L’opera

Vita

La vocazione autobiografica di Alfieri è una costante che attraversa tutta la sua produzione letteraria, ma che si esprime pienamente nel suo capolavoro in prosa, una delle più significative opere narrative del Settecento europeo. La Vita di Alfieri è uno dei primi esempi di autobiografia moderna, intesa come «racconto retrospettivo in prosa che una persona reale fa della propria esistenza, quando mette l’accento sulla sua vita individuale, in particolare sulla storia della sua personalità» (Lejeune). Anche per Alfieri, come per Rousseau, l’uomo è «una continuazione del bambino», e in base a questo principio l’autore indaga con scrupolo ricordi, «fatterelli» e «istoriette sciocche» che preannunciano la sua sensibilità e il suo carattere umorale e malinconico.

La struttura e i contenuti

L’opera e il suo significato

La prima stesura della Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da esso stesso risale al 1790, ma l’opera viene poi rielaborata dal 1798 al 1803, prima di uscire, postuma, nel 1806. Essa si compone di una Parte prima, che giunge fino al 1790, e di una Parte seconda, completata nel 1803, l’anno stesso della morte dell’autore.

La Parte prima è suddivisa in quattro “epoche”, corrispondenti alle prime quattro delle cinque età che, secondo Alfieri, costituiscono la vita dell’essere umano: Puerizia, Adolescenza, Giovinezza, Virilità; la Vecchiaia, annunciata nell’introduzione, non comparirà nella stesura finale. La Parte seconda contiene invece la Continuazione della quarta epoca.

La lunghezza delle diverse epoche è diseguale a causa dell’infittirsi progressivo dei ricordi a mano a mano che si riduce la distanza tra il tempo dei fatti e quello della scrittura: 5 capitoli nella prima epoca, 10 nella seconda, 15 nella terza; l’Epoca quarta (compresa la Continuazione) consta di ben 31 capitoli, anche perché riguarda un lasso temporale più ampio (quasi corrispondente alla somma di quello delle prime tre, ciascuna delle quali copre all’incirca nove anni).

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Mentre l’infanzia dell’autore è costellata di spinte inconsapevoli verso la ribellione e la solitudine, l’adolescenza è descritta come l’epoca in cui egli si sente più funestato dalle passioni, che lo portano a smarrirsi nella vita mondana, nell’ozio e nell’incostanza o ad abbandonarsi alla malinconia. Parallelamente lo scrittore riferisce della formazione culturale scadente e superficiale che ha ricevuto da educatori mediocri.

Nel narrare il periodo della giovinezza Alfieri si sofferma sul racconto degli anni di «viaggi e dissolutezze», durante i quali ha percorso in lungo e in largo l’Europa, incontrando artisti che lo hanno incoraggiato a dare forma al suo amore per le lettere.

Infine, nella quarta e ultima epoca, quella della virilità, l’autore si concentra sull’esperienza artistica: in questa fase si è infatti impegnato a studiare i classici e a “spiemontizzare” la sua lingua. Negli ultimi anni di vita il narratore riprende il racconto di quest’ultima parte, descrivendosi come uno spirito sempre più solitario e animato da sentimenti reazionari.

L’autore ripercorre la propria esistenza, fin dalla prima infanzia, a caccia di tutti gli elementi che potevano far presagire la sua vocazione letteraria e la sua indole indomita. Non vi è dunque, nella Vita, una narrazione oggettiva e continua di tutti gli aspetti biografici, ma una predilezione per l’aneddoto emblematico e per il ricordo capace di mettere in luce l’impetuosità del carattere e l’approdo alla letteratura, intesa come rifugio e come ragione di vita.

Ciò spiega l’omissione di molte vicende, l’aristocratico riserbo sulla folla degli uomini e delle donne frequentati, le reticenze su aspetti non reputati degni di una biografia esemplare. Alfieri pone l’accento sull’idealismo appassionato che, nonostante le incertezze e le debolezze, ha ispirato le sue azioni, e soprattutto sulla sua missione di «libero scrittore», presentita sin dai primi anni e poi tenacemente perseguita nella sua carriera letteraria. In tal modo egli rintraccia, a posteriori, i segni dei propri talenti innati, individuando anche in episodi o situazioni marginali le tracce premonitrici della sua inclinazione artistica e del suo temperamento irrequieto.

