2 - Il «nido»

2 Il «nido»

Traumatizzato dai lutti familiari, inerme davanti al mistero della realtà e della morte, Pascoli tenta di trovare sicurezza, conforto e protezione dalle minacce del mondo esterno negli affetti familiari, negli ambienti e nelle atmosfere più intime e care. Le immagini più ricorrenti della sua poesia evidenziano non a caso una costante opposizione dentro-fuori: al primo elemento sono associate le sensazioni di calore, dolcezza, purezza e amore, al secondo quelle di freddo, dolore, paura e morte.

Il desiderio di un mondo semplice e senza violenza, legato ai valori contadini, lo porta a osservare con terrore la civiltà industriale e la società di massa urbanizzata: secondo Pascoli il progresso di stampo positivistico, invece che garantire sicurezza all’uomo, lo ha esposto a nuovi pericoli, rendendolo piccolo e smarrito. Guardando alle tensioni del tempo presente il poeta scrive «Non c’è più la tranquilla immobilità», e definisce la scienza «crudele e inopportuna», perché colpevole di aver attentato alle illusioni dei sogni, al piacevole inganno della fede (Pascoli non crede in Dio, ma non sa rinunciare alla sua immagine) e alla felice ingenuità degli uomini: «Oh! Tu sei fallita, o scienza: ed è bene: ma sii maledetta». L’unica possibilità per conservare la propria integrità e salvare l’innocenza consiste per lui nel regredire all’età dell’oro dell’infanzia, mitico tempo sereno, non ancora toccato dalle inquietudini della modernità e della vita adulta.

La fondamentale custode di questo piccolo “mondo-giardino” degli affetti è la madre: la sua immagine costituisce, nell’universo psichico e poetico di Pascoli, il nume rassicurante dei luoghi più protetti, del «nido», del camposanto. Il «nido» è il luogo della ricomposizione dell’unità familiare, lo spazio chiuso che permette il riparo dalla società brutale e inospitale; il camposanto («casa unica di mia gente e mia») rappresenta il recinto del culto dei morti, lì dove è possibile ripristinare, su un piano illusorio, l’intimo colloquio con ciò che nella realtà si è perduto per sempre. Di questa perdita Pascoli tenta di trovare disperatamente un risarcimento: se la morte significa distruzione della vita, della casa e degli affetti, il mito del «nido» nasce come un tentativo di opporsi alla loro fragilità e alla loro rovina.
Nessuno deve interferire in questo universo difensivo e primigenio, che il poeta-fanciullo cerca di rivivere e rendere eterno attraverso il canto. La madre stessa è quindi simbolo del «nido»: è il ventre, la culla, il focolare, la casa, l’elemento ▶ ctonio, la garante, cioè, del rapporto con la terra misteriosa, che governa la vita con i suoi cicli eterni. È la madre che simboleggia la felicità dell’infanzia, non ancora compromessa dalla conoscenza del male, e al tempo stesso la sopravvivenza degli unici vincoli possibili per l’uomo: quelli del sangue e della discendenza. Per questo, la madre costituisce una sorta di divinità-guida nella sfera degli affetti: la sua morte coincide con una perdita irreparabile e con un lutto che non può conoscere riparazione. La violazione del «nido» comporta dunque la scoperta di tutto ciò che di spaventoso e letale sta “fuori” di esso.
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La rievocazione della condizione protetta dell’infanzia cura il dolore e l’angoscia della vita vissuta tra gli adulti. «O mamma», scrive il poeta, «ma io voglio rimanere con te. Io non sono potuto crescere»: perduto il padre e privo della tutela genitoriale, il figlio Giovanni si sente un orfano condannato allo sradicamento. Grazie alla poesia può però viaggiare a ritroso e ritrovare nella memoria una luce pallida che lo conforta, che lo assiste e lo culla, rassicurandolo di fronte alle difficoltà dell’esistenza.

