I testi

I testi

Temi e motivi dei brani antologizzati

T5

Alle origini di un’indole impetuosa

Epoca prima, capp. 2-4

 un bambino malinconico e orgoglioso

 i segni premonitori del carattere di Alfieri e della sua vocazione letteraria

 il bisogno d’amore: l’episodio della sorella e dei novizi

 l’intransigenza del fanciullo: l’episodio della reticella

T6

Le tappe di un viaggiatore in fuga dal mondo

Epoca terza, cap. 8

 un autoritratto in posa eroica, ma venato di autoironia

 gli atteggiamenti ribellistici del giovane Alfieri: il rifiuto di incontrare Metastasio e il colloquio con Federico II

 il gusto per i paesaggi estremi, tipico della temperie preromantica

T7

La fuga da Parigi

Continuazione della quarta epoca, cap. 22

 il resoconto della fuga fra eroico e rocambolesco

 l’indole sdegnosa di Alfieri maturo, giunto su posizioni reazionarie

 il rifiuto sprezzante della Rivoluzione francese

T5

Alle origini di un’indole impetuosa

Epoca prima, capp. 2-4

In questi capitoli l’autore ripercorre i primi momenti di cui conserva memoria. Dai racconti familiari e da aneddoti che riferiscono di atmosfere e piccoli eventi si delinea già il temperamento appassionato e umorale dell’uomo adulto.

CAPITOLO SECONDO

Reminiscenze dell’infanzia.


Ripigliando dunque a parlare della mia primissima età, dico che di quella stupida

vegetazione infantile,non mi è rimasta altra memoria se non quella d’uno zio

5      paterno, il quale avendo io tre anni in quattr’anni,mi facea por rittosu un antico

cassettone, e quivi molto accarezzandomi mi dava degli ottimi confetti. Io non mi

ricordava più quasi puntodi lui, né altro me n’era rimasto fuorch’egli portava certi

scarponi riquadrati in punta. Molti anni dopo, la prima volta che mi vennero agli

occhi certi stivali a tromba,che portano pure la scarpa quadrata a quel modo stesso

10    dello zio morto già da gran tempo, né mai più veduto da me da che io aveva uso di

ragione, la subitaneavista di quella forma di scarpe del tutto oramai disusata, mi

richiamava ad un tratto tutte quelle sensazioni primitivech’io aveva provate già nel

ricevere le carezze e i confetti dello zio, di cui i motied i modi, ed il sapore perfino

dei confetti mi si riaffacciavano vivissimamente ed in un subito nella fantasia.Mi

15    sono lasciata uscir di penna questa puerilità,10 come non inutile affatto a chi specula

sul meccanismo delle nostre idee, e sull’affinità dei pensieri colle sensazioni.11

Nell’età di cinque anni circa, dal mal de’ pondi12 fui ridotto in fine;13 e mi pare

di aver nella mente tuttavia un certo barlume de’ miei patimenti; e che senza aver

idea nessuna di quello che fosse la morte, pure la desiderava come fine di dolore;

20    perché quando era morto quel mio fratello minore,14 avea sentito dire ch’egli era

diventato un angioletto.

Per quanti sforzi io abbia fatto spessissimo per raccogliere le idee primitive,

o sia le sensazioni ricevute prima de’ sei anni, non ho potuto mai raccapezzarne

altre che queste due. La mia sorella Giulia, ed io, seguitando il destino della madre,

25    eramo15 passati dalla casa paterna ad abitare con lei nella casa del patrigno, il quale

pure ci fu più che padre per quel tempo che ci stemmo. La figlia ed il figlio del

primo letto rimasti,16 furono successivamente inviati a Torino, l’uno nel Collegio

de’ Gesuiti, l’altra nel monastero; e poco dopo fu anche messa in monastero, ma

in Asti stessa, la mia sorella Giulia, essendo io vicino ai sett’anni. E di quest’avvenimento

