Attualità del trattato Dei delitti e delle pene di Stefano Rodotà

LETTURE critiche

Attualità del trattato Dei delitti e delle pene

di Stefano Rodotà

Un importante giurista, Stefano Rodotà (1933-2017), evidenzia in questo brano il ruolo di “simbolo” e di “autorità” che a Beccaria viene tutt’oggi assegnato quando si parla della necessità di abolire, dove ancora sia in vigore, la pena di morte. Ma questo tema è soltanto uno dei molti affrontati dal suo trattato ed è, per così dire, la diretta conseguenza di tutta una serie di altri ragionamenti che l’autore sviluppa nelle pagine del libro. Al fondo di esso c’è un'idea precisa della «pubblica felicità», al cui interno si colloca il dibattito sul diritto penale. Da qui la condanna dell'«arbitrio», il principale bersaglio polemico dell'opera beccariana, che possiede – come scrive Rodotà – un preciso «carattere politico». Ma nella sua disamina delle problematiche sociali che spesso sono alla base dei comportamenti criminali, Beccaria sembra spingersi oltre, fino a una critica dell’assolutezza del diritto di proprietà: mostrandosi, in questo, molto più radicale rispetto alla media degli orientamenti filosofici e politici del suo tempo.

C’è ancor oggi un “appello a Beccaria” che scatta quando si teme, s’intravede, si constata il rischio d’un imbarbarimento del sistema giuridico. Un appello contro la pena di morte, ovviamente; o contro la tortura; ma anche contro la lunghezza dei giudizi1 e della carcerazione preventiva, contro gli abusi in materia di prove o il ricorso ai delatori (i nostri “pentiti”). Poco importa se, periodicamente, qualcuno s’incarica di ricordare che, proprio sul tema per il quale più il suo nome viene ricordato, Cesare Beccaria non fu così assoluto nella negazione come l’abitudine delle citazioni farebbe pensare. Il ricorso alla pena di morte non è da lui sempre e comunque condannato. In due casi, anzi, viene esplicitamente giustificato e ammesso: quando un cittadino, per le sue “relazioni” e “potenza”, “interessi la sicurezza della nazione” e “la sua esistenza possa produrre una rivoluzione pericolosa nella forma di governo stabilita”; e quando “la di lui morte fosse il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti”.

Ma all’esercito dei non lettori di Beccaria tutto questo non interessa. E giustamente. Il rifiuto della pena di morte come strumento ordinario di politica criminale segna il suo tempo con una tale radicalità da trasformarlo in parola d’ordine e in programma politico destinati a sopravvivere all’epoca in cui quel rifiuto venne pronunciato, e alle stesse intenzioni del suo autore. Diventa un punto irrinunciabile di civiltà giuridica, anzi l’avvio stesso per la costruzione d’un sistema giuridico civile.

Questo punto di scandalo e di forza non esaurisce il libro, non ne costituisce la premessa. Compare quando già il suo svolgimento si è pienamente delineato. Se pure rappresenta il momento più alto della polemica, al tempo stesso appare come una conclusione persino obbligata. A quel punto il lettore partecipe, e anche il critico, sa bene che altro non potrebbe essere detto.

Una trama complessa ci conduce non solo all’insieme del sistema penale, ma al di là di questo. Beccaria, in realtà, guarda alle relazioni sociali nel loro complesso, al ruolo che per esse si deve assegnare al diritto. Volge il suo sguardo in diverse direzioni, e di questo giunge persino a scusarsi: “il corso delle mie idee mi ha trasportato fuori del mio soggetto, al rischiaramento del quale debbo affrettarmi”. Ma non c’è “rischiaramento” più efficace di quello che nasce da questi continui allargamenti dell’orizzonte, da questo incessante mostrare come il discutere di delitti e di pene non sia affare di pura tecnica criminale, bensi tocchi quel più alto e complessivo tema della “pubblica felicità” che attraversa e ispira ogni pagina di questo libro.

Dei delitti e delle pene, dunque, può essere letto in vari modi. Come un compiuto programma di politica criminale, che colpisce i contemporanei e apre al suo autore anche le difficili vie della progettazione legislativa. Come un felice prodotto dello spirito del tempo, dove il culto dei “lumi” s’incarna nella richiesta di regole giuridiche finalmente affidate solo alla loro stessa chiarezza. Come una esplorazione sociale, ansiosa di dare un senso al reato e alla pena, spogliati d’ogni valutazione e ragione che non siano quelle di logiche riconoscibili nella dinamica dell’organizzazione della società, nelle utilità che all’interno di questa devono essere prodotte (unica misura dei delitti è il “danno alla società”). Come una teoria della giustizia o, più ancora, della libertà; e, insieme a questa, dell’eguaglianza.