La situazione reale del poeta è infatti quella dell’incertezza, dello smarrimento, della paura; non a caso, come ha notato lo studioso Vito Bonito, nella poesia pascoliana troviamo tante voci inarticolate e tanti segni di una regressione all’infanzia degli esseri viventi: il vagito del neonato, il belato dell’agnello, il pigolio dell’uccellino.

Si tratta di suoni più che di parole, quasi di voci pre-verbali: tra una ninna nanna e una cantilena funebre, tra un canto che si apre alla vita (i «canti di culla» che troviamo nella poesia La mia sera) e uno che prepara la morte, una continua onomatopea (non a caso, la figura retorica più frequente nelle poesie pascoliane) accompagna il viaggio del poeta nei respiri, nei bisbigli, nei lamenti e nelle grida che si percepiscono nel cielo, nelle cose, nella natura prima che svaniscano nel nulla, perduti per sempre.

D’altronde il ricordo della lontana e intima felicità infantile non consola il poeta: l’impossibilità di concretizzarla nel presente, di riproporla cioè nella realtà (come Pascoli ha tentato di fare ricostruendo un “secondo” «nido» con le sorelle), aumenta il rimpianto di non poter più abitare in quel paradiso perduto. «Io voglio che tu mi pettini come una volta», scrive rivolgendosi alla madre; ma il desiderio è destinato a scontrarsi con la vanità di ogni speranza di ricongiungimento. L’incontro con il passato non può avvenire su questa terra, ma solo al di là dello spazio e del tempo, nell’immaginazione e soprattutto nel sogno, l’unica (sia pure falsa) realtà dove il colloquio con le anime e con i morti è ancora possibile.

T2

L’aquilone

da Primi poemetti

In questa poesia, pubblicata per la prima volta in rivista nel 1900 e poi compresa nella raccolta Primi poemetti (1904), l’autore ricorda un episodio vissuto quando era fanciullo presso il collegio degli Scolopi a Urbino, dove studiò dal 1862 al 1871. Al ricordo si mescola però una nota funebre: uno dei compagni di allora, infatti, non c’è più. Come testimoniano diversi documenti epistolari, Pascoli considerò sempre L’aquilone la più cara fra le sue poesie.


Metro Terzine dantesche di endecasillabi a rima incatenata: ABA BCB CDC ecc.

C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole,

anzi d’antico: io vivo altrove, e sento

3      che sono intorno nate le viole.


Son nate nella selva del convento

dei cappuccini, tra le morte foglie

6      che al ceppo delle quercie agita il vento.


Si respira una dolce aria che scioglie

le dure zolle, e visita le chiese

9      di campagna, ch’erbose hanno le soglie:


un’aria d’altro luogo e d’altro mese

e d’altra vita: un’aria celestina

12    che regga molte bianche ali sospese…


sì, gli aquiloni! È questa una mattina

che non c’è scuola. Siamo usciti a schiera

15    tra le siepi di rovo e d’albaspina.


Le siepi erano brulle, irte; ma c’era

d’autunno ancora qualche mazzo rosso

18    di bacche, e qualche fior di primavera


bianco; e sui rami nudi il pettirosso

saltava, e la lucertola il capino

21    mostrava tra le foglie aspre del fosso.


Or siamo fermi: abbiamo in faccia Urbino

ventoso: ognuno manda da una balza

24    la sua cometa per il ciel turchino.


Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza,

risale, prende il vento; ecco pian piano

27    tra un lungo dei fanciulli urlo s’inalza.


S’inalza; e ruba il filo dalla mano,

come un fiore che fugga su lo stelo

30    esile, e vada a rifiorir lontano.


S’inalza; e i piedi trepidi e l’anelo

petto del bimbo e l’avida pupilla

33    e il viso e il cuore, porta tutto in cielo.

Più su, più su: già come un punto brilla

lassù lassù… Ma ecco una ventata

36    di sbieco, ecco uno strillo alto… – Chi strilla?