30   domestico mi ricordo benissimo, come del primo punto17 in cui le facoltà

mie sensitive18 diedero cenno di sé. Mi sono presentissimi i dolori e le lagrime

ch’io versai in quella separazione di tetto19 solamente, che pure a principio non

impediva ch’io la visitassi ogni giorno. E speculando20 poi dopo su quegli effetti

e sintomi del cuore provati allora, trovo essere stati per l’appunto quegli stessi che

35    poi in appresso21 provai quando nel bollore22 degli anni giovenili mi trovai costretto

a dividermi da una qualche amata mia donna;23 ed anche nel separarmi da

un qualche vero amico, che tre o quattro successivamente ne ho pure avuti finora;

fortuna che non sarà toccata a tanti altri, che gli avranno forse meritati più di me.

Dalla reminiscenza di quel mio primo dolore del cuore, ne ho poi dedotta la prova

40    che tutti gli amori dell’uomo, ancorché24 diversi, hanno lo stesso motore.25

Rimasto dunque io solo di tutti i figli nella casa materna, fui dato in custodia

ad un buon prete, chiamato don Ivaldi, il quale m’insegnò cominciando dal compitare26

e scrivere, fino alla classe quarta, in cui io spiegava non male, per quanto

diceva il maestro, alcune vite di Cornelio Nipote,27 e le solite favole di Fedro.28 Ma

45    il buon prete era egli stesso ignorantuccio,29 a quel ch’io combinai30 poi dopo; e

se dopo i nov’anni mi avessero lasciato alle sue mani, verisimilmente non avrei

imparato più nulla. I parenti erano anch’essi ignorantissimi; e spesso udiva loro

ripetere quella usuale massima dei nostri nobili di allora; che ad un Signore non

era necessario di diventar un Dottore. Io nondimeno aveva per natura una certa

50    inclinazione allo studio, e specialmente dopo che uscì di casa la sorella, quel ritrovarmi

in solitudine col maestro mi dava ad un tempo malinconia e raccoglimento.

CAPITOLO TERZO

Primi sintomi di un carattere appassionato.


Ma qui mi occorre di notare un’altra particolarità assai strana, quanto allo sviluppo

delle mie facoltà amatorie. La privazione della sorella mi avea lasciato addolorato

per lungo tempo, e molto più serio in appresso.31 Le mie visite a quell’amata sorella

55    erano sempre andate diradando, perché essendo sotto il maestro,32 e dovendo

attendere allo studio, mi si concedeano solamente nei giorni di vacanza o di festa,

e non sempre. Una tal quale consolazione di quella mia solitudine mi si era andata

facendo sentire a poco a poco nell’assuefarmi ad andare ogni giorno alla chiesa

del Carmine attigua alla nostra casa; e di sentirvi spesso della musica, e di vedervi

60    uffiziare33 quei frati, e far tutte le ceremonie della messa cantata, processione, e

simili. In capo a più mesi non pensavo più tanto alla sorella; ed in capo a più altri,

non ci pensava quasi più niente, e non desiderava altro che di essere condotto

mattina e giorno al Carmine. Ed eccone la ragione. Dal viso di mia sorella in poi, la

quale avea circa nov’anni quando uscì di casa, io non aveva più veduto usualmente

65    altro viso di ragazza né di giovane, fuorché certi fraticelli novizj del Carmine, che

poteano avere tra i quattordici e sedici anni all’incirca, i quali coi loro roccetti34

assistevano alle diverse funzioni di chiesa. Questi loro visi giovenili, e non dissimili

da’ visi donneschi,35 aveano lasciato nel mio tenero ed inesperto cuore a un

di presso36 quella stessa traccia e quel medesimo desiderio di loro, che mi vi avea

