Finestra sul CONTEMPORANEO - Alfieri & Cesare Pavese, Specchiarsi sulla pagina: amore o denigrazione di sé

Finestra sul CONTEMPORANEO

Alfieri & Cesare Pavese

Specchiarsi sulla pagina: amore o denigrazione di sé

Alfieri maestro della scrittura autobiografica

Non manca, ancora oggi, nella programmazione dei teatri italiani, qualche rappresentazione delle tragedie di Alfieri: sono imprese rischiose visto che, per molti aspetti, i suoi capolavori appaiono lontani dal nostro gusto, caratterizzati come sono da un linguaggio classicheggiante che li rende difficili non solo sulla pagina, ma anche sulla scena. Il mito di Alfieri, lievitato durante l’Ottocento risorgimentale, resiste infatti ancora nel Novecento; la sua concezione dell’arte, libera e affrancata dai condizionamenti del potere, non ha smesso di affascinare gli scrittori italiani, in particolare quelli che hanno avvertito una personale inadeguatezza rispetto ai propri tempi.

Tale aspirazione si coglie in uno degli autori italiani del secolo scorso che maggiormente ha ricercato un costante e tormentato confronto con la propria interiorità: Cesare Pavese. Desideroso, al pari di Alfieri, di rinnovare la cultura italiana, aprendola a prospettive nuove, estraneo agli orientamenti artistici dominanti, ossessionato da un’ambizione inappagata di affermarsi ed emergere, Pavese ha espresso nella propria opera letteraria un profondo disagio esistenziale, un’inquietudine da perenne adolescente che insegue una maturità impossibile: la pagina scritta costituisce per lui l’unico miraggio di salvezza e redenzione a fronte di un’esistenza percepita come impraticabile.

La vita breve e tragica di Cesare Pavese

Nato nel 1908 a Santo Stefano Belbo, nelle Langhe, in provincia di Cuneo, Pavese compie gli studi a Torino, dove risiedeva la famiglia, di estrazione piccolo-borghese. Frequenta il liceo classico “D’Azeglio” e qui conosce futuri intellettuali come Norberto Bobbio, Massimo Mila, Franco Antonicelli, uniti in sodalizio intorno alla figura di Augusto Monti, professore di orientamento antifascista, amico di personalità avverse al regime mussoliniano come Gramsci e Gobetti. Laureatosi in Lettere nel 1930 con una tesi sul poeta americano ottocentesco Walt Whitman, Pavese intraprende una fitta attività di traduttore di autori in lingua inglese: particolarmente apprezzata è la sua versione di Moby Dick, celebre romanzo di Herman Melville. Nel 1934 inizia la collaborazione con la casa editrice fondata dall’amico Giulio Einaudi e dirige la rivista “La Cultura”, ma l’anno dopo viene arrestato per la sua vicinanza agli ambienti antifascisti torinesi.

In realtà Pavese è poco interessato alla politica, anzi è iscritto al Partito nazionale fascista e manifesta una certa simpatia per Mussolini. Tuttavia, la polizia del regime lo sorprende in possesso di alcune lettere affidategli da una militante comunista e viene pertanto condannato al confino in Calabria per otto mesi, tra il 1935 e il 1936. In questo periodo inizia la stesura di un diario che lo accompagnerà fino alle fine dei suoi giorni e scrive la raccolta poetica Lavorare stanca, che esce nel 1936: le liriche che la compongono sono caratterizzate da versi lunghi che, con una cadenza narrativa, esprimono l’amore dell’autore per la campagna, vista come un luogo d’origine e di salvezza, cellula di purezza adolescenziale da contrapporre al mondo della città, simbolo della solitudine e della corruzione della vita adulta.

Rientrato a Torino, Pavese intensifica la scrittura di racconti e viene assunto presso l’Einaudi; nel 1941 dà alle stampe il primo romanzo, Paesi tuoi, a cui segue, l’anno successivo, un altro romanzo, La spiaggia. Dopo aver lavorato per qualche mese a Roma, dove si era trasferita la sede dell’Einaudi, ritorna a Torino nel 1943, subito all’indomani della caduta di Mussolini. Dopo l’8 settembre, si rifugia nel Monferrato: qui si avvicina alla religione e approfondisce i suoi interessi per il mito. A guerra finita, prende la tessera del Partito comunista, ma senza convinzione: sente di essere inviso agli intellettuali che hanno partecipato alla Resistenza, mentre lui ha preferito rimanere nella “zona grigia” del disimpegno. Al conflitto vissuto da spettatore, in una solitudine sofferta, è dedicato il romanzo La casa in collina che esce nel 1948, insieme al romanzo breve Il carcere, sotto il titolo comune Prima che il gallo canti.

