T3 - Nebbia (Canti di Castelvecchio)

T3

Nebbia

da Canti di Castelvecchio

È un’invocazione alla nebbia, vista come elemento protettivo, capace di isolare il poeta dal dolore del suo passato personale e dalle tensioni del mondo circostante.


Metro Sestine di 4 novenari, intervallati dopo i primi 3 da un trisillabo, e chiuse da un senario.

Nascondi le cose lontane,

tu nebbia impalpabile e scialba,

tu fumo che ancora rampolli,

su l’alba,

5      da lampi notturni e da crolli

d’aeree frane!


Nascondi le cose lontane,

nascondimi quello ch’è morto!

Ch’io veda soltanto la siepe

10    dell’orto,

la mura ch’ha piene le crepe

di valeriane.


Nascondi le cose lontane:

le cose son ebbre di pianto!

15    Ch’io veda i due peschi, i due meli,

soltanto

che danno i soavi lor mieli

pel nero mio pane.


Nascondi le cose lontane

20    che vogliono ch’ami e che vada!

Ch’io veda là solo quel bianco

di strada,

che un giorno ho da fare tra stanco

don don di campane ...


25    Nascondi le cose lontane

nascondile, involale al volo

del cuore! Ch’io veda il cipresso

là, solo,

qui, solo quest’orto, cui presso

30    sonnecchia il mio cane.

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Dentro il TESTO

I contenuti tematici

Nascondi le cose lontane: il primo verso della lirica torna come una sorta di refrain, di ritornello all’inizio di ogni strofa. In esso l’aggettivo “lontano” ha una duplice declinazione semantica: il poeta invita la nebbia a nascondere le cose lontane nel tempo (alla prima e alla seconda strofa) e nello spazio (alla terza e alla quarta). Pascoli spera infatti che essa celi ai suoi occhi e alla sua mente il passato della fanciullezza (con gli eventi che – possiamo immaginare – gli ricordano la felicità distrutta dall’uccisione del padre: quello ch’è morto, v. 9), ma anche il mondo presente, con i richiami delle passioni e gli appelli all’azione (che vogliono ch’ami e che vada, v. 20). Egli invece vuole vedere soltanto le piccole cose che sono fisicamente attorno a sé: la siepe dell’orto e il muro di cinta della casa, gli alberi da frutto, la strada che conduce al camposanto (quel bianco di strada, vv. 21-22), simbolo della morte come il cipresso solitario (vv. 27-28), significativamente l’ultimo degli oggetti elencati.

Il desiderio di oblio si appaga dunque nel vagheggiamento di un mondo ristretto, conosciuto, rassicurante, vale a dire quel “nido” familiare che è l’unico luogo ritenuto sicuro e che equivale a un tempo sospeso, protetto sia dai dolorosi ricordi di ciò che è stato sia dagli angosciosi presagi di ciò che sarà. Definitivo coronamento di quella pace familiare a cui il poeta anela sarà la morte, attraverso la quale egli potrà ricongiungersi idealmente ai propri cari defunti e soprattutto essere liberato dalle memorie del passato e dalle ansietà del presente e del futuro.

Nella poesia pascoliana la nebbia è spesso presente. All’inizio (all’altezza cronologica di Myricae) essa viene introdotta in una chiave impressionistica, come semplice elemento naturalistico che contribuisce alla definizione, quasi bozzettistica, di un paesaggio (cfr. per esempio Arano,  T12, p. 494). Più avanti (nei Canti di Castelvecchio), invece, essa crea un’atmosfera irreale, percorsa da sinistre apparizioni, e offre un’immagine non pacificata della natura quale entità inquieta e allusiva. La nebbia assurge così a un equivalente metaforico della vita.

A proposito della nebbia (come, del resto, a proposito di altre presenze tipiche della poesia pascoliana, quali gli uccelli o le campane) si assiste, insomma, a un passaggio «dal naturalistico al simbolico» (Nava), che arricchisce i testi di più complesse valenze. Infatti nei Canti di Castelvecchio, la raccolta da cui è tratta questa lirica, la natura non è mai descritta in termini neutri e oggettivi, bensì è piegata a esprimere l’universo interiore del poeta, di cui diventa il corrispettivo analogico.