70    già impresso il viso della sorella. E questo insomma, sotto tanti e sì diversi aspetti,

era amore; come poi pienamente conobbi e me ne accertai parecchi anni dopo,

riflettendovi su; perché di quanto io allora sentissi o facessi nulla affatto sapeva, ed

obbediva al puro istinto animale.37 Ma questo mio innocente amore per que’ novizj,

giunse tant’oltre, che io sempre pensava ad essi ed alle loro diverse funzioni; or

75    mi si rappresentavano nella fantasia coi loro devoti ceri in mano, servienti la Messa

con viso compunto38 ed angelico, ora coi turiboli39 incensando l’altare; e tutto assorto

in codeste imagini, trascurava i miei studj, ed ogni occupazione, o compagnia

mi nojava. Un giorno fra gli altri, stando fuori di casa il maestro, trovatomi solo

in camera, cercai ne’ due vocabolarj latino e italiano l’articolo frati; e cassata40 in

80    ambidue quella parola, vi scrissi Padri; così credendomi di nobilitare, o che so io

d’altro, quei novizietti ch’io vedeva ogni giorno, con nessun dei quali avea però

mai favellato,41 e da cui non sapeva assolutamente quello ch’io mi volessi. L’aver

sentito alcune volte con qualche disprezzo articolare la parola Frate, e con rispetto

ed amore quella di Padre, erano le sole cagioni per cui m’indussi a correggere quei

85    dizionarj; e codeste correzioni fatte anche grossolanamente col temperino e la penna,

le nascosi poi sempre con gran sollecitudine e timore al maestro, il quale non se

ne dubitando,42 né a tal cosa certamente pensando, non se n’avvide poi mai. Chiunque

vorrà riflettere alquanto su quest’inezia, e rintracciarvi il seme delle passioni

dell’uomo, non la troverà forse né tanto risibile né tanto puerile, quanto ella pare.

90    Da questi sì fatti effetti d’amore ignoto intieramente a me stesso,43 ma pure tanto

operante nella mia fantasia, nasceva, per quanto ora credo, quell’umor malinconico,

che a poco a poco s’insignoriva44 di me, e dominava poi sempre su tutte le

altre qualità dell’indole mia. Fra i sette ed ott’anni, trovandomi un giorno in queste

disposizioni malinconiche, occasionate45 forse anche dalla salute che era gracile

95    anzi che no,46 visto uscire il maestro, e il servitore, corsi fuori del mio salotto che

posto a terreno riusciva in un secondo cortile, dove eravi intorno intorno molt’erba.

E tosto mi posi a strapparne colle mani quanta ne veniva, e ponendomela in

bocca a masticarne e ingojarne quanta più ne poteva, malgrado il sapore ostico47

ed amarissimo. Io avea sentito dire non so da chi, né come, né quando, che v’era

100  un’erba detta cicuta48 che avvelenava e faceva morire; io non avea mai fatto pensiero

di voler morire, e poco sapea quel che il morire si fosse; eppure seguendo così

un non so quale istinto naturale misto di un dolore di cui m’era ignota la fonte, mi

spinsi avidissimamente a mangiar di quell’erba, figurandomi che in essa vi dovesse

anco essere della cicuta. Ma ributtato poi dalla insopportabile amarezza e crudità

105  di un tal pascolo, e sentendomi provocato a dare di stomaco, fuggii nell’annesso

giardino, dove non veduto da chi che sia mi liberai quasi interamente di tutta

l’erba ingojata; e tornatomene in camera me ne rimasi soletto e tacito con qualche

doloruzzo di stomaco e di corpo. Tornò frattanto il maestro, che di nulla si avvide,

ed io nulla dissi. Poco dopo si dové andare in tavola, e mia madre vedendomi gli

110    occhi gonfi e rossi, come sogliono rimanere dopo gli sforzi del vomito, domandò,

insistendo, e volle assolutamente saper quel che fosse; ed oltre i comandi della

madre mi andavano anche sempre più punzecchiando i dolori di corpo, sì ch’io

non potea punto mangiare, e parlar non voleva. Onde io sempre duro a tacere, ed

a vedere di non mi scontorcere,49 la madre sempre dura ad interrogare e minacciarmi;