Chiari risvolti autobiografici si colgono anche nelle opere successive: i racconti della raccolta La bella estate (1949) sono incentrati sulla difficoltà nei rapporti tra i sessi; il romanzo Il diavolo sulle colline (1949) racconta l’esperienza di tre intellettuali che sperimentano la condizione, innocente e selvaggia, della campagna, e quella, seducente, mondana ma anche degenerante, della città; nel romanzo La luna e i falò (1950), probabilmente il capolavoro dell’autore, il protagonista e narratore evoca, in un gioco complesso di piani temporali, la propria infanzia vissuta tra le Langhe, dove ora è tornato dopo aver trascorso molti anni da emigrante in America.

Tuttavia, il successo letterario non rasserena Pavese, da sempre assediato da un logorante sentimento di inadeguatezza e da oscure pulsioni di morte. L’isolamento e le ultime delusioni amorose accentuano in lui la percezione di un’esistenza irrimediabilmente condannata allo scacco e del tempo trascorso inutilmente, svanito in un’infinità di fantasie irrealizzate. Nell’agosto del 1950 lo scrittore mette in pratica il gesto più volte rinviato, suicidandosi con il sonnifero nella camera di un albergo torinese. Il suo ultimo messaggio, lasciato ai posteri, recita così: «Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi».

 >> pagina 619
La scelta del diario

Difficile dire se allo spessore autobiografico di tutta l’opera di Pavese contribuisca – e se sì, in che misura – la suggestione delle letture alfieriane, da lui avidamente intraprese sin dagli anni liceali. Di sicuro, l’esigenza di scrivere di sé, sia attraverso il filtro romanzesco sia direttamente affidando la propria testimonianza alle pagine di un diario, scaturisce da un bisogno di meditazione e di intima confessione. Va tuttavia sottolineato che Pavese non sceglie di seguire in toto il modello dell’amato letterato astigiano: non opta infatti per la struttura compiuta e, in fondo, autocelebrativa dell’autobiografia, ma per la misura più confidenziale e immediata di una scrittura privata come quella, appunto, del diario.

Nella Vita Alfieri poté dar libero sfogo a quell’amor proprio dalle chiare venature narcisistiche che pervade tutta la sua opera letteraria: in un’epoca che pullulava di scrittori allo specchio (basti ricordare i Mémoires di Goldoni o le Confessioni di Rousseau), egli intendeva trasmettere a posteriori ai lettori l’immagine di un uomo dalla natura eccezionale. Ciò non significa, come abbiamo visto, che egli volesse monumentalizzarsi in un’opera di semplice propaganda di sé stesso, ma le disavventure e i difetti della propria indole che raccontò e descrisse sono comunque funzionali allo scopo della costruzione del personaggio. Anche quando insisteva nella perlustrazione della propria interiorità, lo faceva assegnando un valore emblematico alla propria esistenza e ponendosi al centro della scena, con il temperamento teatrale che era connaturato all’uomo così come allo scrittore Alfieri: «Il parlare – ammette nell’introduzione alla Vita –, e molto più lo scrivere di sé stesso, nasce senza alcun dubbio dal molto amor di sé stesso. […] Io perciò ingenuamente confesso, che allo stendere la mia propria vita inducevami [mi induceva], misto forse ad alcune altre ragioni, ma vie più gagliarda [molto più forte] d’ogni altra, l’amore di me medesimo».

 >> pagina 620 
Una scrittura contro di sé

Questa auto-fascinazione manca del tutto nelle pagine che Pavese stende dal 1935 al 1950, anno della sua morte, e che egli stesso intitola Il mestiere di vivere, in vista di un’eventuale pubblicazione futura. Fra le sue carte giovanili si trova, del resto, una breve nota, databile 1927, che contiene una vera e propria dichiarazione d’intenti, ovvero il desiderio di «legare insieme i frammenti della mia vita»: questa disposizione alla scrittura autobiografica, però, si traduce in realtà solo a partire dal confino in Calabria.

