Le opere

Le opere

Le principali raccolte poetiche

L’ordine con il quale presentiamo le diverse tappe della produzione poetica pascoliana si basa sulle date di uscita delle prime edizioni delle singole raccolte. Va però detto che le opere maggiori sono per l’autore dei contenitori sempre aperti, pronti ad accrescersi nel tempo in successive nuove edizioni rimaneggiate. Non si può dunque parlare di uno sviluppo del suo sistema poetico, dal momento che le diverse raccolte – pur avendo ciascuna specifiche peculiarità e una propria omogeneità formale – rispondono tutte a un’unica ispirazione, a un’unica poetica, e possono essere lette come un insieme coerente e organico.

Myricae

La prima raccolta pascoliana, edita nel 1891 ma destinata a una continua rielaborazione negli anni successivi, presenta temi e paesaggi quotidiani, particolari impercettibili e apparentemente trascurabili della realtà, che l’occhio del poeta coglie però in una luce diversa, carica di segrete suggestioni. A quest’opera è riservata la seconda parte dell’Unità ( p. 479).

Poemetti

Pubblicati in prima edizione nel 1897, con l’aggiunta successiva di nuovi componimenti, i Poemetti saranno suddivisi dall’autore in Primi poemetti (1904) e Nuovi poemetti (1909).

Rispetto a Myricae, in questa raccolta domina un’intenzione più narrativa, evidenziata dall’adozione di strutture metriche più ampie, come la terzina dantesca, coerenti con lo scopo di innalzare toni e contenuti: non a caso il poeta colloca in epigrafe l’emistichio virgiliano Paulo maiora (“Cose un po’ più grandi”, cioè temi un po’ più alti). La maggiore altezza annunciata si accompagna alla celebrazione della natura, vista come un salvifico contraltare alla realtà brutale e artificiosa della civiltà industriale. In quest’ottica vanno dunque comprese l’esaltazione della piccola proprietà rurale e la mitizzazione della siepe come protezione, reale e metaforica, di un mondo-«nido» ancorato all’immutabile semplicità di azioni, riti e pratiche quotidiane, correlati ai cicli delle stagioni.
Sul piano espressivo, a tale trasfigurazione della vita semplice e umile corrisponde una ricerca lessicale puntigliosa, che mira a una pertinenza assoluta, ossia all’individuazione degli oggetti attraverso parole “vergini”, autentiche, nuove. Con una sperimentazione linguistica ardita, che attinge a disparati registri formali e ricorre a prestiti e contaminazioni, il poeta raggiunge soluzioni molto innovative, come l’innesto nel componimento Italy di termini dialettali (in particolare della Garfagnana) e di vocaboli di una “lingua speciale”, l’inglese italianizzato parlato dagli italiani emigrati in America.
Canti di Castelvecchio

Dedicata alla madre e pubblicata per la prima volta nel 1903 (in edizione definitiva nell’anno della morte dell’autore, 1912), la raccolta comprende 69 componimenti suddivisi in due sezioni, oltre che un’appendice (Diario autunnale). La scelta del titolo rinvia, secondo alcuni critici, a Leopardi (che aveva intitolato la sua raccolta di liriche Canti), di cui si recuperano i motivi della memoria e del rapporto uomo-natura come fonte di riflessione esistenziale.

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L’epigrafe virgiliana (Arbusta iuvant humilesque myricae, “Piacciono gli arbusti e le umili tamerici”), identica a quella di Myricae, rimanda a quella prima raccolta, con cui i Canti di Castelvecchio intrattengono un esplicito rapporto di continuità, sebbene ora le misure metriche siano spesso più ampie (qui Pascoli utilizza con maggiore frequenza l’endecasillabo) e il plurilinguismo pascoliano si arricchisca ulteriormente di aulicismi, tecnicismi e voci di ascendenza dialettale.

Da un punto di vista strutturale, i Canti sono ordinati secondo l’alternarsi delle stagioni. Ma il motivo naturalistico è per lo più esteriore, visto che il tema dominante è soprattutto autobiografico, con il continuo riaffiorare del ricordo dell’uccisione del padre (in particolare nelle liriche della sezione intitolata Ritorno a San Mauro). La dolente rievocazione del passato è accompagnata costantemente dallo sguardo malinconico che il poeta posa sull’ambiente e sul mondo esterno, segnato sempre dal mistero e dal cupo incombere della violenza e del male.