115 finalmente osservandomi essa ben bene, e vedendomi in atto di patire, e poi

le labbra verdiccie, che io non avea pensato di risciacquarmele, spaventatasi molto

ad un tratto si alza, si approssima a me, mi parla dell’insolito color delle labbra,

m’incalza e sforza a rispondere, finché vinto dal timore e dolore io tutto confesso

piangendo. Mi vien dato subito un qualche leggero rimedio, e nessun altro male

120 ne segue, fuorché per più giorni fui rinchiuso in camera per gastigo; e quindi nuovo

pascolo, e fomento50 all’umor malinconico.

CAPITOLO QUARTO

Sviluppo dell’indole indicato da varj fattarelli.


L’indole, che io andava intanto manifestando in quei primi anni della nascente

ragione, era questa. Taciturno e placido, per lo più; ma alle volte loquacissimo e

125 vivacissimo; e quasi sempre negli estremi contrarj; ostinato e restìo contro la forza,

pieghevolissimo agli avvisi amorevoli; rattenuto più che da nessun’altra cosa dal

timore d’essere sgridato; suscettibile di vergognarmi fino all’eccesso, e inflessibile

se io veniva preso a ritroso.51

Ma, per meglio dar conto ad altrui ed a me stesso di quelle qualità primitive che

130 la natura mi avea improntate nell’animo, fra molte sciocche istoriette accadutemi

in quella prima età, ne allegherò52 due o tre di cui mi ricordo benissimo, e che ritrarranno

al vivo il mio carattere. Di quanti gastighi mi si potessero dare, quello che

smisuratamente mi addolorava, ed a segno di53 farmi ammalare, e che perciò non

mi fu dato che due volte sole, egli era di mandarmi alla Messa colla reticella da notte

135 in capo, assetto che nasconde quasi interamente i capelli. La prima volta ch’io ci

fui condannato (né mi ricordo più del perché) venni dunque strascinato per mano

dal maestro alla vicinissima chiesa del Carmine; chiesa abbandonata,54 dove non

si trovavano mai quaranta persone radunate nella sua vastità; tuttavia sì fattamente

mi afflisse55 codesto gastigo, che per più di tre mesi poi rimasi irreprensibile.56 Tra

140 le ragioni ch’io sono andato cercando in appresso entro di me medesimo, per ben

conoscere il fonte57 di un simile effetto, due principalmente ne trovai, che mi diedero

intiera soluzione del dubbio. L’una si era, che io mi credeva gli occhi di tutti

doversi necessariamente affissare su quella mia reticella, e ch’io dovea essere molto

sconcio e diforme58 in codesto assetto, e che tutti mi terrebbero per un vero malfattore59

145 vedendomi punito così orribilmente. L’altra ragione si era, ch’io temeva

di esser visto così dagli amati novizj; e questo mi passava veramente il cuore.60 Or

mira, o lettore, in me omiccino il ritratto e tuo e di quanti anche uomoni sono stati

o saranno; che tutti siam pur sempre, a ben prendere,61 bambini perpetui.

Ma l’effetto straordinario in me cagionato da quel gastigo, avea riempito di

150 gioja i miei parenti e il maestro; onde ad ogni ombra di mancamento, minacciatami

la reticella abborrita, io rientrava immediatamente nel dovere,62 tremando.

Pure, essendo poi ricaduto al fine in un qualche fallo insolito, per iscusa del quale

mi occorse di articolare una solennissima bugia alla Signora Madre, mi fu di bel

nuovo sentenziata la reticella;63 e di più, che in vece della deserta chiesa del Carmine,

155 verrei64 condotto così a quella di S. Martino, distante da casa, posta nel bel

centro della città, e frequentatissima su l’ora del mezzo giorno da tutti gli oziosi del

bel mondo. Oimè, qual dolore fu il mio! pregai, piansi, mi disperai;65 tutto invano.

