’impresa fiumana le forze più larghe e disparate.


Pietro Gibellini, Introduzione a Gabriele d’Annunzio, Il piacere, Garzanti, Milano 1995

Comprendere il pensiero critico

1 Che cosa designa, secondo il critico, il termine “dannunzianesimo”?


2 Quale tipologia di pubblico d’Annunzio identifica, con occhio di sociologo, come ideale destinatario della nuova industria editoriale? Quale modello culturale gli fornisce?


3 Perché il rapporto di d’Annunzio con il genere femminile interpretò lo stile della bella époque?

 >> pagina 618 

Il velleitarismo del superuomo dannunziano

di Carlo Salinari

Lungi dall’essere effettivamente un eroe destinato al dominio, il superuomo di d’Annunzio è, secondo la lettura del critico marxista Carlo Salinari (1919-1977), la megalomane espressione di un’irrealizzata aspirazione alla grandezza e il frutto di un disegno astratto e intellettualistico destinato a fallire e a indurre stanchezza perfino nell’autore.

Il Superuomo è il punto di arrivo della personalità dannunziana. La critica che ha voluto sbarazzarsene come di un fenomeno astratto, sovrapposto volontaristicamente1 dal d’Annunzio alla sua vera natura, ha creato una frattura che poi non è riuscita né a colmare né a spiegare, ha diviso in due quella personalità con una operazione arbitraria che non ha alcuna spiegazione scientifica, ha ricostruito in modo parziale e monco la linea dell’opera dannunziana.

Se, invece, ci si impegna in un’analisi scientifica e si pone al centro di quell’opera il superuomo, essa, nel suo complesso, non potrà sottrarsi alla caratteristica fondamentale […]: la sproporzione, nel superuomo, fra gli obiettivi e le forze per raggiungerli, tra il desiderio e la realtà, fra la tensione spasmodica della volontà e la sua capacità di concretarsi ed autolimitarsi. Il tratto distintivo del superuomo (e dell’opera dannunziana) apparirà, così, il velleitarismo. Un velleitarismo alimentato nelle cose dal contrasto fra un’illusione storica propria di vasti gruppi d’intellettuali e la realtà italiana. Un velleitarismo che in d’Annunzio si nutre anche del contrasto tra l’infinito proiettarsi della sensualità ed il suo pratico soddisfacimento, fra la tensione dello stile e il raggiungimento dell’espressione, fra l’aspirazione a una posizione europea e le radici culturali abbastanza modeste e superficiali. Voglio dire che quella sproporzione è, innanzi tutto, un fatto storico, reale, che s’incarna nel nazionalismo passionale e retorico […] di cui la megalomania di Crispi2 fu la prima espressione politica. Ed è, inoltre, una caratteristica della sensualità dannunziana imprigionata in una spirale senza fine in cui il vagheggiamento di sempre nuove sensazioni supera continuamente il desiderio e mai lo appaga; è nella struttura intellettuale di d’Annunzio così povera – anche rispetto a Nietzsche – di ragioni ideali, di pathos morale, di polemica culturale; è infine nel suo stile, almeno nei moduli più diffusi e vulgati, in quel lussureggiare d’immagini e di suoni, in quella sovrabbondanza di parole, che crescono e quasi s’inseguono senza mai raggiungere una vera pacificazione nella pienezza espressiva, un vero ritmo, una vera musica.

[…] In lui si determina quel fenomeno che Lukács3 considera caratteristico della poesia decadente: lo smarrimento della differenziazione – nella categoria della possibilità – fra possibilità astratta e concreta. Così i suoi superuomini sono stranamente divisi fra l’altezza degli scopi che si propongono e l’incertezza di poterli raggiungere, fra la tensione spasmodica della volontà e un desiderio di tregua. […]

Da un simile atteggiamento velleitario che investe tutta la personalità di d’Annunzio deriva, dunque, quanto di troppo, di falso, di letterario noi troviamo quasi sempre nella sua opera. Lo sforzo di superare quella proporzione connatura al suo stesso mondo idea­le e alla sua stessa sensibilità non può che condurre a una dilatazione artificiosa degli atteggiamenti, delle situazioni, delle immagini, della parole. Ma da quell’atteggiamento velleitario derivano anche i rari momenti di autenticità nella produzione dannunziana. Perché è proprio dalla tensione superomistica che nasce di tanto in tanto un desiderio di quiete, di pausa, di tregua, che non giunge quasi mai alla coscienza della velleità (se questo fosse avvenuto d’Annunzio ci avrebbe dato uno dei motivi più tragici del nostro tempo), ma si manifesta più semplicemente in una sorta di ripiegamento in se stesso e di rifugio nelle memorie dell’infanzia, in un vagheggiamento non più panico ma nostalgico della natura, in una tristezza più umana nutrita d’insoddisfatta delusione, in uno stile da taccuino, modesto e quasi nudo, eppure profondamente musicale. L’allentamento della tensione superomistica, un barlume di coscienza della sua inanità, un atteggiamento di frustrazione è all’origine dei vari momenti in cui d’Annunzio si sottrae a quella sproporzione: delusione e aurorale consapevolezza del proprio velleitarismo che sorgono come antitesi dialettica del superuomo e che, quindi, senza la presenza del superuomo non sarebbero concepibili.