Poemi conviviali

Il titolo dell’opera, pubblicata nel 1904, richiama il nome della sede editoriale che aveva accolto i testi per la prima volta, la rivista romana “Convivio”, diretta dal poeta Adolfo De Bosis e ispirata, nella veste editoriale come nei contenuti, al gusto estetizzante che caratterizzava il Decadentismo italiano (non a caso, tra i principali collaboratori compare Gabriele d’Annunzio).

Pascoli sembra voler alzare il contenuto e la forma rispetto alle opere precedenti: non abbiamo più poemetti, ma poemi. E ancora una volta è un’epigrafe virgiliana ad annunciare una cifra stilistica e tematica diversa, più elevata: Non omnes arbusta iuvant, cioè “Non a tutti piacciono gli arbusti”, come a dire che dal mondo umile della campagna delle prime raccolte si passa ad argomenti più elevati, come era già accaduto nei Poemetti.

In effetti, i 20 testi della raccolta sono tutti incentrati su personaggi storici o mitologici del mondo antico, soprattutto greco (Omero, Alessandro Magno, Elena, Ulisse, Solone ecc.), anche se non mancano riferimenti a Roma e al cristianesimo. Su tali figure del passato Pascoli proietta la propria sensibilità, immergendole nel clima culturale del Decadentismo e della crisi del razionalismo positivistico. Non ci troviamo dunque di fronte a vincitori o a uomini saldi nei loro valori, ma al contrario ad antieroi consumati dal dubbio, tormentati, privi di certezze, minati dalla sfiducia verso sé stessi e verso l’uomo in generale.
L’antichità è per Pascoli un luogo su cui imprimere il segno del proprio sentire più profondo: lo sgomento di fronte alla realtà colma di pianto (l’amato Virgilio parlava di lacrimae rerum, le “lacrime delle cose”, ossia dell’ineluttabilità della sofferenza umana), le apparizioni inquietanti o consolatorie della natura, la vanità del desiderio di conoscere, la paura di vivere e di crescere, il rimpianto del grembo materno e degli affetti domestici, il mistero dell’esistenza; suggestioni rese ancora più acute e struggenti da un lessico raffinato e talvolta perfino estetizzante. Si tratta di un mondo perduto, sommerso dal tempo, ma che sembra vivere nella memoria delle nostre stesse attese e sofferenze: un «eterno che è sempre nuovo», come scrive il poeta, per intendere la misteriosa capacità del passato di rinnovarsi agli occhi e nei sentimenti di ogni individuo che nasce.

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La poesia civile

Negli ultimi anni di vita, Pascoli concepisce e in parte realizza ampi cicli poetici di ispirazione patriottica e nazionale. Questa produzione letteraria è influenzata dal fatto che egli si sente obbligato a raccogliere – contro la sua più genuina natura e con risultati, di conseguenza, piuttosto modesti – l’eredità di Giosuè Carducci, anche in qualità di poe­ta della Storia e della gloria nazionale.

In tale ambito possiamo ricordare le raccolte Odi e inni (1906), Le canzoni di re Enzio (pubblicate tra il 1908 e il 1909), i Poemi italici (1911, poi nel volume postumo Poemi italici e canzoni di re Enzio, 1914), gli incompiuti Poemi del Risorgimento (anch’essi pubblicati postumi, da Maria, nel 1913 insieme con l’Inno a Roma e l’Inno a Torino, composti in latino e dall’autore stesso tradotti in italiano).

La produzione poetica in lingua latina

Iniziata con il poemetto Veianius nel 1891 e raccolta postuma nel 1914 sotto il titolo Carmina, l’opera latina di Pascoli accompagna quella in lingua italiana, a cui l’accomunano immagini, tematiche e tecniche compositive.