Quella notte, ch’io mi credei dover essere l’ultima della mia vita, non che chiudessi

mai occhio, non mi ricordo mai poi di averne in nessun altro mio dolore passata

160 una peggio. Venne alfin l’ora; inreticellato,66 piangente, ed urlante mi avviai stiracchiato67

dal maestro pel braccio, e spinto innanzi dal servitore per di dietro; e

in tal modo traversai due o tre strade, dove non era gente nessuna; ma tosto che

si entrò nelle vie abitate, che si avvicinavano alla piazza e chiesa di S. Martino, io

immediatamente cessai dal piangere e dal gridare, cessai dal farmi strascinare; e

165 camminando anzi tacito, e di buon passo, e ben rasente al prete Ivaldi, sperai di

passare inosservato nascondendomi quasi sotto il gomito del talare68 maestro, al

di cui fianco appena la mia staturina giungeva. Arrivai nella piena chiesa, guidato

per mano come orbo ch’io era; che in fatti chiusi gli occhi all’ingresso, non gli

apersi più finché non fui inginocchiato al mio luogo di udir la messa; né, aprendoli

170 poi, li alzai mai a segno di potervi distinguere nessuno. E rifattomi orbo all’uscire,

tornai a casa con la morte in cuore, credendomi disonorato per sempre. Non volli

in quel giorno mangiare, né parlare, né studiare, né piangere. E fu tale in somma e

tanto il dolore, e la tensione d’animo, che mi ammalai per più giorni; né mai più si

nominò pure in casa il supplizio della reticella, tanto era lo spavento che cagionò

175 alla amorosissima madre la disperazione ch’io ne mostrai. Ed io parimenti per

assai gran tempo non dissi piú bugia nessuna; e chi sa s’io non devo poi a quella

benedetta reticella l’essere riuscito in appresso un degli uomini i meno bugiardi

ch’io conoscessi.

Altra storietta. Era venuta in Asti la mia nonna materna, matrona di assai gran

180 peso in Torino, vedova di uno dei barbassori69 di corte, e corredata di tutta quella

pompa di cose, che nei ragazzi lasciano grand’impressione. Questa, dopo essere

stata alcuni giorni con la mia madre, per quanto mi fosse andata accarezzando

moltissimo in quel frattempo, io non m’era per niente addimesticato70 con lei,

come selvatichetto ch’io m’era; onde, stando essa poi per andarsene, mi disse ch’io

185 le doveva chiedere una qualche cosa, quella che più mi potrebbe soddisfare, e che

me la darebbe di certo. Io, a bella prima per vergogna e timidezza ed irresoluzione,

ed in seguito poi per ostinazione e ritrosia, incoccio71 sempre a rispondere la stessa

e sola parola: Niente; e per quanto poi ci si provassero tutti in venti diverse maniere

a rivoltarmi per pure estrarre da me qualcosa altro che non fosse quell’ineducatissimo

190 Niente, non fu mai possibile; né altro ci guadagnarono nel persistere gl’interrogatori,

se non che da principio il Niente veniva fuori asciutto, e rotondo; poi verso

il mezzo veniva fuori con voce dispettosa e tremante ad un tempo; ed in ultimo,

fra molte lagrime, interrotto da profondi singhiozzi. Mi cacciarono dunque, come

io ben meritava, dalla loro presenza, e chiusomi in camera, mi lasciarono godermi