Motivi e personaggi

Se il motivo della vocazione letteraria può essere considerato una sorta di principio organizzatore dell’opera, altri temi la arricchiscono e ne variano i contenuti. Si è fatto cenno al tema del viaggio: nei suoi spostamenti Alfieri giunge a contemplare paesaggi naturali insoliti e di sublime bellezza, luoghi orridi e meravigliosi, che colpiscono vivamente il suo animo. Dalla Vita è facile desumere l’importanza che i viaggi hanno avuto nella formazione del suo carattere e del suo ingegno, avendogli fornito non tanto un corredo di cognizioni artistiche, archeologiche o storiche, quanto la conoscenza diretta del mondo e dei suoi problemi. Da questo punto di vista, Alfieri è avvantaggiato dalla sua condizione di aristocratico, che gli impone di presentarsi, in ogni paese in cui giunga, agli ambasciatori del proprio sovrano, entrando così in relazione con loro e in generale con i diplomatici europei e con i frequentatori dei loro salotti.

Va poi menzionato il tema politico, che emerge a più riprese con i giudizi radicali e sprezzanti espressi da Alfieri sui governi degli Stati che visita, con la sola eccezione della monarchia costituzionale inglese. L’impulso antitirannico è anch’esso letto dall’autore come un’inclinazione insopprimibile, allo stesso modo di quella letteraria (e d’altra parte sappiamo come questo motivo sostanzi gran parte delle tragedie alfieriane): in questo senso Alfieri rivendica la decisione di lasciare l’esercito nel 1774 e quella, presa quattro anni più tardi, di fare donazione del suo feudo alla sorella per «disvassallarsi» (cioè per liberarsi da ogni vincolo di vassallaggio) nei confronti del re di Sardegna.

Molto importante, infine, è il tema amoroso: come gradualmente approda alla conversione letteraria, così il protagonista passa dai «tristi amori» giovanili, sensuali e libertini, al «degno amore» per la donna della sua vita, la contessa Luisa Stolberg d’Albany, che lo «allaccia finalmente per sempre»

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Come in ogni autobiografia, anche in quella di Alfieri (e qui più che in altre) l’io narrante campeggia sulla scena quale protagonista assoluto; un certo narcisismo di fondo, del resto, è connesso alla pratica autobiografica in quanto tale: è lo stesso Alfieri a riconoscere, all’inizio della Vita, che «il parlare, e molto più lo scrivere di sé stesso, nasce senza alcun dubbio dal molto amor di sé stesso».

Accanto alla sua compaiono anche altre figure (le persone con cui si relaziona, in positivo o in negativo), alle quali però è riservato uno spazio decisamente secondario, come nel caso delle donne amate e della stessa Stolberg (che pure è oggetto di lodi molto sentite). Meglio tratteggiata è la figura del servo Elia, che in diverse circostanze assume il ruolo di “spalla” dell’io narrante.

Per evitare che l’insistenza sulle movenze eroicizzanti di un protagonista sempre al centro della rappresentazione possa alla lunga irrigidire la figura dell’io narrante in una posa monumentalizzata, Alfieri si serve di una sorta di contrappeso, quello dell’autoironia, mettendo talvolta alla berlina l’estremismo e la spigolosità della propria indole. L’ironia scaturisce dalla distanza tra il narratore e il personaggio: il tempo che separa i ricordi dal presente permette al primo di giudicare il secondo con distacco, e di evidenziarne gli atteggiamenti teatrali, le risposte troppo gridate, le reazioni fuori misura in cui è incappato.

L’ironia si coglie anche nel congedo scherzoso con cui l’autore prende commiato dal lettore, impegnandosi a continuare in seguito la narrazione con la quinta e ultima epoca, quella inerente alla vecchiaia (che non scriverà mai): «A rivederci, o lettore, se pur ci rivedremo, quando io barbogio [vecchio brontolone], sragionerò anche meglio, che fatto non ho in questo Capitolo Ultimo della mia agonizzante virilità».

Le forme del racconto

Modelli e originalità

Quando si accinge a scrivere la Vita, Alfieri ha di fronte a sé diversi modelli di scrittura autobiografica: non solo l’antico esempio delle Confessioni di Agostino e la cinquecentesca Vita di Cellini, ma anche i recenti Mémoires di Goldoni e, soprattutto, le Confessioni del letterato e filosofo ginevrino Jean-Jacques Rousseau, da poco pubblicate in Francia (la prima parte esce nel 1782, la seconda nel 1788).