Sono le voci della camerata

mia: le conosco tutte all’improvviso,

39    una dolce, una acuta, una velata…


A uno a uno tutti vi ravviso,

o miei compagni! e te, sì, che abbandoni

42    su l’omero il pallor muto del viso.


Sì: dissi sopra te l’orazïoni,

e piansi: eppur, felice te che al vento

45    non vedesti cader che gli aquiloni!


Tu eri tutto bianco, io mi rammento.

solo avevi del rosso nei ginocchi,

48    per quel nostro pregar sul pavimento.


Oh! te felice che chiudesti gli occhi

persuaso, stringendoti sul cuore

51    il più caro dei tuoi cari balocchi!


Oh! dolcemente, so ben io, si muore

la sua stringendo fanciullezza al petto,

54    come i candidi suoi pètali un fiore


ancora in boccia! O morto giovinetto,

anch’io presto verrò sotto le zolle

57    là dove dormi placido e soletto…


Meglio venirci ansante, roseo, molle

di sudor, come dopo una gioconda

60    corsa di gara per salire un colle!


Meglio venirci con la testa bionda,

che poi che fredda giacque sul guanciale,

63    ti pettinò co’ bei capelli a onda


tua madre… adagio, per non farti male.

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Dentro il TESTO

I contenuti tematici

Pascoli scrisse questa poesia nel 1899, quando si trovava a Messina. Il senso del cambio di stagione, dall’inverno alla primavera, lo riporta altrove (v. 2), un altrove sia spaziale sia temporale. Il poeta infatti ricorda Urbino, dove fanciullo, terminata la prima elementare, era stato mandato a studiare presso il collegio Raffaello. Per questo ciò che di nuovo (v. 1) egli ora percepisce nel sole (cioè nell’aria, nel clima, nell’atmosfera) è piuttosto qualcosa di antico (v. 2): la situazione, infatti, lo riporta al passato, a un altro luogo, a un altro mese, a un’altra vita (vv. 10-11).

Non si tratta però di un passato generico, bensì di un ricordo preciso, che era rimasto sepolto nella mente del poeta e che oggi è pronto a riaffiorare alla memoria. Pascoli rievoca una giornata specifica (È questa una mattina / che non c’è scuola, vv. 13-14), quando, vista la bella stagione, gli insegnanti avevano deciso di condurre gli studenti in un’escursione all’aperto, affinché essi potessero far volare i loro aquiloni. Questi ultimi si innalzano nel cielo azzurro, divertendo ed eccitando i ragazzi, quando una ventata / di sbieco e uno strillo alto (vv. 35-36) interrompono la rievocazione. Possiamo immaginare – ma Pascoli non ce lo dice, perché si ferma prima – che il vento abbia fatto precipitare all’improvviso gli aquiloni o, meglio, un aquilone.

Subito dopo assistiamo infatti a un improvviso cambio di scena. Dagli spazi aperti si passa a uno spazio chiuso, quello della camerata del collegio, in cui il poeta rivede, riconoscendoli ad uno a uno, i compagni di allora. Lo sguardo si posa in particolare su un ragazzo pallido e silenzioso, con la testa mollemente piegata su una spalla: ragazzo malato, che dopo poco muore. La terribile circostanza viene però rievocata in maniera indiretta, attraverso una sorta di reticenza: dissi sopra te l’orazïoni (v. 43). Eppure, ora che il poeta è un uomo maturo (quando scrive questa poesia ha quarantaquattro anni) ed ha quindi avuto esperienza della vita, è portato a ritenere che la sorte toccata al suo antico compagno di collegio sia stata tutt’altro che negativa.