195 il mio così desiderato Niente, e la nonna partì. Ma quell’istesso io, che con tanta

pertinacia aveva ricusato72 ogni dono legittimo della nonna, più giorni addietro le

avea pure involato73 in un suo forziere aperto un ventaglio, che poi celato nel mio

letto, mi fu ritrovato dopo alcun tempo; ed io allora dissi, com’era vero, di averlo

preso per darlo poi alla mia sorella. Gran punizione mi toccò giustamente per

200 codesto furto; ma, benché il ladro sia alquanto peggior del bugiardo, pure non mi

venne più né minacciato né dato il supplizio della reticella; tanta era più la paura

che aveva la mia madre di farmi ammalare di dolore, che non di vedermi riuscire

un po’ ladro; difetto, per il vero, da non temersi poi molto, e non difficile a sradicarsi

da qualunque ente74 non ha bisogno di esercitarlo. Il rispetto delle altrui

205 proprietà, nasce, e prospera prestissimo negl’individui che ne posseggono alcune

legittime loro.

E qui, a guisa di storietta, inserirò pure la mia prima Confessione spirituale,

fatta tra i sette ed otto anni. Il maestro mi vi andò preparando, suggerendomi egli

stesso i diversi peccati ch’io poteva aver commessi, dei più de’ quali io ignorava

210 persino i nomi. Fatto questo preventivo esame in comune col don Ivaldi, si fissò

il giorno in cui porterei il mio fastelletto75 ai piedi del Padre Angelo, carmelitano,

il quale era anche il confessore di mia madre. Andai: né so quel che me gli dicessi,

tanta era la mia natural ripugnanza e il dolore di dover rivelare i miei segreti

fatti e pensieri ad una persona ch’io appena conosceva. Credo, che il frate facesse

215 egli stesso la mia confessione per me; fatto si è che assolutomi76 m’ingiungeva di

prosternarmi77 alla madre prima di entrare in tavola, e di domandarle in tal atto

pubblicamente perdono di tutte le mie mancanze passate. Questa penitenza mi

riusciva assai dura da ingojare; non già, perché io avessi ribrezzo nessuno di domandar

perdono alla madre; ma quella prosternazione in terra, e la presenza di

220 chiunque vi potrebbe essere, mi davano un supplizio insoffribile. Tornato dunque

a casa, salito a ora di pranzo, portato in tavola, e andati tutti in sala, mi parve

di vedere che gli occhi di tutti si fissassero sopra di me; onde io chinando i miei

me ne stavo dubbioso e confuso ed immobile, senza accostarmi alla tavola, dove

ognuno andava pigliando il suo luogo;78 ma non mi figurava79 per tutto ciò, che

225 alcuno sapesse i segreti penitenziali della mia confessione. Fattomi poi un poco

di coraggio, m’inoltro per sedermi a tavola; ed ecco la madre con occhio arcigno

guardandomi, mi domanda se io mi ci posso veramente sedere; se io ho fatto

quel ch’era mio dovere di fare; e se in somma io non ho nulla da rimproverare a

me stesso. Ciascuno di questi quesiti mi era una pugnalata nel cuore; rispondeva

230 certamente per me l’addolorato mio viso; ma il labbro non poteva proferir parola;

né ci fu mezzo mai, che io volessi non che eseguire, ma né articolare né accennar

pure la ingiuntami penitenza.80 E parimente la madre non la voleva accennare, per

non tradire il traditor confessore. Onde la cosa finì, che ella perdé per quel giorno

la prosternazione da farglisi, ed io ci perdei il pranzo, e fors’anco l’assoluzione datami

235 a sì duro patto dal Padre Angelo. Non ebbi con tutto ciò per allora la sagacità

di penetrare81 che il Padre Angelo aveva concertato82 con mia madre la penitenza

da ingiungermi. Ma il core servendomi in ciò meglio assai dell’ingegno, contrassi

d’allora in poi un odietto bastantemente profondo pel suddetto frate, e non molta

propensione in appresso per quel sagramento ancorché nelle seguenti confessioni

240 non mi si ingiungesse poi mai più nessuna pena pubblica.