È difficile pensare che Alfieri non conoscesse questo testo, anche perché in Francia, dove egli viveva in quel periodo, aveva suscitato accese discussioni per la novità dei contenuti, per esempio per quanto riguarda la centralità delle esperienze infantili nella costruzione della personalità dell’individuo. Alfieri riprende, insieme ad altri, anche tale elemento, manifestando però, rispetto a Rousseau, un maggiore controllo emotivo, che lo porta a evitare gli slanci di sincerità e gli abbandoni patetici tipici dello scrittore ginevrino. Infatti, mentre quest’ultimo persegue un totale disvelamento del proprio io, Alfieri, nell’introduzione alla Vita, pur impegnandosi a non dire mai «cosa che vera non sia», ammette: «io non avrò forse il coraggio o l’indiscrezione di dir di me tutto il vero».

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Muovendosi con assoluta libertà tra i modelli a disposizione, Alfieri giunge così, nella Vita, a uno stile decisamente originale. Esso si caratterizza in primo luogo per la concisione narrativa, che non concede spazio a rievocazioni aneddotiche fini a sé stesse. È lo stesso autore ad affermare tale intento, già nell’introduzione: «Non intendo perciò di permettermi delle risibili lungaggini accennando ogni minuzia». Egli opera dunque una precisa selezione di fatti ed episodi, subordinata – come si è visto – agli scopi generali dell’opera: «Alfieri narra con efficacia e rapidità; evita le digressioni; insegue non il tempo perduto, ma il filo dell’autocoscienza» (Gardini).

Alla ricerca di una lingua adatta

Nella vita quotidiana Alfieri scriveva in francese: un francese d’uso, talvolta libero e scorretto, ma complessivamente buono. Nella conversazione con gli amici piemontesi e con il servo Elia usava invece il dialetto piemontese. Nell’autobiografia egli racconta la propria “sfrancesizzazione“ e “spiemontizzazione”, che procede di pari passo con l’acquisizione delle strutture linguistiche e lessicali del toscano e la maturazione della vocazione poetica.

Dalle pagine della Vita si ricavano informazioni sulle altre lingue per cui Alfieri nutre interesse, oltre al toscano. Durante il primo soggiorno a Firenze egli studia l’inglese, che apprezza soprattutto perché gli riconosce un primato civile, quello di essere la lingua della patria della «vera libertà» e del «miglior governo». Dal 1776 studia nuovamente il latino, avendolo quasi completamente dimenticato, e successivamente decide di imparare, da autodidatta, il greco.

L’italiano, cioè il toscano letterario, è per Alfieri una vera conquista, raggiunta attraverso lunghi studi e un grande amore per la tradizione letteraria italiana, che inizialmente conosceva poco, tanto da farsi legare alla sedia – come racconta in un celebre episodio della Vita – dal fedele servitore Elia, per potersi dedicare esclusivamente alla lettura dei classici, senza la tentazione di cedere ad altre distrazioni.

Lo stesso trasferimento in Toscana, avvenuto nel 1776, è dettato dall’ansia di impossessarsi della lingua italiana: Alfieri vive principalmente a Firenze, ma anche a Siena e a Pisa, inaugurando così la pratica, che sarà molto diffusa nell’Ottocento, del soggiorno toscano per imparare a «parlare, udire, pensare, e sognare in toscano, e non altrimenti mai più» (IV, 2).

La Vita è un esempio della prosa matura di Alfieri, in cui convivono elementi della tradizione, talvolta anche iperletterari (cioè volutamente distanti dal linguaggio comune), e tratti innovativi o colloquiali, rilevabili sia nel lessico sia nella sintassi. Anche in virtù della sua formazione linguistica, lo stile alfieriano è dunque assai personale.

L’inventiva lessicale della Vita si deve soprattutto all’uso intensivo di suffissi per formare parole alterate (spesso con valore satirico, come nel caso dei sostantivi «vanitaduzza» e «tisicuzzo») e di neologismi ottenuti fondendo voci esistenti in composti nuovi (per esempio «servipadroni» e «schiavi-democratizzata», entrambi riferiti alla Francia rivoluzionaria).

Il gusto per la brevitas e l’incisività narrativa emergono nel frequente ricorso allo stile nominale, nella sintassi semplice, spesso caratterizzata da periodi quasi privi di subordinate, nonché nei bizzarri accostamenti di vocaboli dalla forte pregnanza espressiva («chiacchiere gazzettarie», «vortice grammatichevole», «barbaria di gallicheria»).

Vola alta parola - volume 3
Vola alta parola - volume 3
Il Seicento e il Settecento