Nella biblioteca pascoliana di Castelvecchio figura un esemplare della Bhagavadgītā (in sanscrito “Il canto del Beato”) tradotto e commentato dal glottologo e indianista Michele Kerbaker (1835-1914), con il quale Pascoli fu peraltro in rapporto epistolare. Si tratta di un poema filosofico-religioso indiano (intercalato nel Mahābhārata) che rappresenta il testo sacro più diffuso fra milioni di Indiani che venerano in esso la parola divina di Viṣṇu. La parola suadente e illuminatrice del dio si fonda sull’inesistenza di ogni forma sensibile, sull’idea del dovere e sulla fede.

Nell’introduzione all’edizione di quel testo posseduta da Pascoli, Kerbaker accostava la metafisica brahmanica sia all’evoluzionismo di Darwin sia alla “filosofia negativa” di Schopenhauer e Leopardi. Esponendo i principi del brahmanesimo, scrive Kerbaker: «Saggio e beato quell’uomo, che pure in questa vita, sgombro l’animo da ogni inqueta passione, rinunciando ad ogni desiderio e speranza, si acqueta nel pensiero della sua emancipazione finale!». E più avanti: «Dalla conoscenza che ha l’uomo della vera natura dell’Essere e del fine dell’universo, è eccitato a svincolarsi dai legami dell’esistenza transitoria, ed a dimenticare tutte le cure e gli affetti che l’accompagnano. Di qui nasce la virtù dell’astensione od abnegazione di se stesso». Non possiamo escludere – anzi sembra probabile – che Pascoli, nel comporre una poesia come Nebbia, potesse avere presenti questi riferimenti filosofico-religiosi di provenienza orientale.

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Le scelte stilistiche

Il testo è articolato su pochi versi, nei quali ricorrono insistentemente alcune parole-chiave. Lontane (alla fine del primo verso di ogni strofa) è una di esse, come anche il verbo “nascondere” (all’inizio del primo verso di ogni strofa, poi ripetuto al v. 8, nascondimi, e al v. 26, nascondile), al quale si contrappone il verbo “vedere” (ch’io veda, ai vv. 9, 15, 21 e 27). Il poeta chiede infatti alla nebbia di operare – ai fini della percezione che egli ha della realtà – una severa selezione di oggetti e di presenze, nascondendone alcune (quelle lontane) e facendogliene vedere (quelle vicine). Spia lessicale di tale rigorosa cernita sono gli avverbi soltanto (vv. 9 e 16) e solo (vv. 21 e 29, mentre al v. 28 lo stesso vocabolo sembra essere aggettivo). Distanziatosi dalle cose più impegnative e dolorose (pensieri, ricordi, ambizioni, aspirazioni) il poeta rimane così solo con sé stesso, crogiolandosi in una compiaciuta voluttà di regressione al rassicurante “nido” costituito dalle presenze più care, dagli alberi del frutteto al fedele cane sonnacchioso.

Verso le COMPETENZE

COMPRENDERE

1 Qual è nel testo l’interlocutore del poeta?


2 Quale desiderio viene espresso da Pascoli?


3 Quando il poeta si troverà a percorrere la strada bianca al suono ritmato delle campane (vv. 21-24)?

ANALIZZARE

4 Individua lo schema delle rime.


5 Come possiamo descrivere la sintassi di questa poesia? Ti sembra che essa intervenga a interrompere il ritmo dei versi oppure che sia accordata ad esso? Motiva la tua risposta con opportuni riferimenti testuali e prova a ipotizzare una spiegazione di tale scelta da parte dell’autore.


6 Individua nel componimento tutti i riferimenti (anche di tipo simbolico) al motivo della morte.


7 Fumo (v. 3) per indicare la nebbia è

  • a un ossimoro.
  • b una metafora.
  • c una sineddoche.
  • d una similitudine.

INTERPRETARE

8 Qui la nebbia è vista da Pascoli come una presenza amica o nemica? Perché?


9 A tuo parere, che cosa rappresenta il placido sonnecchiare del cane (v. 30)?

Produrre

10 Scrivere per confrontare. Il verso 9 di questo componimento di Pascoli (Ch’io veda soltanto la siepe) non può non richiamare alla memoria del lettore la siepe dell’Infinito di Leopardi, anche per l’analoga disposizione interiore del poeta, propenso a rifiutare di estendere il proprio sguardo troppo lontano. Tuttavia tra le situazioni descritte dai due autori e tra i loro stati d’animo ci sono anche alcune differenze notevoli. Raffronta le due poesie in un testo di circa 30 righe.

Vola alta parola - volume 5
Vola alta parola - volume 5
Il secondo Ottocento