 >> pagina 591 

Dentro il TESTO

I contenuti tematici

Già da questi primi passi – in cui Alfieri, alla ricerca dei ricordi della sua infanzia, rievoca piccoli aneddoti e l’eco di alcune atmosfere e sensazioni – le intenzioni dello scrittore risultano chiarissime: interpretare sé stesso con sguardo distaccato e ironico; ripercorrere il filo del tempo a caccia dei segnali che preannunciano la sua futura indole di uomo adulto; rendere la propria biografia specchio dell’animo umano in genere, così che il lettore possa dedurre dall’analisi dei suoi ricordi le dinamiche generali che governano i caratteri più diversi.

Alfieri torna al tempo della sua stupida vegetazione infantile (rr. 2-3) e rammenta una preziosa gamma di sensazioni primitive (r. 11) che riaffiorano inaspettatamente alla memoria mediante la vista di un particolare apparentemente insignificante: un paio di scarpe simili a quelle che calzava suo zio. L’osservazione di Alfieri è estremamente moderna, poiché coglie come la memoria umana conservi non solo ricordi di fatti e persone, ma anche sensazioni particolari capaci di rievocare precise atmosfere (si troverà qualcosa di analogo nel ciclo romanzesco Alla ricerca del tempo perduto dello scrittore francese novecentesco Marcel Proust, il cui protagonista-narratore ritrova alcuni fondamentali ricordi e atmosfere dell’infanzia assaggiando casualmente una madeleine, un dolce che, proprio come le scarpe quadrate di cui parla Alfieri, gli riporta alla mente un passato che credeva dimenticato per sempre).

A partire dal recupero di questa sensazione di familiare dolcezza trae origine una pagina di cristallina intimità, che, in accordo con le teorie sensistiche, rivela l’affinità dei pensieri colle sensazioni (r. 15), dimostrando che la razionalità ha origine dalle impressioni raccolte dai sensi. Il contenuto di questo ricordo, infatti, non è costituito da parole o fatti, ma da sensazioni del gusto (il dolce dei confetti) e del tatto (le carezze dello zio al bambino).

Alla partenza della sorella Alfieri prova sofferenza e smarrimento, sentendo nell’animo una privazione (r. 53) che lo lascia addolorato per lungo tempo, e molto più serio in appresso (rr. 53-54). Ma il suo spirito è presto distolto dalla nuova attrazione per i fraticelli (r. 65), che colpiscono la sua immaginazione e colmano, seppure a livello irrazionale, quel confuso bisogno di amore e di figure di riferimento di cui il bambino si sente privo. Questo innocente amore (r. 73) occuperà in poco tempo tutto l’animo del giovane Alfieri, al punto che – ricorda a distanza di tanti anni – tutto assorto in codeste imagini, trascurava i miei studj, ed ogni occupazione, o compagnia mi nojava (rr. 76-78): osservazione che ancora una volta ha lo scopo di preannunciare il carattere maturo del narratore. Poco più avanti segue infatti una lunga nota didascalica in cui in quell’amore inconsapevole lo scrittore vede un segno premonitore della sua malinconia di adulto, che lo renderà solitario e inquieto.
L’infanzia di Alfieri contiene anche le prime tracce dello spirito antinobiliare e antitirannico che animerà lo scrittore nel corso di tutta la sua esistenza. Ricordando che i parenti erano anch’essi ignorantissimi; e spesso udiva loro ripetere quella usuale massima dei nostri nobili di allora; che ad un Signore non era necessario di diventar un Dottore (rr. 46-48), egli muove un’evidente critica alla nobiltà da cui proviene, giudicando negativamente la chiusura mentale di un ceto sociale arroccato su sé stesso e disinteressato alla cultura (non a caso uno dei primi obiettivi del giovane Alfieri sarà la fuga dall’ambiente chiuso e provinciale del regno sabaudo). Analogamente, nel rifiuto di sottoporsi alla penitenza imposta dal confessore (assolutomi m’ingiungeva di prosternarmi alla madre prima di entrare in tavola, rr. 215-216) si avvertono i primi indizi di uno spirito libero, a cui l’idea di inchinarsi, fosse pure davanti alla madre, ripugna totalmente.

