Alfieri maestro della scrittura autobiografica
Non manca, ancora oggi, nella programmazione dei teatri italiani, qualche rappresentazione delle tragedie di Alfieri: sono imprese rischiose visto che, per molti aspetti, i suoi capolavori appaiono lontani dal nostro gusto, caratterizzati come sono da un linguaggio classicheggiante che li rende difficili non solo sulla pagina, ma anche sulla scena. Il mito di Alfieri, lievitato durante l’Ottocento risorgimentale, resiste infatti ancora nel Novecento; la sua concezione dell’arte, libera e affrancata dai condizionamenti del potere, non ha smesso di affascinare gli scrittori italiani, in particolare quelli che hanno avvertito una personale inadeguatezza rispetto ai propri tempi.
Tale aspirazione si coglie in uno degli autori italiani del secolo scorso che maggiormente ha ricercato un costante e tormentato confronto con la propria interiorità: Cesare Pavese. Desideroso, al pari di Alfieri, di rinnovare la cultura italiana, aprendola a prospettive nuove, estraneo agli orientamenti artistici dominanti, ossessionato da un’ambizione inappagata di affermarsi ed emergere, Pavese ha espresso nella propria opera letteraria un profondo disagio esistenziale, un’inquietudine da perenne adolescente che insegue una maturità impossibile: la pagina scritta costituisce per lui l’unico miraggio di salvezza e redenzione a fronte di un’esistenza percepita come impraticabile.