L’arbitrio è il grande oggetto polemico, nemico della ragione e degli uomini. Un potere sciolto da vincoli è inaccettabile. Il diritto è lo strumento per sottrarsi a un destino di negazione dei diritti individuali e per la costruzione d’una società nella quale siano netti e rilevanti gli interessi generali, comuni. Dei delitti e delle pene, allora, non può essere solo considerato come un manifesto, grandissimo, del garantismo. Al di là della difesa della libertà individuale, si delinea la trama delle relazioni sociali all’interno delle quali questa è destinata a produrre i suoi frutti, a dare l’impronta alla società nel suo insieme. Il carattere politico di questo scritto esplode. Ben più che la presentazione sistematica delle diverse argomentazioni, è questa caratteristica a conferirgli forza e ad assicurargli una straordinaria fortuna.

Questa è un’opera tipica d’un tempo di passaggio. [...]

Qui il passaggio è chiaro, scandito, dalla condizione di suddito a quella di cittadino. Dal “governo degli uomini” al “governo delle leggi” (al “dispotismo delle leggi”, nel linguaggio e nella logica di Beccaria). Dalle mille costrizioni d’una metafisica o d’una filosofia alle vie verso la felicità che, proprio in quegli anni, la Costituzione americana proclamava come un diritto.

Qui il diritto è “desacralizzato”, misurato com’è solo sulla storia e sugli uomini. Non appare con i segni d’una tecnica astratta e ostile, come un privilegio di sacerdoti distanti e temibili, ma come uno strumento sociale che ognuno dovrebbe poter maneggiare.

Ho una istintiva diffidenza verso la “attualizzazione” di opere classiche. La reputo una inammissibile distorsione, una iattura. Ma, vivendo anche noi un’epoca di passaggio, possiamo meglio apprezzare senso e portata che, in Beccaria, assume l’appello al diritto. Vediamo i limiti del suo argomentare, sappiamo che è un ideale inattingibile la chiarezza assoluta delle leggi o l’assenza di interpretazione da parte dei giudici, conosciamo la debolezza teorica dello schema del sillogismo giudiziario. E tuttavia vediamo pure riproporsi i mali antichi. La pena di morte non è scomparsa, la tortura ha addirittura conosciuto un’orribile rinascita, il disordine legislativo ci avvolge, i giudizi sono eterni. L’arbitrio, di nuovo l’arbitrio di poteri prepotenti e incontrollati, sembra avere il sopravvento. Il ritorno del diritto non è un rifugio, una mossa disperata: ricompare come la via regia per garantire, a un tempo, i diritti dei cittadini e l’equilibrio nell’organizzazione sociale.

Ma dove deve condurci il diritto? Per Beccaria, esso non è una mera garanzia procedurale. È anche questo, ma guardando verso il fine della felicità, dell’eguaglianza. Il gran tema della felicità possiede questo libro, e l’epoca in cui fu scritto, della quale, dunque, ben può apparire come un risultato coerente e maturo. C’è, però, un momento nel quale questa attenzione si dilata e si specifica, Beccaria sembra andare al di là dalle sue abituali fonti, visibili ma non dichiarate, e respirare un’aria che non è più solo quella del mondo in cui pure intensamente vive.

Il raggiungimento della felicità appare inscindibile dall’eguaglianza. Sulla analisi penalistica s’innesta così una riflessione su condizioni materiali, differenze di fortuna e di possibilità, leggi volte a soddisfare soltanto l’interesse di pochi. E non ci si limita a segnare la via dell’unicità soggettiva del diritto penale come quella che appunto promuove e produce eguaglianza tra i cittadini. L’origine e l’impiego delle ricchezze divengono tema ricorrente nel discorso, con accenti netti contro il parassitismo e indicazione di limiti che appaiono invalicabili: “le ricchezze comprano piaceri e non autorità”, se non si vuole che lo stesso ordine politico risulti stravolto e corrotto.