 >> pagina 592 
Nel quarto capitolo, l’episodio della reticella, castigo a cui il bambino viene condannato due volte, dimostra quanto l’autore tenga alla sua immagine pubblica e alla considerazione di sé, sia per la paura di apparire un malfattore (rr. 144-145), sia per il terrore di esser visto così dagli amati novizj (r. 146), per cui prova un amore innocente e fantasioso. L’aneddoto, in questo caso, consente all’autore, oltre che di fornire il perfetto ritratto di un bambino orgoglioso, anticipatore del futuro uomo sdegnoso, anche di proporre una riflessione più universale sulla natura perennemente fanciullesca di ogni individuo (che tutti siam pur sempre, a ben prendere, bambini perpetui, r. 148).

Le scelte stilistiche

La lettura della Vita di Alfieri è gradevole anche per il lettore di oggi in virtù della sua sintassi regolare, caratterizzata da periodi di ragionevole estensione e da una costruzione delle frasi per lo più lineare, ben lontana dall’ampollosità retorica di molta letteratura settecentesca. Alfieri preferisce in genere il procedimento paratattico, che rende la prosa piana e scorrevole; inoltre la scelta di dividere il testo in capitoli dalle dimensioni contenute gli permette di dare rilievo ai momenti che ritiene più significativi per costruire, attraverso la rievocazione del passato, l’immagine complessa del proprio temperamento.

Il lessico è lontano da quello aulico delle tragedie: l’autore opta qui per scelte più colloquiali, che instaurano con il lettore un immediato clima di intimità, particolarmente adatto alla confessione e al racconto di sé. Alla creazione di questa atmosfera contribuisce l’uso frequente dei nomi alterati (vezzeggiativi e diminutivi in primis). Il tono più volte autoironico, e generalmente bonario, sottolinea invece i comportamenti eccessivi e le rea­zioni esagerate del protagonista.

Verso le COMPETENZE

Comprendere

1 Suddividi il testo in sequenze e assegna a ognuna un titolo.


2 Quali sono i primi ricordi di infanzia che ha Alfieri?


3 Come e perché Vittorio bambino corregge i dizionari?


4 Chi è Padre Angelo?

Analizzare

5 Sottolinea gli aggettivi che lo scrittore attribuisce al proprio carattere, dividendoli tra quelli che si riferiscono a pregi e quelli che rimandano a difetti.


6 Rintraccia i passi in cui Alfieri motiva la scelta di raccontare gli aneddoti della propria vita.


7 Nel testo sono presenti molti diminutivi e vezzeggiativi: rintracciali e spiega quale funzione hanno di volta in volta.

Interpretare

8 Commenta l’episodio della reticella: perché essa suscita una tale repulsione nel bambino? Quali sentimenti e paure provoca in lui?


9 Spiega quali tratti del carattere del protagonista rivelano gli episodi del tentato suicidio attraverso l’ingestione di erbe e del rifiuto di chiedere una cosa gradita alla nonna materna.

Produrre

10 Scrivere per esporre. Descrivi, in un testo di circa 15 righe, il carattere di Alfieri per come emerge complessivamente da questi ricordi di infanzia.

Dibattito in classe

11 In queste pagine, l’autore delinea le caratteristiche comportamentali che, a suo parere, lo distinguevano fin da bambino. Sei anche tu del parere che l’indole emersa nei primi anni di vita sia quella che resterà comunque prevalente anche nell’età adulta o credi che siano soprattutto le esperienze successive a plasmare il carattere di una persona? perché? Discutine con i compagni.

Vola alta parola - volume 3
Vola alta parola - volume 3
Il Seicento e il Settecento