T4 - La mia sera (Canti di Castelvecchio)

T4

La mia sera

Canti di Castelvecchio

Composta nel 1900 e pubblicata lo stesso anno sulla rivista “Il Marzocco”, La mia sera è la descrizione della fine di una giornata di pioggia, quando ogni cosa sembra risvegliarsi a nuova vita. E come la sera è attraversata da dolci suoni e voli di rondini, così anche la vecchiaia del poeta sembra consolata dai voli della fantasia e del ricordo, che acuiscono in lui il desiderio di addormentarsi come quando era bambino, di sentire la presenza della madre chinata a dargli il bacio della buonanotte e poi di immergersi nel sonno.


Metro Cinque strofe composte da 7 novenari e 1 senario, che si chiude sempre con la parola sera. Le rime sono alternate secondo lo schema ABABCDCd.

Il giorno fu pieno di lampi;

ma ora verranno le stelle,

le tacite stelle. Nei campi

c’è un breve gre gre di ranelle.

5      Le tremule foglie dei pioppi

trascorre una gioia leggiera.

Nel giorno, che lampi! che scoppi!

Che pace, la sera!


Si devono aprire le stelle

10    nel cielo sì tenero e vivo.

Là, presso le allegre ranelle,

singhiozza monotono un rivo.

Di tutto quel cupo tumulto,

di tutta quell’aspra bufera,

15    non resta che un dolce singulto

nell’umida sera.


È, quella infinita tempesta,

finita in un rivo canoro.

Dei fulmini fragili restano

20    cirri di porpora e d’oro.

O stanco dolore, riposa!

La nube nel giorno più nera

fu quella che vedo più rosa

nell’ultima sera.

25    Che voli di rondini intorno!

che gridi nell’aria serena!

La fame del povero giorno

prolunga la garrula cena.

La parte, sì piccola, i nidi

30    nel giorno non l’ebbero intera.

Né io… e che voli, che gridi,

mia limpida sera!


Don… Don… E mi dicono, Dormi!

mi cantano, Dormi! sussurrano,

35    Dormi! bisbigliano, Dormi!

là, voci di tenebra azzurra…

Mi sembrano canti di culla,

che fanno ch’io torni com’era…

sentivo mia madre… poi nulla…

40    sul far della sera.

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Dentro il TESTO

I contenuti tematici

Dopo un giorno di tempesta, con la sera sopraggiunge la quiete e una gioia tranquilla e leggiera (v. 6) pare contagiare la natura. Nella calma ritrovata, il poeta rivive le vicende dolorose del proprio passato, ora decantate in una serenità nuova, finalmente assaporata al tramonto di una vita segnata da tanti dolori.

Tutta la lirica è strutturata su questo confronto – l’infuriare degli elementi durante il giorno e il placarsi della tempesta nella pace della sera – che sottintende a sua volta il confronto riguardante l’esistenza del poeta, tra la giovinezza inquieta e la vecchiaia finalmente serena. Così il componimento sviluppa, al di là dell’apparenza di bozzetto idillico, un’intensa meditazione autobiografica. Non a caso, la sera è per il poeta un possesso esclusivo: quella cantata da Pascoli è la “sua” sera, vale a dire la “sua” vita che, nell’estremo ritorno all’innocenza infantile, gli permette di abbandonarsi al sonno, alla quiete e all’oblio del dolore e del male.

Al tempo stesso, il costante sottofondo del suono delle campane (Don… Don…, v. 33), quasi assorbito nella dimensione naturale della campagna, e l’anafora del Dormi (come una nenia, un’eco cullante della voce delle campane) preparano prima il ricongiungimento del poeta con la madre e con l’infanzia, poi lo sprofondamento nel sonno, quasi a dire nel nulla, nell’abisso riservato al destino umano.

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Le scelte stilistiche

Nel gioco di rimandi tra immagini concrete e significati simbolici, La mia sera offre un esempio tra i più efficaci dell’espressività poetica pascoliana. Lo stacco tra passato e presente è suggerito subito nel primo verso, dove il verbo al passato remoto (fu) e il punto e virgola segnano una cesura netta con i versi successivi: all’agitazione della tempesta subentra l’inerzia pacata della sera, sulla quale pare coricarsi la luce delle stelle (vocabolo che Pascoli ripete due volte – le stelle, le tacite stelle, vv. 2-3–, come a indugiare sul loro atteso sopraggiungere).

La gioia, appena accennata, per la pace serale è indotta dal gracidio delle rane (poi chiamate allegre ranelle, v. 11), dal tessuto di suoni reso armonico grazie al ricorrere della e e della r (tremule, trascorre, leggiera, vv. 5-6, fino alla parola chiave sera), dalla lieve brezza che fa tremare le foglie, dall’analogia sottintesa tra le stelle nel cielo, che Si devono aprire (v. 9), e le corolle dei fiori su un prato.

Come l’uomo, abituato al pianto per le sofferenze patite, anche la natura non dimentica il proprio turbamento e, ora che la tempesta è passata, il suo dolce singulto (v. 15) rivela ancora una sottile inquietudine; d’altro canto, la sera (vale a dire, metaforicamente, la vecchiaia) suggerisce al poeta di guardare con maggiore distacco ai dolori vissuti: La nube nel giorno più nera / fu quella che vedo più rosa / nell’ultima sera (vv. 22-24). Ma questo non è l’unico richiamo autobiografico che è possibile cogliere sotto la superficie della descrizione naturalistica di un momento del giorno. Anzi, si può dire che in questa seconda parte del componimento l’esperienza personale si mostra chiaramente.

