T1 - L’eterno fanciullo che è in noi (Il fanciullino)

T1

L’eterno fanciullo che è in noi

Il fanciullino, I; III; X-XI; XIV

Estrapoliamo alcuni passi significativi dal più importante saggio di poetica pascoliano. L’autore esprime qui la propria concezione della poesia, che corrisponde a una sorta di stato infantile permanente, grazie al quale è ancora possibile, anche quando si è adulti, guardare al mondo con ingenuità e meraviglia.

I.

È dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi,1 come credeva Cebes Tebano2

che primo in sé lo scoperse, ma lagrime ancora3 e tripudi4 suoi. Quando la nostra

età è tuttavia tenera,5 egli confonde la sua voce con la nostra, e dei due fanciulli6

che ruzzano7 e contendono tra loro, e, insieme sempre, temono sperano godono

5      piangono, si sente un palpito solo, uno strillare e un guaire8 solo. Ma quindi9 noi

cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare,

ed egli vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia;10 noi ingrossiamo e arrugginiamo11

la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo12 squillo come di

campanello. Il quale tintinnio segreto noi non udiamo distinto nell’età giovanile

10    forse così come nella più matura, perché in quella occupati a litigare e perorare

la causa della nostra vita,13 meno badiamo a quell’angolo d’anima d’onde14 esso

risuona. E anche, egli, l’invisibile fanciullo, si pèrita15 vicino al giovane più che accanto

all’uomo fatto e al vecchio, ché più dissimile a sé vede quello che questi.16 Il

giovane in vero di rado e fuggevolmente si trattiene col fanciullo; ché ne sdegna la

15    conversazione, come chi si vergogni d’un passato ancor troppo recente. Ma l’uomo

riposato17 ama parlare con lui e udirne il chiacchiericcio e rispondergli a tono e

grave;18 e l’armonia di quelle voci è assai dolce ad ascoltare, come d’un usignuolo

che gorgheggi presso un ruscello che mormora. […]

III.

Ma è veramente in tutti il fanciullo musico? […] In alcuni non pare che egli sia;

20    alcuni non credono che sia in loro; e forse è apparenza e credenza falsa. Forse gli

uomini aspettano da lui chi sa quali mirabili dimostrazioni e operazioni; e perché

non le vedono, o in altri o in sé, giudicano che egli non ci sia. Ma i segni della sua

presenza e gli atti della sua vita sono semplici e umili. Egli è quello, dunque, che

ha paura al buio, perché al buio vede o crede di vedere; quello che alla luce sogna o

25    sembra sognare, ricordando cose non vedute mai; quello che parla alle bestie, agli

alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle:19 che popola l’ombra di fantasmi e il cielo di

dei. Egli è quello che piange e ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sen-

si e alla nostra ragione. Egli è quello che nella morte degli esseri amati esce a dire

quel particolare puerile che ci fa sciogliere in lacrime, e ci salva.20 Egli è quello che

30    nella gioia pazza pronunzia, senza pensarci, la parola grave che ci frena. Egli rende

tollerabile la felicità e la sventura, temperandole d’amaro e di dolce,21 e facendone

due cose ugualmente soavi al ricordo. Egli fa umano l’amore, perché accarezza esso

come sorella (oh! Il bisbiglio dei due fanciulli tra un bramire di belve), accarezza

e consola la bambina che è nella donna.22 Egli nell’interno dell’uomo serio sta

35    ad ascoltare, ammirando, le fiabe e le leggende, e in quello dell’uomo pacifico fa

echeggiare stridule fanfare di trombette e di pive,23 e in un cantuccio dell’anima di

chi più non crede, vapora24 d’incenso l’altarino che il bimbo ha ancora conservato

da allora. Egli ci fa perdere il tempo, quando noi andiamo per i fatti nostri, ché ora

vuol vedere la cinciallegra che canta, ora vuol cogliere il fiore che odora, ora vuol

40    toccare la selce25 che riluce.

E ciarla intanto, senza chetarsi mai; e, senza lui, non solo non vedremmo tante

cose a cui non badiamo per solito, ma non potremmo nemmeno pensarle e ridirle,

perché egli è l’Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente.26 Egli scopre

nelle cose le somiglianze e relazioni più ingegnose.27 Egli adatta il nome della

45    cosa più grande alla più piccola, e al contrario. E a ciò lo spinge meglio stupore

che ignoranza,28 e curiosità meglio29 che loquacità: impicciolisce per poter vedere,

ingrandisce per poter ammirare. Né il suo linguaggio è imperfetto come di chi non

dica la cosa se non a mezzo, ma prodigo anzi, come di chi due pensieri dia per

una parola.30 E a ogni modo dà un segno, un suono, un colore, a cui riconoscere

50    sempre ciò che vide una volta. […]

X.