A differenza di Alfieri, Pavese scrive di sé per scrutarsi. O addirittura per punirsi: nato dal disprezzo provato per le proprie inadeguatezze, il suo diario appare, per usare le parole del critico Roberto Gigliucci, come «un monumento all’autodenigrazione». La sua autoanalisi è infatti spietata e funziona come una sorta di assillante sonda critica del proprio operato e delle proprie insoddisfazioni. Rovesciando l’archetipo del suo illustre corregionale, egli si serve di una scrittura contro di sé che non ammette indulgenze e suona anzi come autopersecutoria, oscillando tra sfoghi vittimistici e propositi volontaristici. Alcuni suoi pensieri dimostrano chiaramente tale atteggiamento; il primo che leggiamo, risalente al maggio del 1926, è addirittura precedente alla stesura del diario mentre i tre successivi sono della fine degli anni Trenta:

Perché temo tanto la penna e il tavolino? Eppure, e me lo debbo ficcar bene in

testa, se voglio riuscire grande debbo durare a comporre di mio e tradurre per almeno

sei ore al giorno. Il resto della giornata passando studiando o sui libri stampati

o sulla vita. E, se dopo sei o sette anni non avrò ancora concluso nulla, non l’avrò

5       ancora il diritto di serrarmi torvo nella delusione. Dovrò semplicemente raddoppiare

le ore di lavoro e finalmente confessarmi d’aver sbagliato mestiere.


13 giugno 1938

Che cosa c’è di più puro stile alfieriano che questa lettera?1 Che tutto il mio

contegno in questa storia? E tutti i rovelli, gli schianti, gli urli, ecc.? […]


10    4 novembre 1938

Siccome tutti gli stati passionali hanno un loro chimismo2 deterministico che

trasporta per gioco di causa-effetto a situazioni esasperanti subìte e contraddittorie

e fintamente create da noi, bisognerà opporre a ogni compiacenza passionale

una dura volontà di estirpamento – come un rullo compressore sull’erba – che

15    ignori ogni deviazione e si compiaccia di sé. Voluttà per voluttà è altrettanto ricca

questa quanto la dispersione, e molto più sana. Il piacere di spezzare ogni catena

deterministica di gioie od esasperazioni, per sé solo. […]


4 novembre 1938

Chi non ha avuto volontà dura, è il più deciso a conquistarsi questa potenza

20     perché sa quanto essa valga (=Alfieri).

 >> pagina 621 
Un titano mancato

Alle difficoltà dell’esistenza, ma anche a quelle legate al proprio lavoro di scrittore, Pavese cerca di reagire con plateale stoicismo. In particolare, nel primo appunto affiora in lui la forza di un impegno morale che ricorda quello assunto con sé stesso da Alfieri nel compiere tutti gli sforzi per diventare un importante autore tragico; un impegno sintetizzato nella celebre frase «volli, e volli sempre, e fortissimamente volli». Lo attanaglia il terrore di essere mediocre e lo affascina la tentazione del titanismo: lo scrittore insegue il desiderio di fare di sé un super-ego di suprema eticità civile, capace di superare i condizionamenti, sia interiori sia esteriori, per poter spezzare ogni catena deterministica di gioie od esasperazioni (rr. 16-17).

Ma è proprio l’incapacità di realizzare questa ambizione a procurargli frustrazioni e sconforto: Pavese ama Alfieri e tutti gli uomini energici e volitivi come lui tanto più quanto sa di non essere – effettivamente – come loro e di trovarsi perennemente dibattuto all’interno di una tensione dialettica, a metà tra impegno e disimpegno, individualismo e collettivismo, irrazionalità e razionalità, destino e libertà. Aspira ad essere considerato dal prossimo (dalle donne, in particolare, con le quali intrattiene sempre rapporti complicati e irrisolti) come un uomo gagliardo, nobile e generoso, ma si ritrova sempre prigioniero di un languore senza sbocco, vittima di un’eterna insoddisfazione: in molte lettere e nelle pagine del Mestiere di vivere sembra quasi che Pavese, al termine della consueta spietata auto-diagnosi, finisca per crogiolarsi nella propria inettitudine, nel proprio essere caratterialmente flaccido e smidollato, un inetto incapace di compiere azioni importanti.