Felice te che al vento / non vedesti cader che gli aquiloni (vv. 44-45): l’adolescente morto ha visto cadere soltanto gli aquiloni, non anche i sogni della giovinezza, come è capitato invece a chi è progredito nel cammino dell’esistenza. È il motivo leopardiano delle illusioni, destinate a infrangersi con il raggiungimento dell’età adulta (si ricordi, per esempio, A Silvia), ma in questo caso il motivo della morte non assume alcun carattere tragico. Al contrario, il momento del trapasso è rappresentato come un momento sereno, privo di dolore, una sorta di privilegio che risparmia dalla parte più amara della vita e ricongiunge con il nido materno: la rievocazione della madre che pettina dolcemente i capelli del figlio defunto, come se fosse ancora vivo, è un’immagine di grande delicatezza che simboleggia la felice regressione dell’io all’infanzia e al contatto con un corpo che riscalda e protegge.

Le scelte stilistiche

L’efficacia rappresentativa di questa poesia pascoliana si gioca tutta su un abile intersecarsi di immagini che richiamano alternativamente la vita e la morte. Potremmo suddividere idealmente il testo in tre parti: il sentore del rinnovarsi della vita in una natura non più autunnale ma già primaverile (vv. 1-12); la rievocazione del volo degli aquiloni ai tempi del collegio a Urbino (vv. 13-36); il ricordo del compagno malato e della sua morte, con la conseguente riflessione sulla fortuna di morire giovani rispetto alla condizione di affanno di chi conosce maturità e vecchiaia (vv. 37-64).

Tuttavia, già nelle prime due parti non mancano velati riferimenti al motivo funebre. Al v. 5 le foglie sono morte e più avanti, al v. 21, aspre, cioè secche: immagini, dunque, opposte a quelle di vita. La similitudine, ai vv. 29-30, per cui l’aquilone è paragonato a un fiore che fugga su lo stelo / esile, e vada a rifiorir lontano viene ripresa nel periodo ai vv. 52-55 a proposito del compagno morto: Oh! dolcemente, so ben io, si muore / la sua stringendo fanciullezza al petto, / come i candidi suoi pètali un fiore / ancora in boccia! In tal modo essa svela da subito il proprio valore simbolico basato su un intreccio di fragilità, morte e rinascita (le stesse viole sono nate al riparo costituito dalle foglie secche: Son nate [...] / tra le morte foglie, vv. 4-5).

Al v. 27 l’effetto onomatopeico dell’espressione un lungo dei fanciulli urlo – «tre parole con l’accento sulla u, a rendere il vario e prolungato grido dei fanciulli» (Pietrobono) – introduce una nota di allarme, come la ventata / di sbieco ai vv. 35-36 inserisce un elemento di violenza che interrompe la spensieratezza dei giochi infantili. Il bianco degli aquiloni (molte bianche ali sospese, v. 12) e dei fiori primaverili (qualche fior di primavera / bianco, vv. 18-19, dove la nota cromatica viene evidenziata dal chiasmo) non fa che anticipare il pallore della malattia e poi della morte del compagno prematuramente scomparso (il pallor muto del viso, v. 42; Tu eri tutto bianco, v. 46). Allo stesso modo il contrasto cromatico rosso/bianco delle siepi (qualche mazzo rosso / di bacche, vv. 17-18, seguito dal già citato bianco dei fiori primaverili) prelude, in chiasmo, all’opposizione bianco/rosso nel corpo del fanciullo malato (Tu eri tutto bianco [...] / solo avevi del rosso nei ginocchi, vv. 46-47), rappresentato in una maniera che sembra rimandare alla tradizionale iconografia del Cristo crocifisso. Alla fine si capisce così come l’improvviso precipitare dell’aquilone a cui alludono i versi 35-36 annunci, per analogia, la morte del povero giovane.

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Il componimento presenta un continuo andirivieni tra presente e passato, un movimento incessante sottolineato dall’oscillazione dei tempi verbali. Se fino al v. 15 sembra prevalere il presente, al v. 16 (c’era) si assiste a un cambiamento improvviso, confermato dalle forme verbali successive (saltava, v. 20; mostrava, v. 22). Al v. 21 (Or siamo fermi) si torna di nuovo al presente per poi riandare, al v. 43 (dissi), ancora al passato, e così via. In tal modo l’autore riesce a rendere molto efficacemente il sovrapporsi nella coscienza del soggetto dei diversi piani temporali e la loro compresenza.