Ma, spingendosi al di là dell’impiego buono e ben regolato delle ricchezze, Beccaria lascia cadere un dubbio più radicale. Parlando del furto, lo indica come “il delitto della miseria e della disperazione, il delitto di quella infelice parte di uomini a cui il diritto di proprietà (terribile, e forse non necessario diritto) non ha lasciato che una nuda esistenza”. Con quelle poche parole tra parentesi Beccaria revoca in dubbio uno dei presupposti della discussione all’interno della quale pur’egli si muove; abbandona la logica dell’assolutezza della proprietà, alla quale è solo disposto a riconoscere un carattere strumentale. Scriverà, infatti, più avanti: “il commercio, la proprietà dei beni, non sono un fine del patto sociale, ma possono esser un mezzo per ottenerlo”. Sottolineo quel “possono”: non c’è, dunque, un rapporto di necessità tra realizzazione dei fini del patto sociale e riconoscimento sociale e giuridico del diritto di proprietà.

Nelle parole di Beccaria – in quel suo insistere su “miseria”, “disperazione” e infelicità – c’è un forte tratto di pietà umana, che incrina per un momento la rigorosa concezione del delitto come danno sociale, fa emergere appunto una condizione di ineguaglianza e la segnala all’attenzione di chi deve giudicare [...]. Ma Beccaria non si ferma qui, non si limita a dar prova di comprensione.

Ciò che rende davvero “terribile” il diritto di proprietà è il suo essere strumento di esclusione di cittadini, “di quella infelice parte di uomini a cui (...) non ha lasciato che una nuda esistenza”. La critica, dunque, s’indirizza al modo d’essere dell’organizzazione sociale, al ruolo che in essa assume il riconoscimento della proprietà come diritto assoluto. E Beccaria intuisce e anticipa così il gran tema del secolo successivo, che non caratterizza solo il pensiero socialista e comunista, ma fa esclamare ad Alexis de Tocqueville2 (nei Souvenirs del 1850-51, con una non casuale sintonia con il Manifesto dei comunisti) che “le grand champ de bataille sera la propriéte”.3

Non solo per questo, ma sicuramente anche per questo, a Cesare Beccaria toccherà la ventura d’essere uno dei primi destinatari dell’aggettivo “socialista”, con assoluta connotazione negativa. Lo farà il più aspro e rapido dei suoi critici, il monaco Francesco Facchinei, riprendendo un termine ch’era stato coniato dodici anni prima da un altro religioso, il benedettino tedesco Anselm Desing, per criticare Samuel Pufendorf,4 così intendendo denunciare l’abbandono d’ogni trascendenza, il risolvere tutto nella logica della società e della storia.

Più puntualmente, proprio il passaggio sulla proprietà susciterà lo sconcerto di Jeremy Bentham.5 È sorprendente – scriverà nei Principles of the Civil Code – che uno scrittore giudizioso come Beccaria possa aver inserito, in un’opera dettata dalla più ragionevole filosofia, un dubbio sovversivo dell’ordine sociale”. E più avanti Cesare Cantù6 accentuerà i toni dello scandalo, ricordando che quel modo di guardare alla proprietà era stato rimproverato a Beccaria “come di sentimento comunista”.

Il corpo di quest’opera s’infittisce così di aperture e di scatti nelle più diverse direzioni. Svolgimenti compiuti e intuizioni si mescolano, in una sfaccettatura che farà sì apparire aporie e debolezze ma al tempo stesso è il segno d’una indiscutibile ricchezza. A tenere insieme il tutto c’è uno spirito profondo, che forse è espresso nel modo migliore da una esplicita confessione dell’autore: “se sostenendo i diritti degli uomini e dell’invincibile verità contribuissi a strappare dagli spasimi e dalle angosce della morte qualche vittima sfortunata della tirannia e dell’ignoranza, ugualmente fatale, le benedizioni e le lagrime anche d’un solo innocente nei trasporti della gioia mi consolerebbero del disprezzo degli uomini”. In questo tratto fiero e sdegnoso si scorge una moralità profonda. Come le ricchezze non devono servire a comprare potere, così il lavoro intellettuale non può essere usato per conquistare benevolenza e consenso.


Stefano Rodotà, Prefazione, in Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, Feltrinelli, Milano 2009

Comprendere il pensiero critico

1 In quali modi può essere letto Dei delitti e delle pene?


2 L’opera di Beccaria secondo Rodotà è tipica di un tempo di passaggio: che cosa significa? A quale passaggio si riferisce?


Dei delitti e delle pene tratta anche del complesso rapporto che l’ineguaglianza instaura con il diritto: riassumine brevemente i concetti chiave, spiegandone i risvolti sovversivi che sono valsi all’autore il titolo di “socialista”.

Vola alta parola - volume 3
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Il Seicento e il Settecento