Carlo Salinari, Miti e coscienza del decadentismo italiano, Feltrinelli, Milano 1960

Comprendere il pensiero critico

1 Qual è, per Salinari, la caratteristica del superuomo dannunziano?


2 Perché il critico, dopo aver sottolineato le incongruenze del superuomo di d’Annunzio, afferma che proprio da questo fioriscono i rari momenti di autenticità della produzione del poeta?

 >> pagina 620

Alcyone, capolavoro di un poeta d’avanguardia

di Annamaria Andreoli

«Sorta di mediterraneo Mago Merlino», «incantatore maestro di metamorfosi» ed esempio unico di «una letteratura del desiderio», secondo il giudizio della studiosa Annamaria Andreoli, Gabriele d’Annunzio è uno dei grandi poeti d’avanguardia europei, capace di offrire in Alcyone un campionario sterminato di situazioni e soluzioni stilistiche, nella perfetta e sperimentale fusione di tradizione e modernità.

Dominato dalla poesia del dolore, muore l’Ottocento. Se nelle Fleurs du mal di Baudelaire l’infernale metropoli moderna era la vera protagonista micidiale, Alcyone ne rappresenta ora l’antidoto, al punto che la celeberrima Pioggia nel pineto ribatte polemica al «coeur meurtri comme une pêche» di Amour du mensonge:1 «il cuor nel petto è come pèsca / intatta». In fuga dalla città inquinata e dalle sue cure, la Natura benigna offre per contro gli agi ameni che d’Annunzio canta tempestivamente. È persuaso che la macchina affrancherà via via la specie umana dalla fatica regalando tempo libero e ferie d’agosto dove consumare se mai le energie nel corroborante esercizio sportivo en plein air. Del resto il motto fiumano Fatica senza fatica conclamerà in futuro il suo rifiuto tutto mediterraneo dell’etica del lavoro e del sudore della fronte come espiazione. Panico e pagano, popolato da fauni, ninfe, tritoni e centauri, carosello pubblicitario e Baedeker2 di un pionieristico turismo marino, soccorrevole persino nel caso del maltempo che non escluderà, di fratta in fratta, l’escursione a due nella pineta, e altre, poi, alle pendici delle sublimi Apuane o ai boschi intatti dell’Uccellina, non mancando di additare, con modi d’Almanacco, le memorie dei luoghi e le cose notevoli, Alcyone fonda uno dei grandi miti del Novecento: «Estate, estate mia, non declinare!» (Implorazione).

Per incidere con efficacia nell’immaginario collettivo era necessaria la perizia scaltrita di un poeta d’avanguardia. E d’Annunzio lo è, ancor più di Marinetti, che batte sul tempo e su tutta la linea. Il suo balzo in avanti prende infatti slancio da una lunga rincorsa: solo il «Passato augusto» autorizza la «Vita novella», ovvero la «modernità» che ne è la replica accresciuta di maggiore Bellezza. Perciò il suo linguaggio è falso-antico, ora grecizzante e ora romanzo, ovidiano, francescano o dantesco, densamente stratificato nel percorso a ritroso della tradizione. Rivisita così, senza che ce ne accorgiamo, da magistrale persuasore occulto, le formule sacre della preghiera («ascolta», «odi») e dell’offerta votiva («l’uva sugosa […] e nera e bionda […] le pèsche e i fichi […] le ulive […] l’ombrìna e il dèntice la triglia», Feria d’agosto) mescolate a quelle popolari, prettamente folkloriche, dei bisticci nei ritornelli («ieri t’illuse / oggi m’illude – ieri m’illuse / oggi t’illude», La pioggia nel pineto) e delle ricche rime giaculatorie («Nostra spiaggia pisana… silvana e litorana», I camelli), con tale sapiente raffinatezza da attestarsi sul crinale del dialetto, quando il dialetto è conservatore di preziose pronunce remote: naiàda per naiade, àliga per alga, àlbicare per albeggiare, blavo per pallido, àrbore per albero, piovorno per piovoso…

Parole «non umane» della nascosta armonia creaturale che l’eletto scriba ha il dono di percepire e trasmettere ai comuni mortali. E la lingua è arcana al pari del sito, anch’esso antichizzato: «L’Ellade sta tra Luni e Populonia!» (A Gorgo). Come una scatola cinese la Toscana di d’Annunzio – cronotopo dove tempo e spazio s’intrecciano – contiene la Grecia di Pericle e il Rinascimento di Leonardo, stando anche all’etimo che accomuna Atene (da Anthinea cioè «la fiorita») e Fiorenza-Firenze: entrambe «città dei fiori». Con le sette ballate del Fanciullo, Alcyone prende appunto avvio dai fiorentini Orti Orticellari per poi raggiungere l’Acropoli ateniese («la rupe veneranda») e infine approdare al mare nostrum: tappe ideali che mirano al recupero di un’eccellenza da modernizzare.


Annamaria Andreoli, Introduzione a Gabriele d’Annunzio, Poesie, Rizzoli, Milano 2011

Comprendere il pensiero critico

1 In che modo Alcyone rappresenta l’antidoto ai Fiori del male di Baudelaire e, più in generale, alla vena di dolore della poesia ottocentesca?


2 Perché l’autrice individua in d’Annunzio il primo vero poeta d’avanguardia italiano?

Vola alta parola - volume 5
Vola alta parola - volume 5
Il secondo Ottocento