Alla fine della terza strofa Pascoli esprime la propria stanchezza, cercando nella sera il riposo che le sofferenze della vita gli hanno precluso (O stanco dolore, riposa!, v. 21). Poi, nella penultima strofa, assistiamo a un altro parallelismo: la vita del poeta viene infatti assimilata alla giornata, priva di cibo, vissuta dalle piccole rondini, alle quali si allude per metonimia (i nidi, v. 29). Anche il poeta, come loro, non ha avuto nel corso degli anni la porzione di felicità che gli spettava: il reticente Né io… (v. 31) sintetizza la sua autoesclusione dalla vita e la solitudine patita dopo la violazione del «nido»-casa dell’infanzia, privato per sempre del cibo dell’amore.

L’ultima strofa è infine caratterizzata, ma sarebbe meglio dire dominata, dall’evocazione fonosimbolica: l’onomatopea del suono delle campane e l’insistita allitterazione (con la ricorrenza della d, accentuata dall’invito Dormi!) creano un’atmosfera di sonnolenza che fa scivolare il soggetto lirico verso l’infanzia e, al tempo stesso, verso il nulla (il sonno, la morte). Il tono di voce delle campane si fa sempre più basso; l’anticlimax dei verbi dicono, cantano, sussurrano, bisbigliano sembra suggerire proprio questa lenta, silenziosa e progressiva discesa verso l’incoscienza.

L’esperienza di questa immersione è complicata dall’uso simultaneo di una sinestesia (le voci di tenebra azzurra, v. 36) e di un ossimoro (l’oscurità è paradossalmente azzurra, come accade al buio del cielo notturno quando sfuma in un imprevedibile chiarore): le voci risucchiano indietro verso il nulla, che è insieme la culla della nascita e il vuoto della fine. Il suono delle campane, innocente ricordo dell’infanzia, diventa allo stesso tempo un sinistro suono di morte.

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L’aspetto metrico ribadisce la grande originalità della poesia di Pascoli, il quale, pur mantenendosi all’interno di schemi consolidati, scompone e reinterpreta con grande libertà le forme chiuse della tradizione. Qui fa uso di novenari e di senari: si tratta già di una scelta per molti versi innovativa, dal momento che di solito si privilegiano l’endecasillabo e il settenario. Ma l’aspetto più importante è legato alla modalità, assolutamente personale, con cui il poeta utilizza questi metri. Il novenario, per esempio, presenta un’accentazione alquanto variata, che ritmicamente produce scansioni diverse: alcuni versi si aprono con l’accento tonico sulla prima sillaba (, presso le allegre ranelle, v. 11), altri sulla seconda (singhiozza monotono un rivo, v. 12). Inoltre la presenza delle cesure determina la frattura del verso: il v. 3, le tacite stelle. Nei campi, più che un novenario, è la somma di un senario (le tacite stelle) e un trisillabo (Nei campi).

Una disgregazione delle forme canoniche ancora più evidente è operata poi dalle esclamazioni: il v. 7, Nel giorno, che lampi! che scoppi!, per esempio, è interrotto da pause continue, per cui il metro non si concilia più con la sintassi (in questo caso, nominale). La stessa cosa può dirsi per l’ultima strofa, dove l’unità metrica è ostacolata da molteplici fratture, determinate ancora da esclamativi, ma anche da virgole e puntini di sospensione. Infine vanno segnalati i due versi sdruccioli (vv. 19 e 34): la loro sillaba finale (re-sta-no; sus-sur-ra-no) viene conteggiata come parte del verso seguente, che così da ottonario diventa anch’esso novenario.

Verso le COMPETENZE

Comprendere

1 Dai un titolo a ogni strofa della poesia.

ANALIZZARE

2 Individua nel componimento i termini e le espressioni afferenti al capo semantico del suono, distinguendo quelli connotati positivamente e quelli connotati negativamente: che cosa puoi osservare?


3 Quale funzione hanno le onomatopee presenti nel testo?


4 Quali elementi concorrono alla messa in evidenza della vitalità di ciascun elemento naturale?


5 Individua nel testo almeno un esempio delle seguenti figure retoriche:


a allitterazione;

b ossimoro;

c sinestesia;

d metonimia.

INTERPRETARE

6 In che modo e perché, a tuo parere, le campane sono umanizzate?


7 La poesia presenta una forte componente autobiografica. Quali riferimenti alla vita del poeta possono esservi colti?


8 La mia sera è uno dei componimenti in cui Pascoli più chiaramente mette in pratica gli enunciati teo­rici del Fanciullino. Motiva questa affermazione facendo opportuni riferimenti al testo.

Produrre

9 Scrivere per confrontare. Il tema della sera è un topos: su un motivo analogo si è soffermato Ugo Foscolo nel sonetto Alla sera. In un testo espositivo di circa 30 righe evidenzia analogie e differenze con La mia sera di Pascoli, prendendo in considerazione gli aspetti metrici, contenutistici e stilistici.

Vola alta parola - volume 5
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Il secondo Ottocento