Il resoconto di un fallimento esistenziale

Quello di Pavese è un esame di coscienza impietoso: anno dopo anno, la legge ineludibile della sofferenza lo ingabbia in una spirale senza altra via di fuga che non la soluzione estrema del suicidio, ultimo e coerente sigillo di un destino fallimentare. Queste altre note che presentiamo mostrano la sua necessità di fissare con la scrittura le fasi angosciose di un’inguaribile malattia dell’anima, che pare sfogarsi solo con una rabbiosa volontà di umiliarsi:

24 aprile 1936

L’autodistruttore è un tipo, insieme più disperato e utilitario. L’autodistruttore si

sforza di scoprire entro di sé ogni magagna, ogni viltà, e di favorire queste disposizioni

all’annullamento, ricercandole, inebriandosene, godendole. L’autod. è in definitiva

5       più sicuro di sé di ogni vincitore del passato; egli sa che il filo dell’attaccamento

all’indomani, al possibile, al prodigioso futuro, è un cavo più robusto – trattandosi

dell’ultimo strattone – che non so quale fede o integrità.

L’autodistr. è soprattutto un commediante e un padrone di sé. Egli non lascia

nessuna opportunità di sentirsi e di provarsi. È un ottimista. Spera ogni cosa dalla

10    vita, e si va accordando a rendere sotto le mani del caso futuro i suoni più acuti

o significativi.

L’autodistrutt. non può sopportare la solitudine.

Ma vive in un pericolo continuo; che lo sorprenda una smania di costruzione,

di sistemazione, un imperativo morale. Allora soffre senza remissione, e potrebbe

15    anche uccidersi.


15 gennaio 1938

Tu non sei nato olimpico e mai lo sarai: i tuoi sforzi sono inutili. Perché chi ha

ceduto una sola volta al tumulto, può sempre cedere un’altra. Problema d’ingegneria:

ogni ponte ha una portata di là dalla quale non regge. È questione di tempra.

20    La volontà è soltanto la tensione della propria tempra congenita. Non si può

accrescerla di un’oncia.

La tua salvezza – bel fioretto da offrirti a trent’anni – sta soltanto nella vigliaccheria,

nel ritirarsi nel guscio, nel non correre il rischio. Ma se il rischio ti cerca? E

quanto durerà il guscio?

25    Sappi quest’altra cosa: per tremende che siano state sinora le prove, sei fatto

in modo che domani saranno anche più gravi. A te succede che cresce soltanto,

con gli anni, la capacità di scatenarti, non quella di resistere. Perché il tuo guscio –

oggi lo vedi chiaro – è sempre andato assottigliandosi, persino materialmente. Sei

malato e disoccupato.

30    Come migliaia d’altri, del resto. «Neppur l’orgoglio di sentirmi solo»: eri un bel

pesce, e il peggio è che lo sei ancora. Sei mai stato altro che quel bambino?

30 ottobre 1940

II dolore non è affatto un privilegio, un segno di nobiltà, un ricordo di Dio. Il dolore

è una cosa bestiale e feroce, banale e gratuita, naturale come l’aria. È impalpabile,

35    sfugge a ogni presa e a ogni lotta; vive nel tempo, è la stessa cosa che il

tempo; se ha dei sussulti e degli urli, li ha soltanto per lasciar meglio indifeso chi

soffre, negli istanti che seguiranno, nei lunghi istanti in cui si riassapora lo strazio

passato e si aspetta il successivo. Questi sussulti non sono il dolore propriamente

detto, sono istanti di vitalità inventati dai nervi per far sentire la durata del dolore

40    vero, la durata tediosa, esasperante, infinita del tempo-dolore. Chi soffre è sempre

in stato d’attesa – attesa del sussulto e attesa del nuovo sussulto. Viene il momento

che si preferisce la crisi dell’urlo alla sua attesa. Viene il momento che si grida

senza necessità, pur di rompere la corrente del tempo, pur di sentire che accade

qualcosa, che la durata eterna del dolore bestiale si è un istante interrotta – sia pure

45    per intensificarsi.