Così il poeta vero, senza farlo apposta e senza addarsene,31 portando, per dirla con

Dante, il lume dietro, anzi no, dentro, dentro la cara anima portando lo splendore

e ardore della lampada che è la poesia; è, come si dice oggi, socialista, o come si

avrebbe a dire,32 umano. Così la poesia, non ad altro intonata che a poesia, è quella

55    che migliora e rigenera l’umanità, escludendone, non di proposito il male, ma

naturalmente l’impoetico. Ora si trova a mano a mano che impoetico è ciò che la

morale riconosce cattivo e ciò che l’estetica proclama brutto. Ma di ciò che è cattivo

e brutto non giudica, nel nostro caso, il barbato33 filosofo. È il fanciullo interiore

che ne ha schifo. […]

XI.

60    Il poeta, se è e quando è veramente poeta, cioè tale che significhi solo ciò che il

fanciullo detta dentro, riesce perciò ispiratore di buoni e civili costumi, d’amor

patrio e familiare e umano. […]

Ma il poeta non deve farlo apposta.

Il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non istorico, non

65    maestro, non tribuno o demagogo,34 non uomo di stato o di corte. E nemmeno è,

sia con pace del Maestro, un artiere che foggi spada e scudi e vomeri;35 e nemmeno,

con pace di tanti altri, un artista che nielli36 e ceselli l’oro che altri gli porga. A

costituire il poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visione, che il

modo col quale agli altri trasmette l’uno e l’altra. Egli, anzi, quando li trasmette,

70    pur essendo in cospetto d’un pubblico, parla piuttosto tra sé, che a quello. Del

pubblico, non pare che si accorga. Parla forte (ma non tanto!) più per udir meglio

esso, che per farsi intendere da altrui. […]

Ora il poeta sarà invece un autore di provvidenze37 civili e sociali?

Senza accorgersene, se mai.

75    Si trova esso tra la folla; e vede passar le bandiere e sonar le trombe. Getta la sua

parola, la quale tutti gli altri, appena esso l’ha pronunziata, sentono che è quella

che avrebbero pronunziata loro.

Si trova ancora tra la folla: vede buttare in istrada le masserizie38 di una famiglia

povera. Ed esso dice la parola, che si trova subito piena delle lagrime di tutti.

80    Il poeta è colui che esprime la parola che tutti avevano sulle labbra e che nessuno

avrebbe detta. Ma non è lui che sale su una sedia o su un tavolo, ad arringare.

Egli non trascina, ma è trascinato; non persuade, ma è persuaso. […]

XIV.

[…] La poesia consiste nella visione d’un particolare inavvertito, fuori e dentro di noi.

Guardate i ragazzi quando si trastullano seri seri. Voi vedete che hanno sempre

85    alle mani cose trovate per terra, nella loro via, che interessano soltanto loro e che

perciò sol essi sembrano vedere: chioccioline, ossiccioli, sassetti. Il poeta fa il medesimo.

Ma come chiamare questi lapilli ideali, questi cervi volanti della sua anima?

Il nome loro non è fatto, o non è divulgato, o non è comune a tutta la nazione

o a tutte le classi del popolo. Pensate ai fiori e agli uccelli, che sono de’ fanciulli

90    la gioia più grande e consueta: che nome hanno? S’ha sempre a dire uccelli, sì di

quelli che fanno tottavì e sì di quelli che fanno crocro? Basta dir fiori o fioretti, e

aggiungere, magari, vermigli e gialli, e non far distinzione tra un greppo39 coperto

di margherite e un prato gremito di crochi?

Ora se vi provate a dire il nome proprio loro, ecco che il nome di Linneo40 non

95    va, per cento ragioni, e il nome popolare varia, quando c’è, da regione a regione,

anzi da contado a contado. Se il popolo italiano badasse a queste tali cose, fiori,

piante, uccelli, insetti, rettili, che formano per gran parte la poesia della campagna,

il nome che esse hanno in una terra, avrebbe finito per prevalere su quello dominante

in altre. Ma gl’italiani abbarbagliati per lo più dallo sfolgorio dell’elmo di

100 Scipio,41 non sogliono seguire i tremolii cangianti delle libellule.

 >> pagina 440

Dentro il TESTO

I contenuti tematici

La maggior parte degli uomini, corrotti dall’esperienza e resi inautentici dalle convenzioni sociali, smarrisce la dimensione infantile, che permetteva loro, da bambini, di provare intense emozioni e porsi in un’affascinante e misteriosa relazione nei confronti delle cose e della natura. Recuperare questo atteggiamento spontaneo è un’impresa ardua, poiché guardare al mondo con meraviglia è possibile grazie a un processo che non coinvolge la ragione e la cultura, ma tocca le zone più recondite della nostra coscienza, quei sentimenti nascosti, al di fuori del tempo e della Storia, che ereditiamo al momento stesso della nascita.

