La vita
Gli anni giovanili e le prime esperienze letterarie
Giovanni Verga nasce a Catania nel 1840 da una famiglia che vanta antiche tradizioni nobiliari. Allievo di un poeta di gusto romantico, don Antonino Abate, sacerdote dagli ideali patriottici, ne subisce l’influsso, visibile nella scrittura dei primi romanzi, animati da fervore civile e risorgimentale. Dopo la spedizione garibaldina in Sicilia (1860), Verga, abbandonati gli studi di giurisprudenza, presta servizio, dal 1860 al 1864, nella Guardia nazionale, istituita sull’isola dopo l’Unità d’Italia per contrastare la resistenza delle ultime formazioni borboniche e reprimere i tentativi dei contadini di occupare i latifondi mettendo in pericolo l’ordine sociale.
Ansioso di immergersi nel cuore della vita culturale del paese, Verga nel 1872 si trasferisce a Milano, dove risiede per oltre un ventennio. Qui entra in contatto con gli ambienti della Scapigliatura, legge i grandi romanzieri del Naturalismo francese e nel frattempo conduce un’esistenza brillante, tra amicizie galanti e sodalizi intellettuali. «Milano è proprio bella», scrive nel 1874 a Capuana, «e credimi che qualche volta c’è proprio bisogno di una tenace volontà per resistere alle sue seduzioni e restare al lavoro. Ma queste seduzioni stesse sono eccitamento continuo al lavoro, sono l’aria respirabile perché viva la mente e il cuore».
Dopo la notorietà ottenuta grazie ai suoi romanzi sentimentali Eva (1873), Eros e Tigre reale (1875), Verga matura la conversione a una nuova poetica letteraria: l’adesione al Verismo si deve soprattutto alla conoscenza dei romanzi di Émile Zola, all’interesse per le condizioni socioeconomiche del Sud (nell’ambito della cosiddetta “questione meridionale”) e al legame con Capuana, che lo raggiunge a Milano.
La svolta verista e il ritorno in Sicilia
In questo periodo nascono i grandi capolavori verghiani. Dopo il primo racconto verista, Rosso Malpelo (1878), escono per l’editore Treves di Milano la raccolta di novelle Vita dei campi (1880) e il romanzo I Malavoglia (1881), primo capitolo di un Ciclo dei Vinti progettato in cinque volumi. L’accoglienza del pubblico è però fredda: «I Malavoglia», scrive l’autore a Capuana nell’aprile del 1881, «hanno fatto fiasco, fiasco pieno e completo». Ma l’insuccesso non lo porta comunque a ripensare la scelta letteraria compiuta: «Il peggio è che io non sono convinto del fiasco e che se dovessi tornare a scrivere quel libro lo farei come l’ho fatto». In effetti, anche negli anni successivi, Verga non abbandonerà la poetica verista, portando a termine nel 1883 la raccolta delle Novelle rusticane e, nel 1889, il romanzo Mastro-don Gesualdo; nel frattempo scrive per il teatro, e riscuote grandi consensi il dramma Cavalleria rusticana (1884), ispirato all’omonima novella, interpretato dalla regina delle scene italiane, Eleonora Duse.
il CARATTERE
Uno schivo seduttore
Nel 1881, in una lettera all’amico Luigi Capuana, Verga lo invita – anzi quasi lo supplica – a scrivere al suo posto una breve autobiografia richiestagli da un giornalista francese: «Tu mi conosci abbastanza per dire quello che può interessare la curiosità banale di questo genere, senza cascare nel ridicolo di farmi posare pel ritratto». Basterebbe questo aneddoto per confermare un consolidato luogo comune sull’autore dei Malavoglia: il suo temperamento schivo, ai limiti del patologico.
Il successo mondano
Ma le cose stanno davvero in questi termini? Il riservato Verga, che passa in scontroso isolamento gli ultimi anni della sua esistenza, lontano dai riflettori e dal pubblico, in realtà non è sempre stato così ritroso. Basta seguirne le tracce nel ventennio d’oro milanese, dove il suo volto olivastro dai lineamenti fini, i capelli neri ricciuti e l’ammiccante riservatezza nel dialogo ne fanno una figura affascinante nel mondo dei salotti.
La scelta della solitudine
Questo gran signore, di frequente oppresso dai debiti, è uno scapolo convinto. «Amo la mia libertà, la mia indipendenza assoluta e la mia dignità. Per amor di Dio non cambiate tutto questo in una catena che diverrebbe odiosa a entrambi», scrive a una delle sue amanti. Di fronte a qualsiasi proposta matrimoniale, Verga si ritira nella sua riservata solitudine. Più che la presenza di una moglie, gli stanno a cuore la propria libertà e la cura delle proprietà: i medesimi interessi di diversi personaggi delle sue novelle. Nonostante ciò, ovunque lo accompagna una fama di irresistibile dongiovanni. I suoi successi galanti non si contano e suscitano gelosie illustri come quella di Carducci, il quale sentendo da lui minacciata la propria relazione con una delle sue muse, Lidia (Carolina Cristofori Piva), definisce senza mezzi termini l’antagonista «falso cavaliere e in tutto imbecille uomo», «rifiuto isolano», «vigliacco ridicolo parvenu».
Vola alta parola - volume 5
Il secondo Ottocento