Qualche volta viene il sospetto che la morte – l’inferno – consisterà ancora del

fluire di un dolore senza sussulti, senza voce, senza istanti, tutto tempo e tutto eternità,

incessante come il fluire del sangue in un corpo che non morirà più.


8 maggio 1950

50    È cominciata la cadenza del soffrire. Ogni sera, all’imbrunire, stretta al cuore

– fino a notte.


27 maggio 1950

Adesso, a modo mio, sono entrato nel gorgo: contemplo la mia impotenza,

me la sento nelle ossa, e mi sono impegnato nella responsabilità politica, che mi

55    schiaccia. La risposta è una sola – suicidio.


17 agosto 1950

È la prima volta che faccio il consuntivo di un anno non ancor finito.

Nel mio mestiere dunque sono re.

In dieci anni ho fatto tutto. Se penso alle esitazioni di allora.

60    Nella mia vita sono più disperato e perduto di allora. Che cosa ho messo insieme?

Niente. Ho ignorato per qualche anno le mie tare, ho vissuto come se non

esistessero. Sono stato stoico. Era eroismo? No, non ho fatto fatica. E poi, al primo

assalto dell’«inquieta angosciosa», sono ricaduto nella sabbia mobile. Da marzo mi

ci dibatto. Non importano i nomi. Sono altro che nomi di fortuna, nomi casuali – se

65    non quelli, altri? Resta che ora so qual è il mio più alto trionfo – e a questo trionfo

manca la carne, manca il sangue, manca la vita.

Non ho più nulla da desiderare su questa terra, tranne quella cosa che quindici

anni di fallimenti ormai escludono.

Questo il consuntivo dell’anno non finito, che non finirò.


70   18 agosto 1950

Tutto questo fa schifo.

Non parole. Un gesto. Non scriverò più.

 >> pagina 623 
Inadatto alla vita

Un mito personale assilla Pavese: l’aspirazione a una virilità che gli è preclusa. Egli si sente condannato o, meglio, predestinato a soffrire senza remissione (r. 14) come capita a una sorta di tipo antropologico, quello dell’autodistruttore (r. 1), al quale sente di appartenere e che arriva addirittura a teorizzare in un ritratto-autoritratto di lucidità glaciale. La resurrezione della volontà costituisce per lui una chimera: la morte si configura come l’unica reazione all’impotenza che si crede capace di realizzare.

L’operazione di smantellamento di sé è capillare, come possiamo vedere nel pensiero scritto il 15 gennaio 1938: si sente inferiore, vigliacco, oggi come ieri e come domani. Si tratta di una nuda consapevolezza che lo porta a diffidare di ogni posa letteraria. L’antico modello alfieriano è lontano quando Pavese dichiara che il dolore non è affatto un privilegio (r. 33): soffrire non regala alcun compiacimento, anzi è di per sé qualcosa di ignobile, un’esperienza bestiale e feroce (r. 34).

Nessuna soluzione oltre al suicidio

Pavese percepisce questa condizione come una colpa. Gli appunti scritti nel 1950, poco prima di suicidarsi, danno a noi lettori la sensazione dell’ultima fiamma della candela, ormai inesorabilmente vicina a spegnersi: la discesa verso il gorgo della morte è scandita da messaggi sempre più brevi, fissati nella paratassi perentoria della sentenza. Prossimo al punto più basso di questa discesa agli inferi, lo scrittore sente il bisogno di tracciare un bilancio, il consuntivo (r. 57) di un anno (ma anche di una vita) che non terminerà. La morale che ne scaturisce è la necessità, fino ad allora rinviata, del gesto definitivo, grazie al quale – come gli eroi delle tragedie di Alfieri – possa, in modo paradossale e al tempo stesso velleitario, riaffermare la verità delle cose, senza le illusioni che falsamente le imbellettano. Tutto questo fa schifo (r. 71): l’esistenza nel suo complesso, compresa la scrittura, che lo ha tenuto appeso alla vita. Alla fine non resta che l’ultimo imperativo, nudo e definitivo come un’epigrafe, il silenzio: Non scriverò più, (r 72).

Vola alta parola - volume 3
Vola alta parola - volume 3
Il Seicento e il Settecento