Il poeta ha il privilegio di restare bambino, attingendo alla voce della propria interiorità: egli possiede i sentimenti di un fanciullo, grazie ai quali riesce a tradurre le sue visioni in parole immediate, senza il filtro del pensiero, ma solo attraverso la propria vista primigenia, che gli consente di cogliere lo splendore dell’essere e le somiglianze e le relazioni più ingegnose (r. 44) tra le cose (le correspondances di Baudelaire, p. 413). Nel sottolineare questo aspetto è evidente la negazione pascoliana del Positivismo: la poesia autentica rifiuta la lettura materialistica del reale per offrirne una più spontanea e ingenua.

Il poeta infatti popola l’ombra di fantasmi e il cielo di dei (rr. 26-27): ha dunque una visione prescientifica e prelogica della realtà, identificandosi in una sorta di uomo primitivo felice e innocente; in questo aspetto è lecito cogliere l’influenza del filosofo Giambattista Vico (1668-1744), secondo il quale l’umanità animalesca e primitiva era per natura felice e incline alla fantasia. Il suo scopo – ma è uno scopo, per così dire, istintivo e non programmatico – è pertanto quello di rendere le cose nella loro essenza più segreta, strappandole alla finzione e all’abitudine, e così recuperarne la freschezza e il sapore originario.

In tal modo, scoprendo i particolari reconditi della realtà, il poeta può comunicare agli uomini questa capacità che essi hanno perduto, ridestando in loro il «fanciullino» sommerso dalla civiltà. Attenzione, però: egli non deve proporsi contenuti morali, civili, ideo­logici o religiosi, che spettano non a lui, ma agli oratori, ai filosofi, agli storici, ai maestri, ai tribuni, ai demagoghi. Il poeta è tale che significhi solo ciò che il fanciullo detta dentro (rr. 60-61), come accade a Dante quando sostiene la propria istintiva fedeltà all’amore («I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando», Purgatorio, XXIV, 52-54).

Nonostante il poeta-fanciullo sia dotato di una disposizione a lasciarsi incantare dalla realtà e a coglierne i lineamenti più nascosti, egli non si atteggerà però mai a profeta e a dispensatore di verità assolute. Il compito morale e pubblico della poesia non risponde infatti ad alcun programma ma è connaturato all’essenza stessa dell’opera d’arte: in tal modo il poeta vero, senza farlo apposta, potrà dirsi socialista o umano (rr. 51, 53, 54), facendo coincidere dunque la voce del «fanciullino» che risuona dentro di lui con quella collettiva, ispiratrice di pace e solidarietà.

La polemica con Carducci è scoperta: alla visione del letterato come artiere che foggi spada e scudi e vomeri (r. 66) per difendere e divulgare un ideale magniloquente di poesia impegnata, civile e patriottica, Pascoli contrappone l’immagine dell’artista puro, che riac­quista il senso primitivo delle cose, semplificandole e rifiutando ogni ambizione oratoria per dare un nome a particolari a prima vista umili, trascurati dalla sensibilità comune. È un ideale, questo, non facile da trasmettere all’interno della cultura italiana, abituata alla declamazione e più incline ad ammirare il linguaggio retorico (esemplificato dall’elmo di Scipio, rr. 99-100, di memoria risorgimentale) che non l’immediatezza dei suoni e dei colori della natura (i tremolii cangianti delle libellule, r. 100).

Verso le COMPETENZE

Comprendere

1 Qual è la funzione della poesia a giudizio di Pascoli?


2 Per quali ragioni gli uomini spesso non avvertono dentro di sé la presenza del «fanciullino»?

Analizzare

3 Sottolinea nel testo i diminutivi e i vezzeggiativi e spiega la ragione della loro frequenza.


4 Da un punto di vista formale, il terzo capitolo espone i concetti secondo uno schema a elenco. Una figura retorica, in particolare, dà al brano l’aspetto di un manifesto, in cui vengono indicati i caratteri tipici del «fanciullino». Qual è?

Interpretare

5 Come si può spiegare l’accostamento del poeta-fanciullo a Orfeo?

Produrre

6 Scrivere per confrontare. Alcuni critici hanno messo in relazione la poetica del «fanciullino» con quella di Giacomo Leopardi (autore, del resto, assai amato da Pascoli), secondo il quale gli antichi potevano godere rispetto ai moderni di un rapporto più diretto e privilegiato con la natura e con la poesia. Approfondisci la questione in un testo di circa 30 righe.


7 Scrivere per esporre. Anche Pascoli, sia pure in forme assai diverse rispetto a Carducci, non rinuncia ad attribuire alla poesia una funzione civile. Dove ritrovi questo aspetto tra gli enunciati teorici del Fanciullino? In che modo esso viene qui declinato? Sviluppa il tema in un testo espositivo di circa 20 righe.

Dibattito in classe

8 L’idea che i bambini abbiano la capacità di percepire in modo più immediato e intenso ciò che ci circonda è piuttosto diffusa, anche ai giorni nostri: che cosa ne pensi? Discutine con i compagni.

Vola alta parola - volume 5
Vola alta parola - volume 5
Il secondo Ottocento