In ciò si manifesta la modernità pascoliana, che sembra perfettamente accordata alle più recenti teorie filosofico-scientifiche, dalla psicanalisi del medico austriaco Sigmund Freud all’Intuizionismo del filosofo francese Henry Bergson. Notiamo en passant che quest’ultimo pubblicava proprio nel 1899 (lo stesso anno in cui Pascoli scrisse questa poesia) il Saggio sui dati immediati della coscienza, nel quale, distaccandosi dal Positivismo, rilevò come l’idea di tempo non ammetta solo una caratterizzazione fisico-matematica: la scienza spazializza il tempo riducendolo a successione di intervalli, ma non ne coglie l’essenza, che è la durata del flusso continuo degli stati di coscienza. Un concetto che Pascoli (al di là del fatto che conoscesse o meno gli scritti di Bergson) sembra intuire e mettere in atto nella costruzione di questo suo testo.

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Verso le COMPETENZE

COMPRENDERE

1 Riassumi il contenuto della poesia in circa 5 righe.


2 Perché le ginocchia del bambino malato erano rosse?


3 Perché il fanciullo che non c’è più viene considerato felice?

ANALIZZARE

4 Individua le similitudini. A quale repertorio attingono?


5 Descrivi l’andamento sintattico prevalente: ci sono enjambement e/o iperbati?


6 Quale strategia sintattica adotta il poeta ai vv. 25-26 per riprodurre i movimenti dell’aquilone?


7 Quale figura retorica osservi invece ai vv. 31-33? Quale effetto ottiene il suo utilizzo?


8 Al v. 27 un lungo dei fanciulli urlo è

  • a un chiasmo.
  • b un iperbato.
  • c un’allegoria.
  • d una metafora.


9 La poesia è ricca di notazioni cromatiche. Individuale e spiega la loro funzione.


10 Descrivi le scelte lessicali operate dal poeta nell’ambito naturalistico.

INTERPRETARE

11 Spiega il paragone condotto da Pascoli tra il fiore e la fanciullezza.


12 Perché il poeta al v. 52 dice so ben io?


13 Da quanto puoi capire dalla lettura di questo testo, ti sembra che Pascoli credesse in un’altra vita dopo la morte? Perché?

COMPETENZE LINGUISTICHE

14 Una delle caratteristiche tipiche della poesia pascoliana è la grande attenzione ai colori e alle loro sfumature. Forniamo di seguito un elenco di termini che indicano proprio diverse tonalità: associale al colore corretto.


cinabro  ardesia  ceruleo  ultramarino  cenere  vermiglio  acquamarina  piombo  scarlatto  citrino  glauco  porpora  fumo  carminio  ciano  bandiera turchese  perla


 rosso

 

blu

 

verde

 

grigio

 

Produrre

15 Scrivere per esporre. La poesia assegna un ruolo importante alle sensazioni uditive. Dopo aver individuato nel testo i riferimenti a tale ambito semantico, spiega in circa 20 righe quale ruolo hanno i suoni e i rumori nel discorso lirico pascoliano.


16 Scrivere per confrontare. Abbiamo accennato nella nostra analisi a un accostamento di questa poesia pascoliana a un celebre canto leopardiano quale è A Silvia. Conduci un più organico confronto tra i due testi, evidenziando analogie e differenze, in circa 40 righe.


17 Scrivere per raccontare. Questa lirica di Pascoli è imperniata sul ricordo di un episodio dell’infanzia e sulle emozioni a esso collegate. Rievoca un fatto della tua fanciullezza che abbia modificato la tua percezione della vita e della realtà in un testo narrativo di circa 40 righe.

Vola alta parola - volume 5
Vola alta parola - volume 5
Il secondo Ottocento