Come ha scritto lo studioso Alfonso Traina, il latino pascoliano, «lungi dall’essere un prezioso giuoco umanistico», risponde «a una vitale esigenza dell’ispirazione» del poeta, che immette nella lingua, nei personaggi e negli ambienti dell’antica Roma repubblicana e imperiale e nella Storia cristiana (come nei Poemata Christiana) i suoi tipici stati d’animo, inquieti e inclini alla dimensione onirica. Da qui scaturisce l’identificazione con personaggi condannati o reietti: gladiatori, schiavi (per esempio in Thallusa), sconfitti dalla Storia (come il re numida Giugurta), con i quali Pascoli sente di condividere la dimensione del dolore e dell’ingiustizia.
Anche da un punto di vista espressivo, non vengono meno i caratteri peculiari dello stile e del simbolismo di Pascoli. Il suo è infatti un latino ben diverso da quello della tradizione classica: frequenti sono il ricorso a termini tecnici e specialistici e l’impiego di espressioni tardomedievali e perfino di calchi di vocaboli italiani. Ciò testimonia, ancora una volta, l’estrema libertà del poeta nel relazionarsi con le forme e le immagini del passato.

La produzione in prosa

All’opera poetica Pascoli affianca anche una produzione in prosa, riservandole uno dei tre tavoli del suo studio su cui aveva l’abitudine di lavorare (gli altri due erano destinati alla poesia in italiano e a quella in latino).

Oltre che per il saggio intitolato Il fanciullino – il testo a cui ha affidato la definizione della sua poetica ( p. 435) – edito in 20 brevi capitoli nel 1897 sulle colonne della rivista fiorentina “Il Marzocco”, Pascoli occupa il tavolo della prosa soprattutto per studiare e scrivere su Dante e, in misura minore, su Leopardi. Nei volumi Minerva oscura (1898), Sotto il velame (1900) e La mirabile visione (1906), analizza in particolare la funzione allegorica della figura di Beatrice nella Vita nuova e nella Commedia. Si tratta di studi critici per molti versi innovativi, pur con qualche forzatura, tesi a esplorare l’universo dantesco nei suoi significati simbolici e religiosi più reconditi.

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Alla prosa, infine, Pascoli affida anche i suoi sporadici interventi pubblici intorno a temi civili. Come abbiamo visto, egli non rinuncia a dare espressione in versi alla propria ideologia politica, nella quale si intrecciano un generico umanitarismo venato di buoni sentimenti e un amore per le glorie italiane del passato sconfinante nella celebrazione nazionalistica.

Tale componente della sua personalità intellettuale emerge in particolare nella presa di posizione imperialista espressa nell’orazione La grande proletaria si è mossa, del 1911. In questo testo, scritto in occasione della guerra libica, il poeta celebra l’impresa militare come un’opportunità per sanare la piaga epocale dell’emigrazione e garantire terre nuove da lavorare ai ceti più poveri. Non si tratta di un colonialismo infarcito, come quello dannunziano, di volontà di potenza e aggressive pulsioni bellicistiche; l’esaltazione pascoliana dell’umile Italia bisognosa di riscatto è motivata dalla convinzione che solo recuperando le nobili vestigia del passato si sarebbe potuta ripristinare la concordia tra le diverse classi sociali a difesa della “nazione contadina”.

La vita

 

Le opere

 Nasce a San Mauro di Romagna

1855

 

• Viene ucciso il padre Ruggero

1867

 

• Muoiono la sorella maggiore Margherita e la madre

1868

 

• Muore il fratello Luigi

1871

 

• Muore il fratello Giacomo

1876

 
 È arrestato per attività sovversive 1879  
Si laurea in Lettere
È nominato professore di Lettere latine e greche al liceo di Matera

1882

 
Si trasferisce al liceo di Massa

1884


  1891 Prima edizione di Myricae

 Si sposa la sorella Ida

 Insegna Grammatica greca e latina all’Università di Bologna

1895

 

• È ordinario di Letteratura latina all’Università di Messina

1897

Poemetti

Insegna Grammatica latina e greca all’Università di Pisa

1903

Canti di Castelvecchio

  1904 Primi poemetti
Poemi conviviali

 Succede a Giosuè Carducci sulla cattedra di Letteratura italiana all’Università di Bologna

1905


  1906 Odi e inni
  1908-1909

Nuovi poemetti

Le canzoni di re Enzio

  1911

La grande proletaria si è mossa

Poemi italici

Ultima edizione di Myricae

• Muore a Bologna

1912

Edizione definitiva dei Canti di Castelvecchio

Vola alta parola - volume 5
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Il secondo Ottocento